Sentenza n. 15 del 2018

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SENTENZA N. 15

ANNO 2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                            Presidente

-           Giorgio                        LATTANZI                                        Giudice

-           Aldo                             CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                              ”

-           Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                             ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                 ”

-           Daria                            de PRETIS                                                ”

-           Nicolò                          ZANON                                                    ”

-           Augusto Antonio         BARBERA                                               ”

-           Giovanni                      AMOROSO                                              ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara, nel procedimento vertente tra Studio Cinque Outdoor srl e il Comune di Montesilvano e altra, con ordinanza del 1° febbraio 2017, iscritta al n. 66 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 dicembre 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato.

Ritenuto in fatto

1.– La Commissione tributaria provinciale di Pescara, con ordinanza del 1° febbraio 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 97, 102, 114, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3), e 119 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», nella parte in cui non estende a tutti i Comuni l’efficacia dell’abrogazione della facoltà di aumento delle “tariffe base” dell’imposta comunale di pubblicità (ICP), disciplinata dall’art. 11, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), come modificato dall’art. 30, comma 17, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge finanziaria 2000)».

La disposizione censurata prevede che: «[l]’articolo 23, comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, nella parte in cui abroga l’articolo 11, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, relativo alla facoltà dei comuni di aumentare le tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212, si interpreta nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i comuni che si erano già avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore del predetto articolo 23, comma 7, del decreto-legge n. 83 del 2012».

2.– La Commissione tributaria provinciale rimettente riferisce di essere chiamata a pronunciarsi a seguito dell’impugnazione di un atto di accertamento relativo all’imposta comunale sulla pubblicità del Comune di Montesilvano per l’anno 2015 – sostitutivo di un precedente atto e recante una rimodulazione degli importi dovuti a seguito di mediazione tributaria – censurato in relazione alle modalità di accertamento dell’imposta, con richiesta, altresì, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015.

2.1.– Premette il giudice a quo che l’imposta comunale sulla pubblicità è disciplinata dal Capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), che ha introdotto una “tariffa base” a carico delle imprese pubblicitarie, applicandola ai Comuni, soggetti attivi di tale imposta, suddivisi in cinque classi a seconda del numero degli abitanti, in ossequio all’art. 53 Cost. (art. 2); tariffa base a cui il regolamento comunale può apportare una serie di maggiorazioni previste dallo stesso d.lgs. n. 507 del 1993. Il Comune interessato, quindi, entro il 31 marzo dell’anno di riferimento dell’imposta, deve determinare l’ammontare di essa con le varie maggiorazioni.

Nella tracciata ricostruzione, il rimettente precisa che l’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 507 del 1993, dispone, in caso di mancata delibera per gli anni successivi a quello di adozione del regolamento, che sono prorogate le tariffe dell’anno precedente (principio di “ultrattività delle tariffe”).

L’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997, «nel testo modificato dall’art. 30, 1° comma, n. 388/1999 (recte: art. 30, comma 17, della legge n. 488 del 1999), ha previsto per i Comuni la facoltà di stabilire ulteriori maggiorazioni, fino al cinquanta per cento dell’imposta, in considerazione delle differenti realtà socio-economiche del territorio di riferimento.

Tale facoltà è stata sospesa dapprima dall’art. 1, comma 7, del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93 (Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126. La sospensione è stata poi confermata, per il triennio 2009-2011, dall’art. 77-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Successivamente, l’art. 4, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, ha abrogato l’art. 77-bis, comma 30, del d.l. n. 112 del 2008 e la sospensione, da esso prevista, del potere degli enti locali di adottare aumenti delle aliquote.

Limitatamente alle tariffe dell’imposta di pubblicità, da ultimo, è intervenuto l’art. 23, comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha definitivamente abrogato la facoltà di disporre le ulteriori maggiorazioni all’ICP, introdotta dall’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997. L’art. 23, comma 11, del d.l. n. 83 del 2012, nondimeno, prevedeva che i procedimenti avviati in data anteriore a quella di entrata in vigore del decreto-legge fossero disciplinati, fino alla loro definizione, dalle disposizioni abrogate.

Secondo il giudice rimettente ciò avrebbe fatto sorgere un problema interpretativo sull’esatta applicazione di tale normativa, in particolare riguardo alla circostanza se le delibere comunali confermative delle precedenti delibere, recanti le tariffe maggiorate, fossero illegittime o comunque disapplicabili per gli anni successivi al 2012.

Infatti, molti Comuni avevano inteso la disposizione di cui al citato comma 11 come clausola di salvaguardia degli aumenti disposti prima dell’abrogazione, che quindi potevano continuare ad essere applicati; le imprese di pubblicità, d’altro canto, originavano un notevole contenzioso finalizzato a ripristinare le tariffe originarie ai sensi del Capo I del d.lgs. n. 507 del 1993.

Sul punto è intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 22 dicembre 2014, n. 6201, stabilendo che le delibere, anche tacite, confermative delle tariffe applicate in base alla legge n. 449 del l997, poi abrogata, fossero illegittime; atteso il mutamento della disciplina nazionale di riferimento, infatti, anche la mera conferma rappresenterebbe una modificazione delle tariffe, effettuata in base ad una disposizione non più vigente.

Diversamente, il parere del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 13 gennaio 2015, n. 368 ha ritenuto che la disposizione in questione comportasse solamente l’illegittimità di nuovi aumenti, disposti in data successiva all’entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012. Impostazione accolta anche dalla successiva giurisprudenza amministrativa, che ha considerato gli aumenti già disposti applicabili anche successivamente al 2012, attraverso la proroga del regime stabilito dalle norme poi abrogate (così TAR Veneto, sezione terza, Venezia, sentenza 7 ottobre 2015, n. 1001; TAR Abruzzo, sezione prima, Pescara, sentenza 15 luglio 2016, n. 269).

La disposizione censurata, dunque, sarebbe stata adottata dal legislatore proprio al fine di risolvere tale contenzioso, fornendo un’interpretazione autentica della norma abrogatrice della facoltà concessa ai Comuni di aumentare le tariffe.

2.2.– Secondo il giudice rimettente sarebbe evidente la rilevanza della questione ai fini della decisione del ricorso sull’atto impugnato. L’individuazione della tariffa dell’ICP applicabile per l’anno 2015, infatti, sarebbe determinante per la risoluzione del giudizio, essendo state applicate dal Comune di Montesilvano le maggiorazioni stabilite dalla legge n. 449 del 1997 (già previste dalla deliberazione del Consiglio comunale del 23 dicembre 2010, n. 194), in virtù del principio di “ultrattività” delle tariffe. L’estensione dell’effetto abrogativo di cui all’art. 23, comma 7, del d.l. n. 83 del 2012, invece, non consentirebbe di richiedere il pagamento dell’imposta maggiorata.

Se il comma 739 dell’art. l della legge n. 208 del 2015 non avesse disciplinato i limiti e la portata della disposizione abrogativa, infatti, la Commissione tributaria provinciale, aderendo alla tesi della sentenza del Consiglio di Stato n. 6201 del 2014, avrebbe disapplicato la delibera tacita di proroga delle tariffe dell’ICP. Invece, la disposizione censurata avrebbe creato due diversi regimi giuridici applicabili in materia di tariffe sull’ICP, rendendo possibile l’esercizio della facoltà di aumento – o meglio, di continuare ad applicare l’aumento già deliberato – unicamente per quei Comuni che si fossero avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore del predetto decreto-legge.

2.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene opportuno chiarire l’esatta natura della disposizione oggetto d’esame.

Il legislatore avrebbe utilizzato lo strumento della disposizione d’interpretazione autentica, ai sensi degli artt. l, comma 2, e 3, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), in quanto unico caso consentito di disposizioni tributarie retroattive (sono richiamate sentenze n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010, n. 74 del 2008 e n. 234 del 2007).

La disposizione censurata, in realtà, abrogherebbe parzialmente la disposizione interpretata, privando di effetti l’abrogazione del potere di aumento delle tariffe per i Comuni che se ne fossero già avvalsi, facendo così salvi tutti gli atti confermativi degli aumenti, anche successivi all’entrata in vigore della legge abrogatrice.

Ciò che rileverebbe nella circostanza in esame, quindi, sarebbe la portata novativa della disposizione, surrettiziamente retroattiva, stante l’assenza delle possibili varianti di senso del testo originario; mancherebbe, infatti, qualsiasi appiglio semantico che giustifichi un’interpretazione riconducibile ad un’abrogazione parziale. L’obiettivo perseguito dal legislatore sembrerebbe, allora, quello di risolvere il contenzioso insorto e potenzialmente producibile, legittimando gli aumenti di imposta reiterati dai Comuni sulla base di una legge ormai abrogata.

Emergerebbe, inoltre, un profilo di contraddittorietà e d’incoerenza tra norme. L’abrogazione dell’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997 sarebbe tesa ad una stabilizzazione delle tariffe; l’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, invece, avrebbe azzerato tale voluntas legis, «realizzando un doppio regime impositivo irragionevole e soprattutto in contrasto con i principi di uguaglianza e parità di trattamento, espressione, peraltro, di un uso distorto della discrezionalità legislativa» (è richiamata la sentenza n. 313 del 1995).

Non si evincerebbe dalla denunciata disposizione neppure se la preclusione della facoltà di continuare ad applicare le tariffe maggiorate valga solo per Comuni che non abbiano mai operato gli aumenti nel periodo antecedente al d.l. n. 83 del 2012, oppure anche per quelli che abbiano deliberato gli aumenti per poi procedere, per intervenute scelte di merito amministrativo, a ripristinare la tariffa base. In tal modo, le stesse amministrazioni potrebbero anche decidere di ridurre la percentuale di incremento stabilita, per poi, in un periodo d’imposta successivo, tornare a operare gli aumenti. Tale ampia facoltà deriverebbe dalla locuzione introdotta nel comma 739, e sarebbe illegittima in quanto concessa non già con efficacia erga omnes, ma solo ad alcuni Comuni, per i quali si sarebbe ripristinato il regime giuridico preesistente al d.l. n. 83 del 2012.

La natura stessa della disposizione, infine, non ne consentirebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata, poiché l’unica interpretazione praticabile imporrebbe di ritenere non manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità. Qualora non vi fosse stato l’intervento legislativo, invece, sarebbe stato possibile fornire un’interpretazione coerente con i principi di cui agli artt. 3 e 53 Cost., ritenendo l’abrogazione delle maggiorazioni tariffarie applicabile a tutti i Comuni.

2.3.1.– In particolare sarebbero violati gli artt. 3, 53 e 97 Cost., poiché dall’applicazione della disposizione censurata conseguirebbe una duplice irragionevole discriminazione: istituzionale, cioè tra i Comuni, e soggettiva, ossia tra i contribuenti.

In tal modo, per una categoria di Comuni si sarebbe creata una nuova tariffa base, consolidando gli aumenti all’interno dell’imposta; il che rivelerebbe l’estensione della disposizione censurata ben al di là di quella che si vorrebbe interpretare, incidendo anche sulla disciplina generale della materia.

Sarebbe del tutto irragionevole e discriminatorio stabilire per legge che possa procedersi al rinnovo tacito delle tariffe recanti maggiorazioni sulla base di una legge abrogata, poiché il rinnovo sarebbe equiparabile ad un nuovo provvedimento di conferma delle statuizioni comunali, adottato in carenza di una disposizione legislativa che lo legittimi.

La disposizione lederebbe anche il principio di progressività di cui all’art. 53, secondo comma, Cost., in quanto la progressività sarebbe ancorata a un criterio iniquo, ossia all’eventuale “tempestività” di alcuni Comuni nell’applicare le maggiorazioni nel periodo in cui erano legislativamente previste.

2.3.2.– La denunciata disparità di trattamento inciderebbe, inoltre, anche sull’autonomia finanziaria dei Comuni, violando l’art. 119 Cost., in combinato disposto con gli artt. 23 e 117, sesto comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003).

Secondo il giudice rimettente la potestà regolamentare in materia tributaria dei Comuni dovrebbe derivare da una disciplina legislativa statale che, a sua volta, necessiterebbe di requisiti minimi di uniformità per gli amministrati. Tali requisiti sarebbero seriamente compromessi, perché tutti gli aumenti tariffari operati durante il periodo del blocco degli aumenti sarebbero da considerarsi contra legem, in virtù dell’illegittimità delle delibere confermative, novative, o semplicemente delle proroghe previste dal comma 5 dell’art. 3 del d.lgs. n. 507 del 1993, applicate in assenza di copertura legislativa.

Con l’approvazione dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, dunque, si sarebbe operata una sanatoria degli aumenti illegittimi sin dalla loro prima adozione, in aperta violazione di uno dei principi cardine dell’art. 23 Cost., creando una copertura legislativa ex post per tutte le delibere recanti incrementi alle tariffe, anche per quelle illegittimamente adottate.

2.3.3.– Ai profili di dubbia legittimità costituzionale sin qui illustrati, si affiancherebbe anche quello relativo all’illegittima interferenza con la funzione giurisdizionale.

Il giudice rimettente – ritenendo che l’onere di deliberare ogni anno le tariffe tributarie, sia in forma tacita, sia esplicita, imporrebbe al Comune di conformare la propria decisione alla norma nazionale di riferimento vigente – assume che, in virtù dei principi lex posterior derogat priori e, soprattutto, lex primaria derogat legi subsidiariae, il mantenimento delle tariffe incrementate negli anni d’imposta successivi all’abrogazione della disposizione che autorizzava tali incrementi dovrebbe considerarsi contra ius. Ciò sarebbe stato già chiarito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 6201 del 2014.

L’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, con l’obiettivo di realizzare una sanatoria a favore dei Comuni promotori di prelievi tributari privi di copertura legislativa, avrebbe introdotto una disciplina innovativa e pseudo-interpretativa, che interferirebbe illegittimamente con la funzione giurisdizionale (sono richiamate le sentenze n. 155 del 1990, n. 233 del 1988 e n. 187 del 1981).

Il vero naturale destinatario di un intervento legislativo di interpretazione autentica, d’altronde, sarebbe il giudice, che applica la legge al caso concreto. Dunque, la circostanza che il Consiglio di Stato si fosse già espresso con una interpretazione conforme al dettato legislativo sarebbe sintomatica della effettiva finalità della disposizione censurata, ossia quella di sanare una diversa interpretazione, peraltro illegittima e contraria ai principi costituzionali.

La norma censurata, quindi, inciderebbe negativamente sulle attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria, violando così l’art. 102 Cost., poiché travolgerebbe gli effetti di pronunce divenute irrevocabili, definendo sostanzialmente, con atto legislativo, l’esito dei giudizi in corso (si richiamano sentenze n. 209 del 2011, n. 311 del 1995 e n. 155 del 1990).

2.3.4.– L’ordinanza di rimessione, da ultimo, denuncia, nell’epigrafe e nelle conclusioni, la violazione dell’art. 114 Cost.

3.– Con atto depositato il 6 giugno 2017 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.

3.1.– Secondo l’interveniente, la Commissione tributaria provinciale di Pescara fonderebbe il suo ragionamento su di una lettura erronea della disposizione censurata.

Tale disposizione, di effettiva interpretazione autentica, si sarebbe limitata a chiarire che l’intervenuta abrogazione non avrebbe potuto incidere retroattivamente rispetto alle delibere di aumento delle tariffe anteriori al 2012.

Ciò sarebbe confermato dalla giurisprudenza amministrativa già formata al riguardo. Il TAR Abruzzo, sezione prima, Pescara, con la sentenza 15 luglio 2016, n. 267, emessa proprio in un giudizio in cui era coinvolto lo stesso Comune di Montesilvano, infatti, avrebbe precisato che «l’abrogazione della norma che prevedeva la possibilità di aumentare le tariffe, se ha privato (per il futuro) gli enti locali di tale potere, non ha invece inciso sulle tariffe già deliberate, non essendo stato disposto alcunché di esplicito riguardo ad esse. Operando l’abrogazione “dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge”, il comma 739 non autorizza la conclusione che il legislatore abbia inteso effettuare un generalizzato ripristino della tariffa base estendendo l’effetto abrogativo anche alle tariffe legittimamente maggiorate». Dunque, la norma interpretativa individuerebbe un significato già ricavabile dalla disposizione interpretata, «limitandosi ad espungere interpretazioni tali da far retroagire l’effetto abrogativo a data precedente l’entrata in vigore del D.L. n. 83 del 2012.».

L’art. l, comma 739, della legge n. 208 del 2015, pertanto, ben avrebbe potuto essere interpretato in senso difforme da quello ritenuto dal giudice a quo.

Il rimettente, invece, non si sarebbe dato carico di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, tale da delimitarne la portata in conformità al dettato costituzionale, nel senso di far salve le delibere comunali anteriori al 2012 e non certo di creare un permanente doppio regime, con enti locali dispensati dal divieto di aumentare le tariffe anche dopo il 2012. L’avvocatura generale dello Stato richiama, in proposito, il costante orientamento di questa Corte secondo cui, «“in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” (ex multis, sentenza n. 356 del 1996) e conseguentemente, di fronte ad alternative ermeneutiche di questo tipo, debba essere privilegiata quella che il giudice ritiene conforme a Costituzione» (è citata la sentenza n. 113 del 2015).

L’inammissibilità della questione non potrebbe ritenersi superata neanche in base alla natura della disposizione censurata, che secondo il giudice rimettente escluderebbe in radice la possibilità d’interpretare la stessa in maniera costituzionalmente orientata. Infatti, non si comprenderebbe per quale ragione una norma d’interpretazione autentica non possa essere essa stessa oggetto di diverse interpretazioni.

Considerato in diritto

1.– La Commissione tributaria provinciale di Pescara, con ordinanza del 1° febbraio 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 97, 102, 114, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3), e 119 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)».

Tale disposizione interpreta l’art. 23, comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – che abroga la facoltà dei Comuni di aumentare le tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità prevista dall’art. 11, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), come modificato dall’art. 30, comma 17, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge finanziaria 2000)» – nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i Comuni che si siano già avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge.

2.– Secondo il giudice a quo la disposizione oggetto di censura, apparentemente d’interpretazione autentica, avrebbe parzialmente privato di effetti l’abrogazione della facoltà di prevedere maggiorazioni sino al cinquanta per cento della tariffa base dell’imposta comunale sulla pubblicità (ICP). In virtù dell’intervento del legislatore, infatti, tale abrogazione non avrebbe effetto nei confronti dei Comuni che abbiano deliberato tali maggiorazioni prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012, facendosi così salve le deliberazioni, esplicite o tacite, successive al 2012.

La disposizione censurata, quindi, avrebbe portata innovativa, stante l’assenza delle possibili varianti di senso del testo originario, non sussistendo in esso alcun appiglio semantico che giustifichi un’interpretazione riconducibile ad un’abrogazione parziale. L’obiettivo perseguito dal legislatore sarebbe, dunque, soltanto quello di risolvere il contenzioso insorto, legittimando gli aumenti di imposta reiterati dai Comuni sulla base di una legge ormai abrogata.

2.1.– L’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015 violerebbe, in primo luogo, gli artt. 3, 53 e 97 Cost., introducendo un irragionevole trattamento discriminatorio, in relazione ai contribuenti e rispetto ai Comuni, ancorato ad un dato del tutto inconferente e non dotato di alcuna significatività, quale l’esser stata adottata in precedenza una deliberazione recante le maggiorazioni d’imposta.

2.2.– In secondo luogo, sarebbero violati gli artt. 23, 119 e 117, sesto comma, Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003, poiché la norma interpretativa ripristinerebbe un regime tributario ormai abrogato, creando una copertura legislativa ex post per tutti gli incrementi tariffari successivi al 2012, incidendo illegittimamente sulla potestà tributaria comunale, in carenza dei requisiti minimi di imparzialità e uniformità dell’azione amministrativa e di parità di condizioni tra enti.

2.3.– Risulterebbe leso, altresì, l’art. 102 Cost., in quanto la disposizione censurata inciderebbe negativamente sulle attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria, travolgendo gli effetti di pronunce divenute irrevocabili e definendo sostanzialmente, con atto legislativo, l’esito dei giudizi in corso.

2.4.– L’ordinanza di rimessione denunzia, infine, anche la violazione dell’art. 114 Cost.

3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché il rimettente avrebbe fornito un’interpretazione della disposizione censurata fondata su un presupposto erroneo, senza darsi carico di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della stessa.

L’eccezione non può essere accolta.

La più recente giurisprudenza di questa Corte esclude che il mancato ricorso da parte del giudice a quo ad un’interpretazione costituzionalmente orientata possa essere causa d’inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale, quando vi sia un’adeguata motivazione circa l’impedimento a tale interpretazione, in ragione del tenore letterale della disposizione (sentenze n. 194, n. 69 e n. 42 del 2017; n. 221 del 2015).

Nel caso di specie, il giudice rimettente assume che l’abrogazione delle maggiorazioni operata dal d.l. n. 83 del 2012 non consentiva in nessun caso la possibilità di conferma, tacita o esplicita, delle tariffe maggiorate. Per converso, l’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, limitando l’effetto dell’abrogazione, consentiva in realtà la conferma. In ragione di ciò, quindi, non sarebbe possibile darne un’interpretazione conforme a Costituzione.

4.– Deve ritenersi inammissibile, invece, la questione sollevata in riferimento all’art. 114 Cost., meramente indicato nel dispositivo e nelle premesse dell’ordinanza di rimessione. Manca, pertanto, un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni di contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro costituzionale evocato (sentenze n. 240 del 2017 e n. 219 del 2016).

5.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara, in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 97, 102, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003, e 119 Cost., non sono fondate.

5.1.– L’imposta comunale sulla pubblicità (ICP) è disciplinata dal Capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), che prevede, in riferimento alla determinazione dell’imposta, delle tariffe base (art. 12 e seguenti), variabili in base alla fascia di appartenenza del Comune, a cui possono essere apportate talune maggiorazioni. Le modalità applicative dell’ICP sono disciplinate da appositi regolamenti comunali, in base ai quali l’ammontare dell’imposta, con le varie maggiorazioni, è determinato dal Comune interessato entro il 31 marzo dell’anno di riferimento, con decorrenza dal 1° gennaio dell’anno d’imposta (art. 3, comma 5).

Trova applicazione, inoltre, il principio di “ultrattività delle tariffe”, prevedendosi che, in caso di mancata delibera per gli anni successivi a quello di adozione del regolamento, sono prorogate le tariffe dell’anno precedente. Un principio che l’art. 1, comma 169, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», ha esteso a tutti i tributi locali, stabilendo che «[g]li enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. Dette deliberazioni, anche se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento. In caso di mancata approvazione entro il suddetto termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno».

L’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997 (come modificato dall’art. 30, comma 17, della legge 488 del 1999) ha introdotto la facoltà di stabilire ulteriori maggiorazioni all’ICP, fino a un massimo del 50 per cento della tariffa base.

Tale facoltà è stata poi sospesa dal legislatore per il triennio 2009-2011 con l’art. 77-bis, comma 30, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, recante il “blocco degli aumenti” per tutti i tributi locali.

Il successivo art. 4, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, entrato in vigore il 2 marzo 2016, ha abrogato l’art 77-bis, comma 30, del d.l. n. 112 del 2008. Per l’anno 2012, quindi, i Comuni potevano disporre nuovamente le maggiorazioni previste dalla legge n. 449 del 1997.

In tale contesto interveniva l’art. 23 del d.l. n. 83 del 2012, entrato in vigore il 26 giugno 2012, che abrogava (comma 7), con decorrenza da tale data, l’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997, precisando (comma 11) che i procedimenti già avviati dovevano definirsi in base alle norme abrogate.

5.2.– Ciò premesso, non è corretta l’interpretazione dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, secondo cui esso ripristinerebbe retroattivamente la potestà di applicare maggiorazioni alle tariffe per i Comuni che, alla data del 26 giugno del 2012, avessero già deliberato in tal senso.

La disposizione, invece, si limita a precisare la salvezza degli aumenti deliberati al 26 giugno 2012, tenuto conto, tra l’altro, che a tale data ai Comuni era stata nuovamente attribuita la facoltà di deliberare le maggiorazioni. Era dunque ben possibile che essi avessero già deliberato in tal senso. Di qui la necessità di chiarire gli effetti dell’abrogazione disposta dal d.l. n. 83 del 2012, precisando che la stessa non poteva far cadere le delibere già adottate e che il 26 giugno del 2012 era il termine ultimo per la validità delle maggiorazioni disposte per l’anno d’imposta 2012.

Si tratta, quindi, effettivamente di una disposizione di carattere interpretativo, tesa a chiarire il senso di norme preesistenti ovvero escludere o enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo (sentenze n. 132 del 2016, n. 127 del 2015, n. 314 del 2013, n. 15 del 2012 e n. 311 del 1995). La scelta legislativa, allora, rientra «tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011 e n. 209 del 2010)» (sentenza n. 132 del 2016).

Nulla dice il comma 739, invece, sulla possibilità di confermare o prorogare, successivamente al 2012, di anno in anno, le tariffe maggiorate.

Tale facoltà di conferma, esplicita o tacita, delle tariffe, consentita da altra disposizione, non potrebbe tuttavia estendersi a maggiorazioni disposte da norme non più vigenti, come aveva sancito la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 22 dicembre 2014, n. 6201, in riferimento all’art. 23, comma 7, del d.l. n. 83 del 2012, ritenendo che anche il potere di conferma, tacita o esplicita, in quanto espressione di potere deliberativo, debba tener conto della legislazione vigente. Dunque, venuta meno la norma che consentiva di apportare maggiorazioni all’imposta, gli atti di proroga tacita di queste avrebbero dovuto ritenersi semplicemente illegittimi, perché non poteva essere prorogata una maggiorazione non più esistente.

Sotto tale profilo, la disposizione oggetto di censura nulla aggiunge. L’intervento interpretativo, infatti, non introduce alcun doppio regime impositivo e non crea perciò ingiustificate disparità di trattamento tra i Comuni, né pregiudica la progressività insita nella suddivisione degli stessi in diverse fasce, ai fini della determinazione dell’imposta, rientrando invece nei limiti di quella ragionevolezza che deve caratterizzare anche le disposizioni d’interpretazione autentica (ex multis, sentenze n. 132 del 2016, n. 69 del 2014, n. 271 del 2011, n. 234 del 2007, n. 229 del 1999 e n. 311 del 1995).

Ne deriva, quindi, che non può ritenersi sussistente alcuna lesione degli artt. 3, 53 e 97 Cost.

5.3.– Neppure può ritenersi fondata la questione sollevata in riferimento agli artt. 23, 117, sesto comma, e 119 Cost.

I medesimi argomenti sopra svolti portano ad escludere, infatti, che sia stato ripristinato, ma solo per alcuni Comuni, il regime impositivo antecedente al d.l. n. 83 del 2012.

5.4.– Da ultimo, la denunziata disposizione, non avendo alcuna efficacia sanante nei confronti delle delibere, successive al 2012, non interferisce in alcun modo con le prerogative degli organi giurisdizionali e non viola perciò l’art. 102 Cost. (sentenze n. 170 del 2008 e n. 155 del 1990).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», sollevata, in riferimento all’art. 114 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 97, 102, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3), e 119 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giuliano AMATO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2018.