Sentenza n. 236 del 2017

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 236

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-          Paolo                          GROSSI                                 Presidente

-          Giorgio                       LATTANZI                            Giudice

-          Aldo                           CAROSI                                       

-          Marta                         CARTABIA                                 

-          Mario Rosario                       MORELLI                                    

-          Giancarlo                    CORAGGIO                                

-          Silvana                        SCIARRA                                     

-          Daria                          de PRETIS                                    

-          Nicolò                        ZANON                                        

-          Augusto Antonio        BARBERA                                   

-          Giulio                         PROSPERETTI                            

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, promossi dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con ordinanza del 10 marzo 2016, dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 16 giugno 2016, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia con ordinanza del 29 luglio 2016, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise con ordinanza del 25 marzo 2016 e dal Tribunale amministrativo regionale della Campania con ordinanza del 5 dicembre 2016, rispettivamente iscritte ai nn. 82, 246 e 259 del registro ordinanze 2016 e ai nn. 26 e 60 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 17, 49 e 52, prima serie speciale, dell’anno 2016 e nn. 10 e 18, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di G. D. e altro, di C.A.E.R. Q. e altri, di L. F., di G. A. e altri e di A.C. C. e altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 10 ottobre 2017 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

uditi gli avvocati Massimo Luciani per G. D. e S. P., per C.A.E.R. Q. e per G. A. e altri, Costantino Ventura per L. F., Orazio Abbamonte per A.C. C. e altri e l’avvocato dello Stato Ruggero Di Martino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 10 marzo 2016 (r.o. n. 82 del 2016) il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.

2.– Premette il rimettente che nel giudizio principale i ricorrenti, avvocati dello Stato attualmente in servizio presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Trento, hanno agito per l’accertamento del diritto alla corresponsione dei compensi professionali loro dovuti senza le decurtazioni e le limitazioni apportate dalla norma censurata alla previgente disciplina inerente il relativo trattamento economico; trattamento regolato dal regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) nonché dalla legge 2 aprile 1979, n. 97 (Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato) e dalla legge 3 aprile 1979, n. 103 (Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato).

3.– Evidenzia il giudice a quo che, secondo quanto prospettato dai ricorrenti, alla data del loro ingresso nel ruolo dell’Avvocatura, questi avrebbero maturato, in forza della disciplina poi modificata dall’art. 9 oggetto di censura, il diritto ad un trattamento economico che prevedeva sia una quota fissa, commisurata a ruolo, titolo e grado del personale dell’Avvocatura ed equiparata, per il quantum, al trattamento dei magistrati dell’ordine giudiziario, sia una quota variabile, in funzione dell’esito delle controversie patrocinate quando la pubblica amministrazione non risultava soccombente. Avuto riguardo a tale quota variabile, i compensi maturati dai ricorrenti nel giudizio principale erano diversificati a seconda della presenza o meno della condanna della controparte alla refusione delle spese in favore dell’amministrazione patrocinata: nel primo caso, curata l’esazione delle stesse da parte della medesima Avvocatura dello Stato, le relative somme venivano poi ripartite per sette decimi tra gli avvocati di ciascun ufficio, in base a norme regolamentari, e per tre decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati dello Stato; nella seconda ipotesi, legata ai casi di spese compensate o di transazione senza spese a carico della controparte, l’erario corrispondeva all’Avvocatura la metà delle competenze che sarebbero state liquidate.

Regime, questo, segnala il rimettente, parzialmente modificato dall’art. 1, comma 457, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», con una temporanea riduzione (nella misura del 75 per cento per il triennio 2014-2016) dei compensi liquidati a seguito di sentenza che riconosceva la Pubblica amministrazione non soccombente.

4.– Adduce, ancora, il rimettente che, con l’art. 9 oggetto di censura, la misura nonché, in parte, la stessa previsione di tali compensi, avuto riguardo alle relative componenti variabili, è stata oggetto di radicale trasformazione. Con le disposizioni contenute nell’articolo in questione si prevede che: tutti i compensi professionali sono computati ai fini del tetto massimo degli emolumenti di cui all’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214; nell’ipotesi di sentenza favorevole con condanna della controparte alle spese, solo il 50 per cento delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati dello Stato secondo le previsioni regolamentari dell’Avvocatura dello Stato, mentre il residuo 50 per cento è destinato per metà a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato e per la residua parte al fondo per la riduzione della pressione fiscale di cui all’art. 1, comma 431, della legge n. 147 del 2013; nei casi di integrale compensazione delle spese, ai dipendenti della pubblica amministrazione, ad esclusione del personale dell’Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento già previsto; ai regolamenti dell’Avvocatura dello Stato è demandata la indicazione dei criteri per il riparto delle somme recuperate, in base al rendimento individuale e secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto della puntualità negli adempimenti processuali. Precisa, inoltre, il Tribunale rimettente che il comma 2 dell’art. 9 ha poi espressamente abrogato l’art. 1, comma 457, della richiamata legge n. 147 del 2013 e l’art. 21, comma 3, del r. d. n. 1611 del 1933, norma, quest’ultima, che prevedeva la misura degli onorari da corrispondere agli avvocati dello Stato nel caso di compensazione delle spese.

Di qui la richiesta di accertamento del dovuto secondo la previgente disciplina con il conseguente petitum condannatorio rivolto in danno delle amministrazioni resistenti (Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Avvocatura dello Stato).

5.– Ciò premesso, si evidenzia nell’ordinanza che: l’accoglimento dei petita articolati nel giudizio principale passa imprescindibilmente dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, prospettata dai ricorrenti in riferimento agli artt. 3, 4, 23, 35, 36, 42, 53, 77, 97 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione sia agli artt. 3 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 sia all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e ratificato con la stessa legge n. 848 del 1955; che le amministrazioni intimate si sono costituite in quel giudizio argomentando diffusamente per l’infondatezza delle censure, chiedendo, in coerenza, la reiezione del ricorso nel merito.

6.– Ad avviso del rimettente, delle diverse questioni prospettate dai ricorrenti, solo quella legata al parametro di cui all’art. 77, secondo comma, Cost. non può ritenersi manifestamente infondata, atteso che il legislatore avrebbe introdotto una vera e propria riforma strutturale del trattamento economico spettante agli avvocati dello Stato con lo strumento del decreto-legge in assenza dei necessari presupposti della necessità e urgenza.

6.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo assegna un rilievo decisivo alla circostanza in forza della quale alcune delle norme di cui all’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 sono di immediata cogenza così da incidere, in termini di decisività, sull’interesse sotteso all’azione giudiziale dei ricorrenti.

6.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale argomenta muovendo dal tenore letterale dell’epigrafe del d.l. n. 90 del 2014, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari»; del relativo preambolo (che, nella parte di immediata rilevanza, relativa al primo capoverso, profila la straordinaria «necessità e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione»); del Titolo I (rubricato «Misure urgenti per l’efficienza della p.a. e per il sostegno dell’occupazione») e del Capo I del citato Titolo (rubricato «Misure urgenti in materia di lavoro pubblico») che contengono l’articolo oggetto di censura. Si evidenzia altresì che gli articoli del Capo in questione contengono misure in tema di ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni, semplificazione e flessibilità nel turnover, mobilità obbligatoria e volontaria, assegnazione di nuove mansioni, divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza, prerogative sindacali, incarichi negli uffici di diretta collaborazione.

6.3.– Ciò premesso, il rimettente ricorda che, ai sensi dell’art. 15, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), i decreti-legge sono presentati per l’emanazione «con l’indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l’adozione», mentre il comma 3 dello stesso articolo sancisce che «i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo».

6.3.1.– Nel caso in esame, secondo il giudice a quo, nessun collegamento sarebbe ravvisabile tra le riportate premesse e le previsioni normative di cui si prospetta l’illegittimità costituzionale.

Il preambolo, nella parte di immediato interesse (dettata dal paragrafo 1), fa infatti riferimento a interventi organizzativi e semplificatori nella e della pubblica amministrazione: ad ambiti, dunque, che con le disposizioni di cui si discute – volte a riformare la struttura degli onorari degli avvocati dello Stato e degli altri enti pubblici nell’ottica del contenimento della spesa pubblica – non avrebbero momenti di contatto, così da svelare l’assenza di correlazioni tra la norma censurata e l’elemento funzionale-finalistico ivi proclamato.

Né, del resto, nel preambolo si dà conto delle ragioni di necessità e di urgenza che imponevano l’adozione – a mezzo di decreto-legge – delle disposizioni di riforma strutturale degli onorari all’Avvocatura dello Stato di cui al richiamato art. 9.

L’immissione delle disposizioni in disamina, recanti una riforma strutturale degli onorari degli avvocati dello Stato, nel corpo di un decreto-legge volto, dichiaratamente, alla «[…] più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e a introdurre ulteriori misure di semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione», ad avviso del rimettente, non vale a trasmettere alle misure stesse il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate invece tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità.

6.3.2.– Per altro profilo, osserva il rimettente che l’art. 9 oggetto di scrutinio contiene anche misure che non sono di immediata applicazione, come richiesto, invece, dall’art. 15, comma 3, della legge n. 400 del 1988. Sebbene sia previsto che la nuova disciplina si applichi alle sentenze pubblicate dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 90 del 2014, l’art. 9, comma 8, stabilisce però che il nuovo regime dei compensi in caso di soccombenza della controparte, può trovare applicazione solo a decorrere dall’introduzione, nei regolamenti dell’Avvocatura dello Stato, di regole che prevedano criteri di riparto delle somme «in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto, tra l’altro, della puntualità negli adempimenti processuali». E ciò pone ancor più in dubbio la concreta sussistenza degli estremi tipici della decretazione di urgenza.

7.– Nel giudizio di costituzionalità si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, adducendo l’insussistenza di pregiudiziali ragioni di inammissibilità della questione e ribadendo, nel merito, i profili argomentativi a sostegno della illegittimità costituzionale della disposizione censurata prospettati innanzi al rimettente e da questo veicolati alla Corte. La relativa difesa ha anche sottolineato, ad ulteriore supporto delle relative conclusioni, che nel caso occorre dare il giusto rilievo all’assenza di effettiva incidenza delle disposizioni in questione sulla finanza pubblica, tali da non apportare un rilevante risparmio di spesa, rendendo ulteriormente ingiustificata l’adozione di un provvedimento provvisorio avente forza di legge.

8.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la infondatezza della questione.

8.1.– Ad avviso dell’interveniente, il contenuto dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, peraltro radicalmente innovato in sede di conversione, non sarebbe eccentrico rispetto al primo paragrafo del relativo preambolo giacché concorre a realizzare una più razionale utilizzazione del personale pubblico e una più efficiente organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici.

La rideterminazione dei criteri di attribuzione degli onorari degli avvocati dello Stato sarebbe, infatti, finalizzata per un verso alla valorizzazione del rendimento individuale degli stessi e, per altro verso, in un’ottica perequativa, ad un risparmio di risorse economiche, funzionale anche a garantire una più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici attraverso una migliore distribuzione delle disponibilità finanziarie.

8.2.– Quanto poi alla non immediata applicabilità di alcune disposizioni dettate dall’art. 9 censurato in virtù di quanto previsto dal comma 8, evidenzia la difesa erariale che tale ultima disposizione impone anche l’immediata precettività dell’obbligo di provvedere al detto adeguamento regolamentare, da realizzare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto perché, in mancanza, tanto avrebbe impedito la futura corresponsione dei compensi professionali alle categorie interessate; termine che è stato puntualmente rispettato, avendo l’Avvocatura emanato l’apposito regolamento già nell’ottobre del 2014, a conferma della immediata cogenza delle disposizioni censurate in ogni loro parte.

9.– Prima dell’udienza fissata per la trattazione del giudizio, la difesa delle parti private ha depositato alcune tabelle riepilogative contenenti il raffronto tra le competenze maturate nel 2014, sotto la vigenza della pregressa normativa, e quanto maturato nel 2015 alla luce della novella censurata. La stessa difesa ha poi depositato memorie ex art. 10 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, con le quali ha sottolineato l’indifferenza, rispetto alla questione prospettata, del diverso contenuto assunto dall’art. 9 oggetto di censure all’esito della conversione in legge; ancora, ha confutato, con indicazioni in fatto e diritto, gli argomenti evidenziati dall’interveniente a sostegno della reiezione della questione.

Anche la difesa dell’interveniente ha depositato una memoria, ulteriormente ribadendo l’infondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati dal rimettente alla luce delle indicazioni difensive delle parti private.

10.– Con ordinanza depositata il 25 marzo 2016 (r.o. n. 26 del 2017) il Tribunale amministrativo regionale per il Molise dubita della legittimità costituzionale del citato art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., nonché, con riguardo ai soli commi 3, 4 e 6 dello stesso articolo, in relazione all’art. 3 Cost.

11.– Nel giudizio principale, i ricorrenti sono avvocati dello Stato, attualmente in servizio presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Campobasso; l’azione è volta all’accertamento del diritto alla corresponsione dei compensi professionali loro spettanti senza le decurtazioni e le limitazioni apportate dalla norma censurata, con conseguente richiesta di condanna delle amministrazioni resistenti (Presidenza del Consiglio, Ministero dell’economia e delle finanze, Avvocatura dello Stato) al pagamento delle somme dovute, le medesime attinte nel giudizio incardinato innanzi al TAR Trento; i ricorrenti hanno sollevato dubbi di costituzionalità dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 avuto riguardo a svariati parametri.

12.– Le argomentazioni esposte dal TAR Molise ricalcano pedissequamente quelle esposte dal TRGA di Trento, in punto di rilevanza delle questioni, nonché in ordine alla non manifesta infondatezza della questione dell’intero art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.

13.– Il giudice a quo ritiene, inoltre, non manifestamente infondata anche la questione, prospettata dai ricorrenti, relativa ai commi 3, 4 e 6 del citato art. 9 in riferimento all’art. 3 Cost.

13.1.– Ad avviso del rimettente, le disposizioni censurate violano il principio di uguaglianza per la irragionevole discriminazione tra avvocati dello Stato ed avvocati dipendenti di altre amministrazioni pubbliche, avuto riguardo alla prevista decurtazione degli onorari: mentre agli avvocati delle amministrazioni pubbliche non statali è accordata la possibilità di acquisire le somme liquidate in favore dell’amministrazione patrocinata, anche in misura integrale secondo quanto previsto nei regolamenti dei rispettivi enti, per gli avvocati dello Stato una tale possibilità è limitata al 50 per cento del liquidato, mentre è del tutto esclusa con riguardo ai casi di sentenza favorevole con compensazione delle spese, ove, invece, gli avvocati delle altre amministrazioni incontrano il solo limite dello stanziamento di bilancio per l’anno 2013.

13.2.– L’art. 9 in disamina, evidenzia il rimettente, è finalizzato alla riforma della retribuzione della parte variabile dei compensi non solo dell’Avvocatura dello Stato ma di tutte le avvocature pubbliche. La coerenza e la ragionevolezza dell’intervento normativo, dunque, non potrebbero che essere lette nel contesto in cui l’intervento è posto in essere, con la conseguenza che ogni differenziazione del trattamento, quale è quello deteriore riservato all’Avvocatura dello Stato, dovrebbe fondarsi su circostanze obiettive che, nel caso, il rimettente non ritiene ravvisabili.

13.3.– Una tale differenziazione, del resto, non potrebbe trovare giustificazione nel livello della componente fissa della retribuzione degli avvocati dello Stato, assertivamente superiore, in media, a quella degli avvocati delle altre amministrazioni pubbliche. Piuttosto, ad avviso del giudice a quo, dovrebbe considerarsi per un verso che i difensori, soprattutto quelli posti in posizione apicale, di altre pubbliche amministrazioni, godono di un trattamento economico che, nella parte fissa, è superiore a quello degli avvocati dello Stato; per altro verso, che gli avvocati delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato hanno statuti e inquadramenti che mutano da un ente all’altro, senza possibilità di individuare una disciplina giuridico-economica unitaria, di modo che l’assegnazione ai soli avvocati dello Stato di un trattamento economico variabile peggiorativo rispetto agli altri potrebbe assumere il carattere di una penalizzazione discriminante, soprattutto se il trattamento deteriore consegue alla semplice appartenenza alle fila dell’Avvocatura e non sia agganciata ad una soglia stipendiale specifica.

13.4.– Sotto quest’ultimo profilo, il rimettente rimarca che solo limitando il riconoscimento delle competenze variabili nei confronti degli avvocati di enti pubblici al superamento di una quota retributiva uguale per tutti, l’azione di risanamento della finanza pubblica, sottesa alla novella censurata, sarebbe realizzata nel rispetto del fondamentale principio di ragionevolezza, attingendo tutto il comparto del pubblico impiego interessato, sia pure valorizzando le distinzioni statutarie esistenti.

Né, infine, farebbe gioco il particolare statuto che regola l’attività degli avvocati dello Stato, i quali, a differenza degli avvocati delle altre amministrazioni pubbliche, appartengono ad un plesso organizzativo distinto rispetto a quello dell’ente (lo Stato) che essi sono chiamati a difendere in sede giudiziale. Il rimettente, infatti, ritiene che tale circostanza rilevi al fine di garantire una posizione di maggiore indipendenza, ma non valga a giustificare un trattamento economico deteriore rispetto a quello goduto dalle altre avvocature pubbliche.

14.– Nel giudizio incidentale si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, ribadendo le indicazioni difensive già prospettate dalle relative parti private nel giudizio principale pendente innanzi al TRGA di Trento.

Con riguardo alla questione prospettata in riferimento all’art. 3 Cost., la difesa delle parti private evidenzia che il tertium comparationis, nel caso, è offerto dall’insieme delle stesse disposizioni censurate che, all’interno della categoria degli avvocati pubblici, individuano la sottocategoria degli avvocati dello Stato, distinguendola ingiustificatamente, sul piano dei compensi variabili percepiti, a parità di prestazioni e natura pubblicistica della parte patrocinata.

La distinzione derivata dalla norma contestata, si sottolinea ulteriormente, attiene ai soli onorari professionali variabili, corrisposti a titolo di ulteriore incentivo e limitati alle sole ipotesi di integrale vittoria della parte pubblica, e aventi, dunque, carattere remunerativo della prestazione professionale resa con la rappresentanza in giudizio, ma natura e funzione diverse dalla retribuzione: la disparità di trattamento tra le due categorie prese in considerazione dalla norma censurata non potrebbe in coerenza che essere esaminata guardando esclusivamente alle discipline specifiche degli onorari e tanto renderebbe ancora più evidente la irragionevole disparità di trattamento tra avvocati dello Stato e avvocati di altre amministrazioni pubbliche.

15.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità o comunque per la infondatezza della questione.

Ribaditi i profili argomentativi già spesi nel giudizio di costituzionalità promosso dal TRGA di Trento, avuto riguardo alla prima delle due questioni, la difesa dello Stato, in ordine al dubbio di legittimità costituzionale prospettato in relazione all’art. 3 Cost., ha evidenziato, sul piano generale, che la riduzione dei compensi è coerente con le misure di contenimento delle retribuzioni introdotte in chiave solidaristica, a far tempo dal 2010, e involgenti l’intero comparto del pubblico impiego, non esclusi gli avvocati delle amministrazioni diverse dallo Stato, per le quali a tanto provvede la stessa norma censurata. Sotto altro versante ha rimarcato l’inadeguatezza del tertium comparationis posto a fondamento del prospettato giudizio di diseguaglianza. Ciò perché il rapporto di lavoro degli avvocati e procuratori dello Stato è assoggettato, ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), al regime di diritto pubblico; quello degli avvocati dipendenti delle altre amministrazioni pubbliche alla disciplina del rapporto di lavoro contrattualizzato. Sarebbero in coerenza diverse le discipline inerenti ai rispettivi trattamenti economici, così da rendere evidente la disomogeneità delle situazioni comparate.

16.– La difesa delle parti private ha depositato alcune tabelle riepilogative delle differenze inerenti ai compensi maturati negli anni 2014 e 2015 a seconda della diversa disciplina vigente.

La stessa difesa ha anche depositato memoria contenente argomentazioni analoghe a quelle tracciate dalle parti private costituite nel giudizio incidentale descritto in precedenza, avuto riguardo alla questione prospettata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.; per altro verso, con la medesima memoria, la detta difesa ha replicato alle deduzioni dell’interveniente.

La difesa dell’interveniente, a sua volta, ha depositato memoria con la quale ha ribadito le conclusioni spiegate al momento della costituzione.

17.– Con ordinanza depositata il 16 giugno 2016 (r.o. n. 246 del 2016) il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, dubita della legittimità costituzionale dei commi 3, 4 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, più volte citato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.

Nel corpo dell’ordinanza, a differenza di quanto espressamente indicato nel dispositivo, le argomentazioni del giudice a quo involgono anche altri parametri costituzionali (segnatamente gli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.) nonché altre disposizioni del censurato art. 9 (in particolare, il comma 1).

17.1.– Il giudizio principale vede quali ricorrenti alcuni avvocati dello Stato, in servizio presso l’Avvocatura distrettuale di Reggio Calabria. I petita hanno un contenuto non diverso da quello dei giudizi principali cui si è già fatto cenno e le amministrazioni resistenti sono le stesse coinvolte in essi.

Anche in questo caso i ricorrenti hanno sollevato dubbi di costituzionalità dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 in riferimento a diversi parametri; e le amministrazioni resistenti si sono costituite in giudizio, contestando la fondatezza di tali dubbi.

17.2.– Le argomentazioni esposte dal TAR rimettente ripropongono quelle esposte dal TRGA di Trento con l’ordinanza del 10 marzo 2016, in ordine alla non manifesta infondatezza della questione avente ad oggetto l’intero art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.

17.3.– Il giudice a quo ritiene, inoltre, non manifestamente infondata anche la questione, prospettata dai ricorrenti, relativa ai commi 3, 4 e 6 dell’art. 9 in oggetto, in riferimento all’art. 3 Cost. In proposito, il rimettente richiama e ribadisce le linee argomentative già tracciate dall’ordinanza del 25 marzo 2016 del TAR Molise nel rimarcare l’irragionevole discriminazione, derivata dalle disposizioni censurate, tra avvocati dello Stato e avvocati dipendenti di altre amministrazioni pubbliche.

Il TAR Calabria supporta ulteriormente i dubbi di legittimità costituzionale delle citate disposizioni, procedendo ad un confronto critico con quanto ritenuto, in senso opposto, da altro Tribunale amministrativo regionale (segnatamente il TAR Puglia, sezione staccata di Lecce, con la sentenza n. 170 del 20 gennaio 2016), le cui valutazioni non sono condivise dal Collegio rimettente perché escludono i profili di diseguaglianza facendo leva su argomentazioni inconferenti che non giustificano il trattamento peggiorativo riservato solo alla categoria dei ricorrenti e non tengono in considerazione le peculiarità, ordinamentali e organizzative, che assistono la configurazione istituzionale dell’Avvocatura dello Stato rispetto alle avvocature di altri enti e amministrazioni pubbliche.

17.4.– Secondo il giudice a quo le disposizioni censurate, dando corpo ad un intervento avente natura tributaria, sarebbero altresì in contrasto con gli artt. 3, 23 e 53 Cost.

17.4.1.– Muovendo da quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 223 del 2012, il giudice a quo ritiene presenti gli elementi indefettibili propri della fattispecie tributaria. La relativa disciplina sarebbe infatti diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo senza modificare il rapporto sinallagmatico posto alla base delle situazioni remunerative incise dalla novella; il tutto perseguendo finalità di risanamento della finanza pubblica, rese evidenti da quanto esplicitato dal comma 4 del censurato art. 9 (laddove si prevede – per i casi di condanna alle spese posta a carico della controparte – che una quota pari al 25 per cento del relativo ammontare venga destinata «[…] al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all’art. 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni»).

17.4.2.– Posta, dunque, la natura tributaria della decurtazione disposta dalla novella in disamina, osserva il rimettente che l’imposizione introdotta dalle disposizioni censurate incide su una particolare voce remunerativa che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto a prelievo tributario in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro; introduce, quindi, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto in danno della particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia della titolarità dei compensi professionali in discorso. La previsione di siffatto tributo speciale comporterebbe inoltre una ingiustificata disparità di trattamento con riguardo alle indennità percepite dagli altri dipendenti statali, non assoggettate, negli stessi periodi d’imposta, ad alcun prelievo tributario aggiuntivo. Né, prosegue il rimettente, potrebbe sostenersi che l’intervento in questione abbia finalità «perequativa», trattandosi di una disciplina che, in quanto rivolta ad un’unica categoria di percettori di reddito, viene a vulnerare esclusivamente questi ultimi e con esclusivo riferimento ai compensi di cui trattasi. Per altro verso ancora, la disciplina oggetto di censura, proprio in ragione del carattere di prelievo, appare di dubbia costituzionalità in quanto non temporanea, bensì strutturalmente connotata quale modificazione sine die.

17.5.– Il rimettente dubita anche della legittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014. In forza di tale disposizione, i compensi in questione vanno ricompresi tra quelli per i quali devono ritenersi operativi i vigenti limiti dettati per i trattamenti economici corrisposti ai dipendenti pubblici, ai titolari di cariche elettive e ai titolari di incarichi con emolumenti a carico della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011 e successivamente modificato.

17.5.1.– Secondo il rimettente, le decurtazioni previste dalle disposizioni censurate hanno l’effetto di deprimere le previgenti disposizioni premiali senza favorire il miglior conseguimento della finalità pubblica di efficienza dell’amministrazione, con indubbi riflessi di finanza pubblica: assoggettando (anche) il riconoscimento dei compensi professionali spettanti ad avvocati e procuratori dello Stato al «tetto retributivo» di che trattasi, si induce un effetto «disincentivante» ai fini dell’immissione nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato delle più elevate e qualificate risorse professionali. Si vulnera, così, non solo l’art. 97, ma anche l’art. 3 Cost., atteso che la pur omogenea applicazione di siffatto «limite» a tutti i legali dipendenti da pubbliche amministrazioni assume accentuato rilievo «penalizzante» per gli avvocati e procuratori dello Stato in ragione della maggiormente limitata partecipazione alla ripartizione dei compensi che differenzia, in peius, il trattamento ora riservato ai primi rispetto ai secondi.

18.– Nel giudizio incidentale si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, ribadendo la fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati con l’ordinanza di rimessione.

19.– È anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

Sulle prime due questioni, l’Avvocatura ha reiterato le argomentazioni già esposte nel trattare le precedenti ordinanze di rimessione.

Avuto riguardo alla censura prospettata in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., l’interveniente ha negato la natura tributaria delle decurtazioni imposte dalle disposizioni censurate, dirette a realizzare non una acquisizione di risorse per la copertura di pubbliche spese ma solo un definitivo risparmio degli esborsi gravanti sulla collettività.

In ordine, infine, alle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., ha eccepito la inammissibilità della questione, per genericità e contraddittorietà della prospettazione.

20.– Anche in questo giudizio incidentale la difesa delle parti private ha prodotto tabelle riepilogative contenenti il raffronto tra le competenze maturate nel 2014 e nel 2015. Ancora, ha depositato memoria con la quale ha ribadito le argomentazioni a sostegno della fondatezza delle questioni secondo deduzioni non diverse da quelle descritte nel riportare gli elementi caratterizzanti i precedenti giudizi di costituzionalità.

La difesa dell’interveniente ha a sua volta controdedotto con memoria alle deduzioni difensive delle parti private.

21.– Con ordinanza del 29 luglio 2016 (r.o. n. 259 del 2016) il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, dubita della legittimità costituzionale del più volte richiamato art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in relazione agli artt. 3, 25, 77 e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 6, della CEDU.

22.– Il giudice a quo premette in fatto che la ricorrente del giudizio principale, già magistrato ordinario, è procuratore dello Stato in servizio presso l’Avvocatura distrettuale di Bari a far tempo dal 29 gennaio 2014. In ragione di tanto, la stessa avrebbe maturato un diritto ai compensi professionali coerente con le previsioni normative di riferimento vigenti alla detta data, modificate, con limitazioni e decurtazioni, dalle disposizioni censurate. Di qui il petitum condannatorio nei confronti delle amministrazioni resistenti, in linea con quelli prospettati negli altri giudizi in precedenza descritti. Anche in tale giudizio, inoltre, l’accoglimento dei petita passa indefettibilmente dalla verifica di costituzionalità della novella apportata dalla norma in questione, posta in dubbio dalla ricorrente con riferimento a diversi parametri, secondo prospettazioni, tutte contrastate dalle amministrazioni resistenti costituite nel relativo giudizio, solo parzialmente condivise dal TAR rimettente.

23.– Avuto riguardo ai dubbi prospettati dal giudice a quo, gli stessi, con riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., seguono la traccia argomentativa esposta dalla ordinanza del TRGA di Trento. In ordine alla ritenuta violazione del primo comma dell’art. 3 Cost., per la ritenuta diseguaglianza rispetto alla disciplina dettata per gli avvocati dipendenti delle pubbliche amministrazioni diverse da quelle dello Stato, l’ordinanza in disamina ripercorre le linee segnate dal TAR Molise. Inoltre, in punto di non manifesta infondatezza della questione in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., si ribadiscono, senza fare un esplicito riferimento alla stessa, i profili deduttivi evidenziati dalla ordinanza del TAR Calabria.

24.– In aggiunta ai temi di scrutinio costituzionale offerti dalle altre ordinanze, il TAR Puglia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9 anche sotto il versante della tutela del principio di affidamento garantito, dall’ordinamento interno, dagli artt. 3 e 25 Cost., nonché dal combinato disposto di cui agli artt. 117, primo comma, Cost., e 6 della CEDU.

24.1.– Evidenzia il rimettente che la ricorrente nel giudizio principale, una volta superato il concorso da procuratore dello Stato, ha espressamente optato per l’Avvocatura dello Stato, con conseguente cancellazione dal ruolo dell’organico della magistratura ordinaria, ragionevolmente indotta dalla previsione contenuta nello stesso bando di concorso, di corresponsione dello stipendio annuo lordo, oltre agli emolumenti di cui agli artt. 27 della legge n. 103 del 1979 e 2 della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al trattamento economico dei magistrati), emolumenti cancellati però dalla disposizione censurata.

24.2.– Vero è che, eccezion fatta per la materia penale, ove vige il principio di irretroattività della legge di cui all’art. 25 Cost., non può ritenersi interdetto al legislatore di intervenire in peius su diritti soggettivi perfetti relativi a rapporti di durata. Rimarca, tuttavia, il giudice a quo che la legittimità di tale modifica presuppone che la stessa sia in ogni caso giustificata da esigenze eccezionali e idonee ad imporre «sacrifici […] eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso», così come chiarito da questa Corte (è citata la sentenza n. 223 del 2012).

24.3.– Ad avviso del TAR rimettente, l’art. 9 in disamina è invece intervenuto in via definitiva, introducendo una modifica, tutt’altro che transeunte, di disposizioni che disciplinano, da oltre un secolo, il trattamento economico dell’Avvocatura erariale, imponendo un sacrificio arbitrario, in quanto richiesto ai soli avvocati e procuratori dello Stato e non già agli altri avvocati dipendenti delle amministrazioni pubbliche. E la lesione del legittimo affidamento comporta inoltre la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 6 CEDU: come chiarito dalla Corte europea dei diritto dell’uomo, la preminenza del diritto e lo stesso concetto di processo equo della CEDU di cui all’art. 6, ostano ad un intervento legislativo retroattivo, a meno che esso non sia giustificato da un motivo imperativo di interesse generale, che non può però ravvisarsi nell’ottenimento di un beneficio finanziario per lo Stato. E nel caso, la disposizione censurata, secondo il rimettente, comporta, con effetti retroattivi, un’irragionevole ingerenza nei diritti già assicurati dalla legge, all’unico scopo di ottenere un beneficio finanziario.

25.– Si è costituita la parte ricorrente nel giudizio a quo, ribadendo e ulteriormente supportando le ragioni di fondatezza della denunziata illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, già prospettate in occasione del ricorso introduttivo del giudizio principale e fatte proprie dal rimettente.

26.– È inoltre intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

26.1.– Sulle questioni diverse da quella prospettata in riferimento alla affermata lesione degli artt. 3, 25, nonché 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, la difesa erariale ripercorre gli stessi temi argomentativi già addotti in occasione degli altri giudizi di costituzionalità, descritti in precedenza.

26.2.– Quanto alla residua questione prospettata dal TAR rimettente, l’interveniente rimarca che la novella contestata si inserisce in una più ampia ottica volta al contenimento della spesa, realizzata con diversi interventi, a far tempo dal 2010, tesi ad incidere, riducendone il portato, sulla spesa afferente ai trattamenti economici del personale dipendente della pubblica amministrazione. Operando per tutto il settore del pubblico impiego, ad avviso dell’interveniente, se ne deve escludere l’irragionevolezza. Né può dirsi violato il principio dell’affidamento: una volta esclusa l’irragionevolezza della disciplina censurata, non viola la Costituzione l’intervento normativo retroattivo che incida sui diritti di natura economica connessi a rapporti di durata.

26.3.– Non meno infondata, ad avviso della interveniente, deve ritenersi la prospettata violazione dell’art. 6 della CEDU. La stessa Corte EDU, avrebbe infatti ritenuto coerenti con la Convenzione le limitazioni al diritto al godimento dei propri beni se sorrette, come nella specie, dal perseguimento della utilità pubblica, nel caso rintracciabile nelle eccezionali contingenze economiche che stanno alla base dei diversi provvedimenti legislativi di contenimento della spesa.

27.– Con memoria depositata il 13 settembre 2017, la difesa della parte privata ha replicato alle argomentazioni difensive della interveniente con riguardo a tutte le questioni prospettate dal TAR rimettente.

A tale memoria, con atto depositato il 19 settembre 2017, ha replicato la difesa dell’interveniente, ribadendo e ulteriormente supportando le difese già spiegate al momento della costituzione.

28.– Con ordinanza del 5 dicembre del 2016 (r.o. n. 60 del 2017) il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, dubita della costituzionalità dei commi 3, 4 e 6 del d.l. n. 90 del 2014 in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 35, 36, 42, 53, 77 e 97 Cost., nonché in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Nel corpo dell’ordinanza, il giudice a quo, inoltre, a differenza di quanto esplicitato nel dispositivo, lega i dubbi di incostituzionalità anche all’ulteriore parametro interposto offerto dall’art. 6 della CEDU.

29.– Anche in questo giudizio principale, per quanto evidenziato dal giudice a quo, il tema del contendere e i petita addotti dai ricorrenti mirano alla condanna delle amministrazioni resistenti al pagamento del dovuto secondo quanto dettato dalla normativa previgente passando dalla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate. Si sono costituite le amministrazioni resistenti, adducendo la manifesta infondatezza dei dubbi di illegittimità costituzionale sollevati dai ricorrenti e insistendo per la reiezione dei ricorsi.

30.– Il TAR rimettente descrive analiticamente il contenuto dei commi 2, 4 e 8 del citato art. 9 del d.l. n. 90 del 2014. E, in linea con le indicazioni dei ricorrenti, ritiene non manifestamente infondati i dubbi di illegittimità costituzionale riferiti alle citate disposizioni, in primo luogo in riferimento agli artt. 3, 35 e 97, Cost., nonché dell’art. 6 della CEDU per contrasto con i principi di ragionevolezza e per violazione del legittimo affidamento e del divieto di irretroattività della legge.

30.1.– Ad avviso del rimettente, la retroattività che connota le disposizioni censurate, destinate ad incidere su diritti patrimoniali legati a rapporti di durata, per resistere alla verifica di legittimità costituzionale non può che trovare adeguata giustificazione, come affermato da questa Corte, nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale. Indicazioni interpretative che si sommano a quelle, di segno analogo, offerte dalla Corte di Strasburgo, laddove, nel valutare la compatibilità delle disposizioni retroattive con i principi imposti dall’art. 6 della CEDU ha avuto modo di affermare che le norme destinate ad incidere retroattivamente su posizioni giuridiche soggettive consolidate devono trovare la loro ragion d’essere in un motivo imperativo di interesse generale e devono altresì garantire un ragionevole rapporto di proporzionalità tra il contenuto delle disposizioni ablative e lo scopo perseguito. Giustificazione che, nel caso, non potrebbe legittimamente rinvenirsi nelle esigenze straordinarie di contenimento della spesa pubblica che hanno motivato l’intervento contestato.

L’esigenza di garantire il legittimo affidamento dei cittadini nella certezza dei rapporti giuridici e nella stabilità delle situazioni soggettive e, per altro verso, l’interesse alla tutela di altri valori costituzionali coinvolti, costituiscono, secondo il giudice a quo, limiti invalicabili all’attività legislativa. La nuova legge, dunque, non può essere applicata, non solo ai rapporti giuridici che hanno esaurito i loro effetti prima della sua entrata in vigore, ma anche a quelli originati anteriormente e ancora in corso.

Da qui l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, laddove viene sancita la propria applicabilità anche alle ragioni di compenso maturate relativamente a controversie instaurate prima della entrata in vigore della legge contestata, qualora vengano decise successivamente.

Non va trascurato, inoltre, che il trattamento di minor favore determinato dalla censurata novella, non transeunte ma frutto di una riforma destinata ad operare strutturalmente sulle prospettive di retribuzione dei dipendenti in oggetto, non dà luogo ad un diretto risparmio per la spesa pubblica perché incide, piuttosto, su esborsi che non gravavano sullo Stato: e ciò rende ancora più evidente la sproporzione tra il pregiudizio arrecato e il vantaggio perseguito con le norme censurate.

31.– Ad avviso del TAR rimettente, risultano violati anche gli artt. 3, 23 e 53 Cost., perché con le disposizioni censurate si realizza un prelievo tributario realizzato in forma occulta, limitato solo ad una categoria di contribuenti e non temporaneo. Il tutto secondo le medesime linee argomentative tracciate dalla ordinanza resa dal TAR Calabria in data 16 giugno 2016 (r.o. n. 246 del 2016), espressamente richiamata.

32.– Il giudice a quo ritiene altresì non manifestamente infondati i dubbi prospettati dai ricorrenti avuto riguardo all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. La Corte di Strasburgo, infatti, avrebbe valorizzato la protezione delle legittime aspettative dei cittadini nei confronti di interventi legislativi ablativi dei loro diritti, anche legati a rapporti di credito. L’intervento legislativo ablativo deve ritenersi conforme alla Convenzione solo se motivato da un imperativo interesse generale e sempre se proporzionato nel confronto tra pregiudizio arrecato e scopo perseguito. E, nel caso, la non temporaneità dell’intervento peggiorativo e l’incidenza dello stesso su una quota di rilievo del relativo trattamento remunerativo rendono palese l’assenza di proporzionalità.

33.– Il TAR Campania, ancora, ribadisce, pressoché pedissequamente, i dubbi di costituzionalità prospettati in riferimento all’art. 3 Cost., primo comma, dal TAR Molise (r.o. n. 26 del 2017) in ragione della discriminazione provocata dalla novella avuto riguardo al trattamento economico degli avvocati dello Stato, se comparato con quello degli avvocati dipendenti di altri enti o amministrazioni pubbliche, in relazione alla misura dei compensi variabili.

34.– Ritiene, ancora, il rimettente che la normativa denunciata presenti profili di contrasto anche con l’art. 36 Cost. Ad avviso del giudice a quo, ogni modificazione legale del trattamento retributivo postula (per la sua compatibilità costituzionale) la verifica della conservazione del proporzionato equilibrio tra prestazione e stipendio imposto dal precetto costituzionale evocato. Una riduzione significativa dello stipendio, a fronte del mantenimento della stessa quantità e qualità della prestazione dovuta, potrebbe risolversi in una rottura del sinallagma e, quindi, in una lesione del principio della proporzionalità della retribuzione. E, nel caso, il vizio di incostituzionalità deriva, ad avviso del TAR rimettente, dalla circostanza che la misura della decurtazione si rivela idonea ad inficiare, squilibrandolo, il vincolo di corrispettività tra lavoro e retribuzione, elemento ravvisabile in ragione della complessità e quantità delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato.

35.– Infine, ad avviso del giudice a quo, il censurato art. 9 sarebbe in contrasto anche con il disposto dell’art. 77, secondo comma, Cost., secondo una prospettazione che ribadisce integralmente le indicazioni argomentative esplicitate sul tema dalla ordinanza del TRGA di Trento (r.o. n. 82 del 2016).

36.– Si sono costituiti i ricorrenti del giudizio principale, ribadendo, questione per questione, le argomentazioni già spese nel ricorso proposto innanzi al TAR rimettente a sostegno dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati con l’ordinanza di rimessione.

37.– Anche in questo giudizio incidentale è intervenuto, con la rappresentanza e la difesa dell’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri.

Le linee difensive tracciate dall’interveniente ricalcano pedissequamente quelle già espresse in occasione degli altri giudizi di costituzionalità descritti in precedenza.

Merita un cenno particolare, avuto riguardo alla prospettata illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 35 e 97 Cost., l’affermazione difensiva in forza della quale, nel caso di specie, la disciplina introdotta dalle disposizioni censurate non avrebbe efficacia retroattiva.

Il diritto alla percezione delle competenze variabili non maturerebbe alla data di instaurazione della relativa controversia né a quella di esecuzione della relativa prestazione. Vero è, piuttosto, che la disciplina relativa al riparto tra gli avvocati dello Stato degli onorari maturati nel corso di un giudizio muove imprescindibilmente dal passaggio in giudicato della decisione; si lega alla presenza in servizio del professionista interessato; fa riferimento al rendimento individuale nel quadrimestre relativo al momento in cui le somme vengono concretamente acquisite.

Ne consegue che il riferimento alla data di deposito delle sentenze quale spartiacque di efficacia tra la normativa previgente e quella introdotta dalla novella non incide su posizioni giuridiche soggettive consolidate.

38.– In data 19 settembre 2017, la difesa dell’interveniente ha depositato memoria tramite la quale ha ulteriormente evidenziato l’infondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati dal TAR rimettente.

Considerato in diritto

1.– Con cinque distinte ordinanze, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento (r.o. n. 82 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, (r.o. n. 246 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (r.o. n. 259 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per il Molise (r.o. n. 26 del 2017) e il Tribunale amministrativo regionale per la Campania (r.o. n. 60 del 2017) dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114.

2.– In particolare, detto art. 9 è censurato, nella sua interezza, da tutte le ordinanze, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.

I rimettenti, fatta eccezione per il TRGA di Trento, dubitano anche della legittimità costituzionale dei commi 2, 3, 4 e 6 del citato art. 9, in relazione all’art. 3, primo comma, Cost.

Dette disposizioni si porrebbero altresì in contrasto, secondo il TAR Calabria, con gli artt. 3, 23 e 53 Cost.; secondo il Tar Puglia, con gli artt. 3 e 53 Cost.; e, secondo il Tar Campania, con gli artt. 2, 3, 23, 36 e 53 Cost.

Il TAR Campania deduce, ancora, che i commi 2, 4 e 8 del suindicato art. 9 violerebbero gli artt. 3, 35, 42 e 97 Cost. Il TAR Puglia censura le medesime disposizioni in riferimento agli artt. 3, 25 nonché all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; anche il TAR Campania evoca l’art. 6 della CEDU e fa, inoltre, riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla richiamata Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la stessa legge n. 848 del 1955.

Infine, il TAR Calabria dubita della legittimità costituzionale del comma 1 del richiamato art. 9, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.

3.– La parziale comunanza delle disposizioni censurate e dei parametri costituzionali invocati nonché il contenuto analogo delle argomentazioni a sostegno delle censure comportano che i giudizi vengano riuniti e decisi congiuntamente.

4.– Le norme censurate hanno modificato la disciplina dei compensi variabili del personale dell’Avvocatura dello Stato, nonché degli altri avvocati dipendenti delle pubbliche amministrazioni, per le prestazioni professionali rese nel difendere in giudizio le amministrazioni di riferimento.

Giova ricordare, dunque, in via di premessa che il trattamento economico degli avvocati e procuratori dello Stato si compone, essenzialmente, di due diverse voci.

Una prima voce è quella retributiva fissa, costituita dallo stipendio tabellare, rapportato a quello goduto dai magistrati (art. 12 della legge 24 maggio 1951, n. 392, intitolato «Distinzione dei magistrati secondo le funzioni. Trattamento economico della magistratura nonché dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della Giustizia militare e degli avvocati e procuratori dello Stato»; nonché art. 9 della legge 2 aprile 1979, n. 97, recante «Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato»).

Un’altra componente di detto trattamento è quella modificata dal censurato art. 9, e attiene ai compensi maturati in ragione dell’attività difensiva svolta in giudizio, di natura variabile perché dipendenti dalla sorte del contenzioso.

4.1.– La disciplina normativa di riferimento, modificata e in parte abrogata dalle disposizioni contenute nel citato art. 9, è stabilita dall’art. 21 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato).

Sul piano regolamentare, assume rilievo, altresì, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 29 febbraio 1972 (Regolamento per la riscossione, da parte dell’Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione), recentemente integrato dalla disciplina introdotta dal decreto dell’Avvocatura generale dello Stato del 28 ottobre 2014 (Regolamento relativo ai criteri di determinazione del rendimento individuale ai sensi dell’art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 114), emanato in attuazione del comma 5 del censurato art. 9.

4.2.– Il sistema normativo previgente alla novella in esame distingueva due ipotesi: una prima, concernente il caso in cui le spese del processo erano state poste a carico della controparte (art. 21, commi 1, 2 e 3, del r.d. n. 1611 del 1933); una seconda, costituita dalla definizione della lite con compensazione delle spese di giudizio (secondo il citato art. 21, comma 3).

Nel primo caso (comunemente definito del "riscosso”), le somme recuperate dalla controparte a cura della stessa Avvocatura competente erano ripartite per sette decimi tra gli avvocati e procuratori di ciascun ufficio distrettuale e per i restanti tre decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato, una volta passata in giudicato la relativa pronuncia.

Nel secondo caso (comunemente definito del "compensato”) era corrisposta dall’Erario all’Avvocatura dello Stato, secondo le modalità stabilite dal regolamento, la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che si sarebbero liquidate nei confronti del soccombente. In caso di compensazione parziale, oltre la quota degli onorari riscossa dal soccombente, l’Erario era tenuto a corrispondere la metà della quota di competenze di avvocato e di procuratore sulla quale era caduta la compensazione (art. 21, comma 3, del r.d. n. 1611 del 1933).

4.3.– Su tale impianto normativo ha inciso la novella oggetto delle censure prospettate dai rimettenti.

4.3.1.– Il censurato art. 9, comma 1, stabilisce che i compensi variabili sopra descritti debbano essere computati ai fini del raggiungimento della soglia retributiva massima di cui all’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

4.3.2.– L’art. 9, comma 2, abroga l’articolo 1, comma 457, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», il quale prevedeva, per i compensi variabili in oggetto, una decurtazione del 25 per cento nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2014 ed il 31 dicembre 2016; lo stesso comma 2 dispone, inoltre, per quel che qui principalmente interessa, l’abrogazione dell’art. 21, comma 3, del r.d. n. 1611 del 1933, relativo, come anticipato, alla ripartizione delle competenze legate a cause definite con compensazione o transatte senza spese a carico della controparte.

4.3.3.– I commi 3, 4, 6 e 7 del richiamato art. 9 dettano la struttura nevralgica delle innovazioni apportate con le disposizioni censurate. È stata, infatti, rivista la disciplina concernente le cosiddette "propine”, distinguendo tra quelle destinate agli avvocati dello Stato e quelle maturate dagli avvocati dipendenti delle altre amministrazioni.

4.3.3.1.– Per questi ultimi, in caso di sentenza con spese a carico della controparte (di cui al censurato art. 9, comma 3), non si introducono limitazioni di sorta rispetto all’acquisizione di tali importi da parte degli avvocati dipendenti da altre amministrazioni, rimandando la fonte primaria, quanto a misura e modalità della ripartizione, alle disposizioni dei regolamenti dei singoli enti di riferimento e alle indicazioni di disciplina offerte dalla contrattazione collettiva. Le relative prospettive retributive devono, comunque, mantenersi all’interno delle soglie massime imposte in linea generale dal comma 1 del richiamato art. 9 (il tetto imposto dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2001) e individuale dal comma 7 dello stesso art. 9 (riferito allo specifico trattamento economico complessivo maturato di anno in anno).

Del pari, quanto alla ipotesi delle spese compensate o della causa transatta senza spese a carico della controparte, la norma primaria, pur non mettendo in discussione il relativo diritto, lo lega, nella misura, al contenuto delle previsioni dei regolamenti e della contrattazione collettiva di riferimento attualmente vigenti. Fermi i vincoli imposti dai commi 1 e 7 dello stesso art. 9, si prevede, inoltre, che la relativa spesa non potrà superare quanto già stanziato per il medesimo titolo per l’anno 2013 dalle singole amministrazioni.

4.3.3.2.– Relativamente al personale dell’Avvocatura dello Stato, è stato previsto che, in caso di soccombenza della controparte (comma 4, del citato art. 9), il diritto alla ripartizione è espressamente limitato al 50 per cento delle somme recuperate. La restante parte è destinata, in misura del 25 per cento, a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato; la residua quota, al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all’art. 1, comma 431, della legge n. 147 del 2013.

La nuova disciplina, con riguardo al personale dell’Avvocatura dello Stato, nulla prevede, inoltre, per le ipotesi di compensazione integrale o di transazione senza spese, una volta abrogata la normativa previgente (dall’art. 9, comma 2); piuttosto, nel disciplinare l’ipotesi relativa (di cui all’art. 9, comma 6), esclude espressamente gli avvocati dello Stato dal novero dei soggetti destinatari della relativa previsione.

4.3.4.– In ordine al regime temporale di efficacia delle innovazioni in oggetto, il censurato art. 9 (al comma 8, il cui contenuto coincide con quello del comma 2, in parte qua) dispone, quanto al cosiddetto "compensato”, che la novella è applicabile alle sentenze depositate successivamente all’entrata in vigore del decreto.

In caso di soccombenza della controparte (quindi, con riguardo al cosiddetto "riscosso”) la nuova disciplina (di cui al secondo periodo del censurato art. 9, comma 8) si applica invece «[…] a decorrere dall’adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 1º gennaio 2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell’Avvocatura dello Stato».

5.– Le domande formulate nei giudizi principali e le circostanze che hanno dato origine agli stessi, sono di identico tenore.

In tutti i giudizi i ricorrenti sono, infatti, avvocati o procuratori dello Stato che agiscono per il riconoscimento del diritto ai compensi maturati per le prestazioni rese in favore dell’amministrazione patrocinata, fondando la relativa pretesa sul regime normativo anteriore alla novella. Sono identici anche i relativi petita, diretti ad ottenere la condanna delle amministrazioni resistenti a pagare i maggiori importi dovuti, quantificati sulla scorta della previgente normativa, previa declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme introdotte dalla novella.

5.1.– Le questioni sollevate dai rimettenti hanno parametri di riferimento e oggetti in larga misura coincidenti, prospettando censure sostanzialmente sovrapponibili. Le stesse difese prospettate dalle parti private costituite nei giudizi davanti a questa Corte (tutti i ricorrenti dei processi principali), nonché dal Presidente del Consiglio dei ministri (intervenuto in tutti i giudizi di costituzionalità) hanno tratti comuni e ripetuti.

5.2.– Le questioni vanno ordinate in ragione dell’identità degli oggetti e delle censure prospettate. Per esigenze di chiarezza espositiva, questa Corte si riserva di evidenziare eventuali profili di inammissibilità in relazione al singolo gruppo di questioni esaminate.

Preliminarmente occorre, in via generale, sottolineare che le ordinanze di rimessione non sono affette da vizi di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza ed alla rilevanza delle sollevate questioni.

Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, va osservato che la questione di legittimità costituzionale del censurato art. 9 è pregiudiziale rispetto all’accertamento della pretesa economica prospettata nei giudizi principali e alla decisione della domanda di condanna delle amministrazioni resistenti. Del resto, il relativo petitum, volto ad ottenere la differenza tra quanto liquidato in virtù delle disposizioni novellate e quanto preteso dai ricorrenti sulla scorta della normativa previgente, permette di escludere la sovrapponibilità di oggetto tra giudizi principali e giudizio di costituzionalità, con conseguente ammissibilità delle questioni.

Inoltre, va data continuità al costante orientamento di questa Corte, secondo cui sono inammissibili le questioni ed i profili di costituzionalità dedotti dalle parti, ulteriori rispetto a quelli prospettati dai rimettenti, volti dunque ad ampliare o modificare il contenuto dei provvedimenti di rimessione (ex plurimis, sentenza n. 83 del 2015).

6.– Il primo gruppo di questioni concerne le censure aventi ad oggetto l’intero art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, denunciato da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., seguendo le linee argomentative tracciate, in particolare, dalla ordinanza di rimessione pronunciata dal TRGA di Trento.

6.1.– Secondo i giudici a quibus, detta norma avrebbe realizzato una riforma strutturale del trattamento economico spettante agli avvocati dello Stato, utilizzando lo strumento del decreto-legge in assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza.

La censura viene ancorata, oltre che all’art. 77 Cost., al disposto dell’art. 15, commi 1 e 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), e, ad avviso dei rimettenti, troverebbe conforto nella lettera delle premesse del d.l. n. 90 del 2014, esaminate partitamente dando rilievo all’epigrafe del decreto-legge, al preambolo, nonché al titolo e al capo che contengono l’articolo oggetto di censura e sottolineando, altresì, la disomogeneità tra la disciplina contestata e il contenuto degli altri articoli del medesimo capo.

Secondo i rimettenti, nessun collegamento sarebbe ravvisabile tra le riportate premesse e le disposizioni di cui si prospetta l’illegittimità costituzionale: le ragioni di contenimento della spesa pubblica, le uniche fondanti la riforma in disamina, infatti, renderebbero evidente l’assenza di correlazioni tra il decreto in parte qua e l’elemento finalistico proclamato nel preambolo, coerente con il restante ed omogeneo contenuto del decreto, del titolo e del capo di riferimento. Né, del resto, il preambolo darebbe conto delle ragioni di necessità e di urgenza che imponevano l’adozione delle previsioni normative censurate tramite un decreto-legge. La disomogeneità tra le disposizioni censurate e l’ulteriore contenuto del decreto impedirebbe, inoltre, di estendere alle prime le connotazioni di urgenza della restante parte del decreto.

Per altro profilo, l’art. 9 conterrebbe anche misure che non sono di immediata applicazione, come invece richiesto dall’art. 15, comma 3, della legge n. 400 del 1988. Il comma 8 del censurato art. 9 stabilisce, infatti, che il nuovo regime dei compensi con riferimento alle spese riscosse può trovare applicazione solo a decorrere, per quel che qui interessa, dalla previsione, nei regolamenti dell’Avvocatura dello Stato, di regole dettate per legare il riparto delle somme al rendimento individuale. Tanto renderebbe ancora più dubbia la concreta sussistenza dei presupposti della decretazione d’urgenza.

6.2.– Le questioni non sono fondate.

Non si ravvisa, in primo luogo, l’asserita estraneità delle disposizioni in esame rispetto al decreto-legge che le contiene.

Come già evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 133 del 2016, resa nello scrutinare l’art. 1, commi 1, 2 e 3, del medesimo decreto-legge, l’ampio preambolo che precede il provvedimento motiva la straordinaria urgenza, giustificando la necessità di intervenire anche in considerazione dell’esigenza di «[…] emanare disposizioni volte a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici».

All’interno di questa cornice finalistica, si inserisce, con adeguata coerenza, l’articolo in esame, collocato nel Titolo I, denominato «Misure urgenti per l’efficienza della p.a. e per il sostegno dell’occupazione» e più precisamente all’interno del Capo I di tale Titolo, recante la rubrica «Misure urgenti in materia di lavoro pubblico».

La novella tiene conto della crisi economico-finanziaria presente al momento dell’emanazione e persegue, come reso palese dalla relazione illustrativa predisposta dal Governo, la finalità di una revisione della spesa pubblica in uno dei settori di maggiore rilievo della stessa, quello inerente al costo per il personale della pubblica amministrazione, obiettivo ancor più compiutamente realizzato attraverso il coerente riferimento ai criteri di rendimento, di cui al comma 5 dell’articolo 9 in disamina, introdotto in sede di conversione.

Non può poi dubitarsi del fatto che il riordino ed il contenimento della spesa inerente al costo del personale costituiscono momenti di essenziale attuazione del buon andamento dell’azione amministrativa; considerazione, questa, che assume ancor più rilievo ora che l’art. 97, primo comma, Cost., nel richiedere alle pubbliche amministrazioni di assicurare la sostenibilità del debito, consolida il principio di economicità quale corollario del buon andamento della p.a.

Non manca, dunque, un coerente raccordo tra il censurato art. 9 e le premesse della decretazione d’urgenza. Non sussiste, inoltre, disomogeneità tra le disposizioni recate da detta norma e le altre del titolo e del capo di riferimento, ancora di più se si considera che quest’ultimo reca altre misure di revisione della spesa concernenti il personale, in particolare, le previsioni degli artt. 10 e 13, connotate da una comune logica di rimodulazione e contenimento di determinati emolumenti economici accessori.

6.2.1.– La congiuntura economica e finanziaria nella quale la disposizione è stata dettata consente di escludere, inoltre, che nella specie possa ritenersi insussistente il presupposto della straordinaria necessità e urgenza; ciò anche tenuto conto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sindacabilità in relazione all’art. 77 Cost., della scelta del Governo di intervenire con decreto-legge va limitata ai soli casi di evidente mancanza dei presupposti in questione o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione (ex plurimis, sentenze n. 287 e 133 del 2016; n. 10 del 2015; ordinanza n. 72 del 2015).

6.2.2.– Le disposizioni in esame, peraltro, non hanno realizzato una riforma organica e di sistema del segmento lavorativo di riferimento, non compatibile con la decretazione d’urgenza.

Le norme in esame influiscono sulle prospettive reddituali della categoria interessata e, tuttavia, incidono, senza peraltro neutralizzarla integralmente, soltanto sulla parte variabile del trattamento economico, senza intaccare lo stipendio tabellare, che costituisce il nucleo del relativo profilo retributivo.

6.2.3.– Le valutazioni sottese alla scelta della decretazione d’urgenza non sono censurabili neppure per manifesta irragionevolezza, a causa della mancata indicazione dell’entità del risparmio di spesa nella relazione tecnica di accompagnamento al decreto-legge n. 90 del 2014.

La variabilità dei compensi in oggetto impone infatti di valutare a consuntivo l’effettiva portata dell’intervento, giustificando a monte una certa indeterminatezza di contenuto del relativo risparmio di spesa. Peraltro, tale circostanza è temperata dalla possibilità di fare riferimento alle previsioni esplicitate in occasione della riduzione di spesa imposta dall’art. 1, comma 457, della legge n. 147 del 2013 (poi abrogato dal comma 2 del richiamato art. 9), il quale, per un periodo temporale limitato (il triennio 2014-2016), decurtava (anche se solo) in percentuale proprio tale voce del trattamento economico degli avvocati dipendenti pubblici, compresi quelli facenti parte del personale dell’Avvocatura dello Stato.

6.2.4.– Non rileva, infine, che il censurato art. 9, al comma 8, subordini l’applicabilità della novella (nella sola parte relativa alla ripartizione del "riscosso”) all’adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di riferimento, secondo le indicazioni di principio dettate dal precedente comma 5.

Tale norma non mette, infatti, in crisi la portata immediatamente precettiva della novella, tenuto conto sia dei tempi estremamente contenuti entro i quali le amministrazioni e le parti interessate dovevano procedere a siffatti adeguamenti (tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione), sia della stringente previsione correlata al mancato rispetto di tale termine (il blocco integrale della ripartizione del "riscosso” a far data dal 1° gennaio 2015). Il tutto, del resto, alla luce del principio di recente enunciato da questa Corte, secondo cui «la straordinaria necessità ed urgenza non postula inderogabilmente un’immediata applicazione delle disposizioni normative contenute nel decreto-legge, ma ben può fondarsi sulla necessità di provvedere con urgenza, anche laddove il risultato sia per qualche aspetto necessariamente differito» (sentenze n. 170 e n. 16 del 2017).

È dunque non fondata la censura, prospettata da tutte le ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.

7.– Tutti i rimettenti, con la sola eccezione del TRGA di Trento, dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2, 3, 4 e 6, del d.l. n. 90 del 2014, per contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., in quanto realizzerebbe una disparità di trattamento tra il personale dell’Avvocatura dello Stato e gli avvocati dipendenti delle altre amministrazioni pubbliche.

7.1.– In via preliminare, vanno rilevati, d’ufficio, alcuni profili di inammissibilità relativi all’individuazione delle norme impugnate.

7.1.1.– Il riferimento ai commi 3 (relativo al "riscosso” degli avvocati dipendenti da enti diversi dallo Stato) e 6 (che si riferisce al "compensato”, escludendo dalla relativa disciplina gli avvocati dello Stato) del denunciato art. 9, contenuto nelle ordinanze dei TAR Calabria, Molise, Puglia e Campania, deve ritenersi inammissibile, per difetto di rilevanza nei giudizi a quibus, perché relativo a disposizioni estranee alla disciplina dettata, dall’articolo in disamina, per il personale dell’Avvocatura dello Stato.

Tali disposizioni, in quanto concernenti esclusivamente gli avvocati dipendenti da amministrazioni diverse dallo Stato, costituiscono, al più, il tertium comparationis, non certo l’oggetto del dubbio di legittimità costituzionale.

Avuto riguardo alla ipotesi del cosiddetto "riscosso”, le censure avrebbero dovuto appuntarsi esclusivamente sul comma 4 del citato art. 9, con conseguente eccentricità dei rilievi rivolti al comma 3.

Identiche considerazioni vanno svolte in ordine al comma 6 di detta norma.

Quest’ultimo reca infatti una disciplina che non è applicabile al personale dell’Avvocatura dello Stato, soggetto alle norme di diritto pubblico ex art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche): abrogata la specifica disposizione previgente, la misura del diritto alla percezione di emolumenti per l’ipotesi del cosiddetto "compensato” non potrebbe infatti, oggi, essere demandata alla normazione secondaria o alla contrattazione collettiva, fonti cui rimanda, per i soli avvocati dipendenti da amministrazioni diverse dallo Stato, la disposizione in oggetto.

7.1.2.– Piuttosto, è di tutta evidenza, che, avuto riguardo al tema del "compensato”, assume rilievo decisivo il comma 2 dell’art. 9 nella parte in cui dispone l’abrogazione della norma che in precedenza tale diritto riconosceva e disciplinava (il già citato comma 3 dell’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1933). Solo il riferimento a tale disposizione dà, infatti, sostanza al vulnus di incostituzionalità prospettato in parte qua.

Tale disposizione, tuttavia, non trova un riscontro esplicito e letterale nelle censure esposte dai rimettenti, fatto salvo quanto evidenziato nell’ordinanza resa dal TAR Campania. Una lettura complessiva delle ordinanze di rimessione mette tuttavia in chiaro che, nella specie, pur in presenza delle riscontrate distonie con i diversi dispositivi, non decisive se superate dal tenore della motivazione (ex plurimis, da ultimo sentenza n. 203 del 2016), l’intero portato argomentativo delle questioni prospettate coinvolge sia il disposto del comma 4 dell’art. 9 in disamina, sia il comma 2 dello stesso articolo, in ragione dei diversi riferimenti resi alla intervenuta abrogazione della previgente normativa relativa alla disciplina del "compensato”.

7.2.– Ad avviso dei rimettenti, le disposizioni censurate violerebbero il principio di uguaglianza per la irragionevole discriminazione tra avvocati dello Stato ed avvocati di altre amministrazioni pubbliche avuto riguardo alla prevista decurtazione degli onorari. A differenza dei primi, gli avvocati delle amministrazioni pubbliche non statali hanno infatti conservato il diritto a percepire emolumenti legati sia all’ipotesi del "riscosso” che a quella del "compensato”, anche in misura integrale (a seconda di quanto previsto nei regolamenti dei rispettivi enti); per contro, gli avvocati dello Stato godono di una tale possibilità nei limiti del 50 per cento delle sole somme recuperate in danno della parte soccombente condannata alle spese.

L’art. 9 in esame, sottolineano i rimettenti, dà tuttavia corpo ad una riforma della parte variabile del trattamento economico non solo dell’Avvocatura dello Stato, ma di tutte le avvocature pubbliche. Coerenza e ragionevolezza dell’intervento normativo, dunque, non potrebbero che essere lette nel contesto in cui lo stesso è posto, rendendo arbitraria la detta differenziazione, che non troverebbe giustificazione nel livello della componente fissa della retribuzione degli avvocati dello Stato, solo assertivamente superiore, in media, a quella degli avvocati delle altre amministrazioni pubbliche.

Non andrebbe trascurato, inoltre, sempre secondo i rimettenti, che gli avvocati delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato hanno statuti e inquadramenti che mutano da un ente all’altro, senza possibilità di individuare una disciplina giuridica ed economica unitaria, di modo che l’assegnazione ai soli avvocati dello Stato di un trattamento economico variabile peggiorativo rispetto agli altri potrebbe assumere il carattere di una penalizzazione discriminatoria, soprattutto se il trattamento deteriore consegue alla semplice appartenenza all’Avvocatura dello Stato e non sia agganciata ad una soglia stipendiale specifica.

7.3.– Le questioni non sono fondate.

Relativamente a dette censure va accolta l’eccezione dell’interveniente quanto alla inidoneità del tertium comparationis indicato dai rimettenti a conforto delle stesse.

Le due categorie poste a raffronto, avuto riguardo ai relativi status giuridici ed economici, presentano connotazioni eterogenee, tali da inficiare il giudizio di comparazione richiesto.

Infatti, gli avvocati e procuratori dello Stato sono stati espressamente sottratti al regime della privatizzazione che ha interessato il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione: essi si caratterizzano, quindi, per una peculiarità ordinamentale che li differenzia dagli altri avvocati dipendenti della pubblica amministrazione, soggetti, di contro, alla contrattazione collettiva.

La eterogeneità dei termini raffrontati preclude dunque la comparazione in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., come già affermato da questa Corte (sentenze n. 192 del 2016 e n. 178 del 2015), qualora il confronto avvenga tra categorie disomogenee, l’una ricompresa e l’altra esclusa dall’area del lavoro pubblico contrattualizzato.

Sono pertanto non fondate le censure concernenti i commi 2 e 4 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, proposte in riferimento all’art. 3 Cost.

8.– Il TAR Calabria e il TAR Campania deducono altresì la violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost., sul presupposto della natura tributaria delle decurtazioni e limitazioni imposte dalla novella. Analoghe censure sono prospettate dal TAR Puglia, pur se riferite ai soli artt. 3 e 53 Cost. Soltanto il TAR Campania, inoltre, prospetta la lesione anche dell’art. 2 Cost.

8.1.– Non diversamente da quanto in precedenza segnalato, le ordinanze di rimessione sono connotate da incongruenze di contenuto tra motivazione e dispositivo. Si profilano, inoltre, ragioni di inammissibilità, rilevate d’ufficio, con riferimento sia ad alcune delle norme oggetto delle censure in disamina, sia ad uno dei parametri costituzionali evocati a sostegno di una delle dette questioni.

8.1.2.– Il TAR Calabria, nel dispositivo dell’ordinanza, non fa cenno ai citati parametri costituzionali, mentre esplicita l’oggetto delle censure facendo puntuale richiamo ai commi 3, 4 e 6 dell’art. 9. La lettura della motivazione consente, tuttavia, di delimitare la questione alla sola decurtazione prevista dal comma 4, in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost.

Le censure dirette nei confronti dei commi 3 e 6, evocate nel solo dispositivo, sono prive di svolgimento argomentativo: ne consegue l’inammissibilità per carenza di motivazione.

8.1.3.– Il TAR Puglia non indica esplicitamente, nel dispositivo, le disposizioni, interne all’art. 9, oggetto delle censure prospettate a sostegno della questione. In motivazione, con argomentazioni che si sovrappongono rispetto alla già esaminata questione sollevata con riguardo all’art. 3, primo comma, Cost., il rimettente fa un riferimento solo nominale ai commi 3 e 6 del citato art. 9, limitandosi ad argomentare rilievi di incostituzionalità sul solo comma 4 dell’articolo più volte richiamato.

Anche con riferimento a tale ultima ordinanza, dunque, si profilano ragioni di inammissibilità identiche a quelle prospettate con riguardo all’ordinanza di rimessione del TAR Calabria.

8.1.4.– Il TAR Campania fa un espresso riferimento anche al comma 2, ma solo in motivazione, senza peraltro supportare sul piano argomentativo il relativo richiamo; la censura viene ancorata anche al parametro di cui all’art. 2 Cost., senza tuttavia sviluppi argomentativi spesi in seno alla motivazione.

Appare dunque evidente l’inammissibilità, per difetto integrale di motivazione, delle censure concernenti i commi 2, 3 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014 sollevate in riferimento agli artt 3, 23 e 53 Cost., nonché quella prospettata in direzione del comma 4 dello stesso articolo per l’asserito contrasto con l’art. 2 Cost.

8.2.– Delimitato l’oggetto dello scrutinio di costituzionalità al solo comma 4 dell’art. 9, può ora passarsi alla descrizione delle censure.

Muovendo da quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 223 del 2012, i rimettenti ritengono sussistenti nella specie gli elementi indefettibili propri della imposizione tributaria. La disciplina censurata sarebbe infatti diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, senza modificare il rapporto sinallagmatico posto alla base delle situazioni remunerative incise dalla novella; il tutto perseguendo finalità di risanamento della finanza pubblica, rese evidenti da quanto esplicitato dal comma 4 del censurato art. 9, laddove si prevede – per i casi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti – che una quota pari al 25 per cento delle somme recuperate «[…] è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all’art. 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni».

Ad avviso dei giudici a quibus, l’imposizione tributaria determinata dalla censurata novella inciderebbe, inoltre, su una particolare voce remunerativa, che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro. Dunque, introdurrebbe, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto in danno della categoria di dipendenti statali in esame, non contrattualizzata. Del resto, la disciplina in disamina, in ragione del carattere, ad essa proprio, di prelievo appare, secondo i rimettenti, di dubbia costituzionalità perché strutturata e non temporanea.

8.3.– Le censure non sono fondate.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 96 del 2016; n. 178 e n. 70 del 2015; n. 154 del 2014; n. 310 e n. 304 del 2013; n. 233 del 2012), una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino tre indefettibili requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.

Nel caso in esame non sussistono i primi due dei tre indici sopra elencati.

8.3.1.– Quanto alla decurtazione patrimoniale, va rilevato che il diritto alla partecipazione "al riscosso” matura di pari passo con il progredire del giudizio nel quale vengono rese le prestazioni professionali da compensare.

Non va trascurato, al fine qui rilevante, che il combinato disposto dei primi due commi dell’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1993, nello stabilire il diritto alla ripartizione di tali compensi, lega il consolidarsi della relativa pretesa al verificarsi di tre diversi presupposti: il primo, dato dalla presenza di un titolo, anche transattivo, che ponga a carico della controparte le spese di giudizio; il secondo, correlato al passaggio in giudicato del titolo che dispone sulle spese; il terzo, relativo alla effettiva esazione delle somme in questione.

Ora, quale che sia il momento di completamento di tale fattispecie a formazione progressiva, in ogni caso non può negarsi che la relativa pretesa patrimoniale è quantomeno subordinata alla condanna della controparte alle spese ovvero alla presenza di una transazione che ponga su quest’ultima il costo del giudizio: sino a quando non viene a concretarsi tale presupposto, l’avvocato dipendente può dirsi titolare solo di una aspettativa con riguardo alla possibilità di percepire tali emolumenti, sino a quel momento solo eventuale.

La disciplina intertemporale dettata dall’art. 9 (data, per quel che riguarda il "riscosso”, dal comma 8 letto congiuntamente al comma 5), avuto riguardo al personale della Avvocatura dello Stato, condiziona l’applicabilità della novella alla entrata in vigore del regolamento chiamato a prevedere i criteri di rendimento attraverso i quali modulare quantitativamente il diritto alla ripartizione delle propine. Le nuove disposizioni sono, dunque, operative per le sole prestazioni rese in giudizi definiti con titoli giudiziali depositati o con transazioni formalizzate dopo l’entrata in vigore del detto regolamento.

La revisione quantitativa del diritto alla ripartizione del "riscosso”, imposta dalla normativa censurata, incide, dunque, su situazioni giuridiche soggettive non ancora maturate, vale a dire quelle inerenti ai giudizi definiti da provvedimenti depositati dopo l’emanazione del regolamento di cui al comma 5.

È, pertanto, da escludere che nel caso possa riscontrarsi una effettiva decurtazione, la quale, invece, presuppone l’incidenza della novità normativa su situazioni soggettive di matrice patrimoniale compiutamente formate.

8.3.2.– Non può poi trascurarsi che il comma 5 del censurato art. 9, grazie alle modifiche apportate in sede di conversione, ha introdotto nel sistema verifiche di rendimento destinate ad incidere sul quantum del diritto a godere degli emolumenti in questione in ragione di alcuni filtri valutativi definiti dalla normazione secondaria.

È di tutta evidenza, dunque, che le modifiche introdotte dalla novella incidono, modificandolo, sul sinallagma contrattuale, perché il diritto alle propine viene modulato differentemente in ragione del rendimento degli avvocati dipendenti: non si risolvono, dunque, esclusivamente in una decurtazione patrimoniale, così da condurre la fattispecie al di fuori dei casi di imposizione tributaria anomala e implicita, in altre occasioni riscontrati da questa Corte.

8.4.– Esclusa la matrice tributaria della previsione in oggetto, perdono di rilievo le ulteriori censure proposte in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., tutte sollevate sul presupposto della sussistenza della natura tributaria.

9.– Il TAR Puglia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in riferimento agli artt. 3, 25 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU. Le riduzioni apportate dalla novella, a suo avviso, avrebbero efficacia retroattiva e sarebbero destinate ad incidere negativamente su diritti soggettivi legati a rapporti di durata. Dunque, sarebbe lesa la tutela dell’affidamento anche in ragione della irragionevolezza delle decurtazioni imposte, non proporzionate agli interessi collettivi all’uopo perseguiti, entrando in conflitto anche con detta norma della Convenzione.

9.1.– Per quanto genericamente rivolta all’intero art. 9, la questione va delimitata alle sole disposizioni (i commi 2, 4 e 8) del medesimo articolo, con le quali si impongono le riduzioni e le decurtazioni più volte descritte e si detta, al contempo, la relativa disciplina intertemporale di operatività della novella. Così ricostruita, la questione coincide, per oggetto e contenuti argomentativi, con quella prospettata, in motivazione, dal TAR Campania.

9.2.– Va, tuttavia, osservato che il TAR Campania, oltre ad evocare l’art. 3 Cost, indica, quali parametri assertivamente violati, anche gli artt. 35, 42 e 97 Cost. Ancora, adduce la violazione sia dell’art. 6 della CEDU, sia dell’art. 1 del relativo Protocollo addizionale, con argomentazioni che portano a ritenere implicitamente sollevata la questione anche in relazione all’art. 117, primo comma, Cost.

9.2.1.– Le censure prospettate in riferimento agli artt. 35, 42 e 97 Cost. dal TAR Campania sono inammissibili per carenza di argomentazioni spese a conforto delle stesse.

9.3.– Delimitato l’oggetto delle due questioni in disamina, venendo al merito delle relative censure, va evidenziato che, secondo quanto concordemente prospettato dai rimettenti, benchè non sussista il divieto di irretroattività della legge, in quanto previsto dall’art. 25 Cost. soltanto per la legge penale, la facoltà del legislatore ordinario di modificare in peius la disciplina concernente i diritti soggettivi perfetti relativi a rapporti di durata richiede che la stessa sia giustificata da esigenze di assoluto rilievo, tali da imporre sacrifici eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso.

Sempre secondo i rimettenti, il censurato art. 9 avrebbe invece modificato, in modo tutt’altro che transeunte, disposizioni che disciplinano, da oltre un secolo, il trattamento economico dell’Avvocatura erariale, imponendo un sacrificio arbitrario ai soli avvocati e procuratori dello Stato, non anche agli altri avvocati dipendenti delle amministrazioni pubbliche. La lesione del legittimo affidamento comporterebbe anche la violazione dell’art. 6 della CEDU: come chiarito dalla Corte di Strasburgo, la preminenza del diritto e lo stesso concetto di processo equo di cui a detto articolo ostano, infatti, ad un intervento legislativo retroattivo, a meno che esso non sia giustificato da un motivo imperativo di interesse generale, che non può però ravvisarsi nella mera realizzazione di un beneficio finanziario per lo Stato.

9.3.1.– Il solo TAR Campania censura le disposizioni in oggetto anche in relazione al disposto di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

Ad avviso del rimettente, le misure disposte dalle norme censurate, destinate ad incidere sulle legittime aspettative degli avvocati dello Stato alla continuativa percezione del medesimo trattamento retributivo, sarebbero manifestamente prive di un ragionevole fondamento. In particolare non vi sarebbe proporzionalità tra l’ablazione disposta, le ragioni della collettività che la sostengono e il sacrificio non transeunte che ne deriva, operante su una quota non indifferente del relativo trattamento retributivo.

9.4.– Le censure non sono fondate avuto riguardo a tutti parametri evocati, compreso quello inerente al Protocollo addizionale alla CEDU che viene valutato congiuntamente agli altri, considerato che gli indici sintomatici della lesione del legittimo affidamento, elaborati da questa Corte e dalla Corte EDU, in gran parte convergono.

9.4.1.– Si è anticipato che la disciplina impugnata, avuto riguardo alla ipotesi del "compensato”, limita l’applicabilità delle nuove norme alle sole pretese patrimoniali inerenti a prestazioni rese in giudizi definiti con provvedimento depositato (o con una transazione formalizzata) in data successiva alla entrata in vigore del decreto. Quanto al "riscosso”, l’operatività della novella è stata altresì subordinata alla avvenuta adozione dei parametri di rendimento, demandata alla fonte regolamentare.

Va, pertanto, ribadito che, quantomeno sino alla data della decisione che definisce il giudizio regolandone anche le spese, il professionista dipendente non può ritenersi titolare di una posizione giuridica soggettiva consolidata, essendo la stessa subordinata all’esito del giudizio stesso. Piuttosto, il dipendente in questione vanta una aspettativa legata al tenore della normativa di riferimento presente al momento della esecuzione della prestazione.

9.4.2.– Alla luce di tali premesse, può escludersi la retroattività delle disposizioni censurate. Deve infatti ritenersi che le nuove norme siano destinate, considerato il momento di consolidamento della relativa pretesa retributiva, ad operare ex nunc, perché dirette a disciplinare situazioni non ancora compiutamente definite all’interno del rapporto lavorativo corrente tra amministrazione e dipendente.

9.4.3.– Ciò non ostacola l’ulteriore approfondimento del merito relativo alle questioni in disamina.

Non diversamente da quanto accade per i diritti, anche in caso di novità normativa destinata ad incidere su aspettative giuridicamente qualificate legate a rapporti di durata, occorre, infatti, valutare, ex art. 3 Cost., ragionevolezza e proporzione della novella nell’ottica del necessario bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti (sentenza n. 203 del 2016).

9.4.4.– Secondo l’ormai costante orientamento di questa Corte (ex multis, da ultimo, sentenza n. 16 del 2017), in termini non diversi da quanto elaborato sul tema dalla Corte EDU, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto. La tutela dell’affidamento non comporta, tuttavia, che nel nostro sistema costituzionale sia assolutamente interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Tali disposizioni, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono tuttavia trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica.

9.5.– Deve escludersi che, alla luce delle suesposte considerazioni, il legislatore, con le disposizioni censurate, abbia realizzato una scelta irragionevole e arbitraria.

9.5.1.– Le limitazioni e decurtazioni imposte dalla normativa censurata trovano una incontroversa ratio nelle già evidenziate esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica, maturate in un contesto di necessità e urgenza quale quello indotto dalla grave crisi finanziaria nel cui ambito è intervenuta la novella in contestazione.

Assume rilievo anche il settore sul quale le norme in oggetto hanno inciso, quello del lavoro nella pubblica amministrazione, che integra una delle più significative voci di spesa pubblica. Né va trascurato, del resto, che il contenimento del costo del lavoro pubblico entro i vincoli di bilancio costituisce uno degli obiettivi strutturali della relativa disciplina così come reso evidente dal tenore letterale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001.

In questo contesto di riferimento, in più occasioni questa Corte ha ritenuto non arbitrarie e irragionevoli misure normative dirette a incidere sulla spesa del personale della pubblica amministrazione anche quando l’intervento contestato incideva su diritti maturati nel settore del lavoro pubblico (ex plurimis, sentenze n. 304 e n. 310 del 2013).

9.6.– Le restrizioni imposte alla categoria di riferimento hanno un portato non indifferente; ancora, che l’aspettativa di godimento degli emolumenti in questione riposa su un dato normativo consolidato negli anni; infine, che vengono introdotte riduzioni strutturali.

Muovendo dal contenuto delle disposizioni censurate, si tratta di verificare, dunque, se la certezza del diritto, correlata alle esigenze di stabilità e di sicurezza delle situazioni giuridiche nascenti dal rapporto di lavoro sul quale poggiano gli emolumenti in oggetto, possa ritenersi legittimamente compressa, con le modalità sopra accennate, da un dato normativo successivo, ispirato alle evidenziate esigenze di contenimento della spesa.

9.6.1.– Non può, in primo luogo, trascurarsi che, nella comparazione tra valori sottesa allo scrutinio in esame, l’aspettativa da tutelare, per quanto meritevole di considerazione, non ha di certo lo stesso rilievo ponderale che va invece assegnato alle posizioni giuridiche soggettive pienamente consolidate.

Si tratta, peraltro, di aspettativa immediatamente correlata al tema delle competenze professionali inerenti a prestazioni rese nel corso di un giudizio. In quanto tale, risente ontologicamente dei mutamenti di disciplina destinati ad influire sui criteri di determinazione del contenuto della relativa pretesa patrimoniale, dovendosi comunque guardare al dato normativo vigente al momento della relativa liquidazione (ordinanza n. 261 del 2013). E ciò non può che rilevare nella specie, essendo le situazioni soggettive in oggetto fisiologicamente esposte alla dinamica fluidità del relativo regime normativo.

9.6.2.– Occorre, poi, considerare che la normativa censurata, attraverso la già descritta disciplina transitoria, circoscrive il perimetro di incidenza delle disposte decurtazioni: sono, infatti, rimaste indifferenti alle modifiche le prestazioni professionali inerenti a giudizi definiti con provvedimenti già depositati (o transazioni concluse) alla data di entrata in vigore del decreto o a quella di adeguamento del regolamento richiamato dal comma 5, per le quali continua ad operare la previgente e più favorevole disciplina.

9.6.3.– Peraltro, diversamente da quanto prospettato dai rimettenti, il contenimento della spesa non viene realizzato con riduzioni e limitazioni apportate a carico del solo personale dell’Avvocatura dello Stato.

La soglia massima di godimento degli emolumenti in oggetto, prevista dal comma 1 dell’art. 9, risulta, infatti, estesa anche agli altri avvocati dipendenti ai quali, inoltre, viene riferito espressamente anche il tetto indicato al comma 7 dello stesso articolo oltre che il limite di stanziamento previsto per l’anno 2013, indicato dal comma 6 quanto alla ipotesi del "compensato”.

9.6.4.– È, poi, decisivo che alle modifiche peggiorative imposte dalla novella sia rimasta insensibile la voce retributiva legata allo stipendio tabellare, lo stesso corrisposto ai magistrati, la cui adeguatezza fonda, sul versante del relativo trattamento economico, le prerogative di indipendenza e autonomia assicurate dai principi costituzionali.

Né, ancora, può ritenersi insignificante che la novella abbia neutralizzato integralmente solo la quota relativa al "compensato”, l’unica effettivamente gravante sull’erario, mantenendo, per contro, la pretesa degli avvocati dello Stato a prendere parte alla ripartizione del "riscosso” in termini tali (il 50 per cento delle somme recuperate dalla controparte) che non possono ritenersi indifferenti alla luce del complessivo trattamento economico. Ciò ancora più se si considera che, ai sensi del comma 4 dell’articolo censurato, una quota parte del residuo riscosso e non più distribuito (il 25 per cento dell’intero) è stato stornato verso obiettivi (il fondo destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso la stessa Avvocatura) diretti a favorire accessi quanto più qualificati al relativo organico di riferimento, in piena coerenza con l’obiettivo di razionale gestione delle risorse a disposizione, posto a fondamento dell’intervento contrastato.

9.6.5.– Deve dunque negarsi che le disposizioni censurate realizzino arbitrarie e non proporzionate restrizioni, tenuto conto delle già enunciate esigenze di riordino e contenimento della spesa pubblica.

9.7.– Del pari, sulla base delle medesime considerazioni, si può anche escludere l’addotta violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in linea con quanto costantemente affermato dalla Corte EDU nel verificare il rispetto della citata norma convenzionale: può dirsi, infatti, salvaguardato il giusto equilibrio che la disposizione in oggetto impone tra l’interesse generale della comunità, perseguito dall’intervento statale, e l’obbligo di proteggere i diritti fondamentali della persona, incisi dall’intervento ablativo realizzato dalle norme scrutinate (ex plurimis, da ultimo, sentenza della Corte EDU 17 novembre 2015, Preite contro Italia, paragrafo 44).

9.7.1.– Va ribadito che secondo la Corte EDU, le ragioni di contenimento della spesa pubblica integrano il requisito del legittimo interesse generale, il quale, ai sensi dell’art. 1 del Protocollo, può giustificare l’ingerenza da parte di un’autorità pubblica nel pacifico godimento dei «beni» tutelati dalla citata disposizione convenzionale, tra questi comprese, soprattutto in materia retributiva e previdenziale, anche le aspettative legittime legate a prestazioni dal contenuto patrimoniale (da ultimo, sentenza 15 aprile 2014, Stefanetti ed altri contro Italia, paragrafo 48). Per altro verso, va ricordato che la stessa Corte riconosce che le autorità nazionali sono generalmente nella migliore posizione per decidere cosa sia di pubblico interesse nell’attuazione degli interventi che, come quello di specie, sono finalizzati alla riduzione della spesa pubblica in ragione della particolare situazione economica in cui sono maturati (sentenza 19 giugno 2012, Khoniakina contro Georgia, paragrafo 76; sentenza 20 marzo 2012, Panfile contro Romania, paragrafi 11 e 21).

9.7.2.– Si è già anticipato che le misure adottate non sono né irragionevoli arbitrarie; non impongono, in particolare, oneri eccessivi alla categoria interessata.

Non viene messo in crisi, dunque, il ragionevole rapporto di proporzionalità che deve correre tra mezzi impiegati e fini perseguiti. E ciò ancor di più considerando il già evidenziato ampio margine di apprezzamento che la Corte EDU suole riconoscere al singolo Stato nella individuazione sia delle modalità di attuazione delle misure di politica economica o sociale, sia delle conseguenze correlate alla realizzazione degli obiettivi all’uopo fissati, così che, soprattutto in presenza di risorse statali limitate, solo le scelte del legislatore manifestamente prive di ragionevole fondamento possono dar luogo al vulnus paventato dai rimettenti (sentenza del 24 giugno 2014, Silverfunghi ed altri contro Italia, paragrafi 103 e 105; sentenza 8 ottobre 2013, Da Conceição Mateus e altro contro Portogallo, paragrafo 22).

9.8.– Sia il TAR Puglia che il TAR Campania adducono anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 6 CEDU.

Tale norma convenzionale è, tuttavia, evocata erroneamente, giacché le disposizioni censurate non danno corpo ad alcuna ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia, e non mirano ad influenzare la definizione giudiziaria di una lite, presupposto oggettivo imprescindibile della tutela garantita dall’art. 6 (Corte EDU, sentenza del 3 settembre 2013, M.C. ed altri contro Italia, paragrafi 49, 50, 52, 53).

Di qui la non fondatezza della questione.

10.– Le ultime due questioni oggetto dello scrutinio sollecitato dalle ordinanze di rimessione in disamina ruotano intorno alla natura retributiva degli emolumenti presi in considerazione dalla novella, in linea con quanto già affermato da questa Corte (sentenze n. 33 del 2009 e n. 624 del 1988).

10.1.– Il TAR per la Campania dubita della legittimità costituzionale dei commi 2, 4 e 8 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, in riferimento all’art. 36 Cost.

A suo avviso, l’insieme delle decurtazioni e limitazioni in questione inficerebbe, squilibrandolo, il vincolo di corrispettività tra lavoro e retribuzione, alla luce della complessità e quantità delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato.

10.1.1.– La censura non è fondata.

Secondo quanto costantemente affermato da questa Corte (ex multis, sentenze n. 96 del 2016; e n. 154 del 2014), il giudizio sulla sufficienza e sulla proporzionalità della retribuzione non può prescindere da una valutazione complessiva delle diverse voci che la compongono e non può essere svolto per singoli istituti.

Il rimettente ha invece focalizzato l’attenzione esclusivamente sul contenuto delle riduzioni apportate dalla norma censurata, trascurando, nel quadro retributivo complessivo relativo alla categoria di riferimento, di valutare l’incidenza da ascrivere alla componente offerta dallo stipendio tabellare, rimasta insensibile alla novella; né, ancora, è stato dato il giusto peso al ruolo che deve ascriversi alla componente retributiva aggiuntiva legata agli emolumenti per il "riscosso”, ancora riconosciuti, seppure in quota parte, agli avvocati dello Stato.

Da qui la non fondatezza della questione prospettata.

10.2.– Il TAR Calabria denunzia la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., da parte dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, che ha compreso gli emolumenti inerenti alle competenze professionali tra quelli soggetti al limite stabilito dall’art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011 e successive modificazioni.

10.2.1.– La questione è inammissibile.

Nell’ordinanza di rimessione, il rimettente non ha dedotto ed esplicitato se nel giudizio principale veniva in questione il superamento del limite di cui al citato art. 23-ter.

Nel difetto di motivazione in ordine alle ragioni dell’applicabilità del limite stabilito dalla richiamata disposizione, la censura è inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi:

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 3 e 6, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise e dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2, 3 e 6, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge 114 del 2014, in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., e del comma 4 dello stesso articolo in relazione all’art. 2 Cost., sollevata dal TAR Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionali dell’art. 9, commi 3 e 6, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevate dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, in riferimento agli artt. 3, 23 e 53, Cost., e dal TAR Puglia in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe;

4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2, 4 e 8, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevata dal TAR Campania in riferimento agli artt. 35, 42 e 97 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevata dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevate dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, dal TAR Puglia, dal TAR Molise e dal TAR Campania, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe;

7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2 e 4 del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevate dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, dal TAR Puglia, dal TAR Molise e dal TAR Campania, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe;

8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevate dal TAR Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria e dal TAR Campania, in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., e dal TAR Puglia in riferimento agli artt. 3 e 53, Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe;

9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2, 4 e 8 del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevate dal TAR Puglia, in riferimento agli artt. 3, 25 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e dal TAR Campania, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla richiamata Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la stessa legge n. 848 del 1955, con le ordinanze indicate in epigrafe;

10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2, 4 e 8 del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, sollevata dal TAR Campania in riferimento all’art. 36, Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 ottobre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 novembre 2017.