Sentenza n. 98 del 2017

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SENTENZA N. 98

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-          Paolo                           GROSSI                                            Presidente

-          Giorgio                        LATTANZI                                         Giudice

-          Aldo                            CAROSI                                                    

-          Marta                           CARTABIA                                              

-          Mario Rosario             MORELLI                                                 

-          Giancarlo                    CORAGGIO                                              

-          Giuliano                      AMATO                                                    

-          Silvana                        SCIARRA                                                 

-          Daria                           de PRETIS                                                

-          Nicolò                         ZANON                                                    

-          Franco                         MODUGNO                                              

-          Augusto Antonio         BARBERA                                                

-          Giulio                          PROSPERETTI                                         

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 9, 15 (recte: 15, comma 1, lettera c), 19 (recte: 19, comma 1, lettera a), 72, comma 1, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2016, n. 4 (Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il settore terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo economico) promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per la notifica il 13 giugno 2016, depositato il 21 giugno 2016 e iscritto al n. 36 del registro ricorsi 2016.

Visti l’atto di costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonché l’atto di intervento, fuori termine, della FEDERDISTRIBUZIONE – Federazione delle Associazioni delle Imprese e delle Organizzazioni Associative della Distribuzione Moderna Organizzata;

udito nell’udienza pubblica dell’11 aprile 2017 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Massimo Luciani per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.

Ritenuto in fatto

1.– Con il ricorso spedito per la notifica il 13 giugno 2016, depositato il successivo 21 giugno e iscritto al registro ricorsi n. 36 del 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, degli articoli 1, 3, 9, 15 (recte: 15, comma 1, lettera c), 19 (recte: 19, comma 1, lettera a), 72 comma 1, della legge regionale 8 aprile 2016, n. 4 (Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il settore terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo economico), per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettere e) e s), della Costituzione, nonché degli artt. 4 e 6 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).

1.1.– Il ricorrente censura: il citato art. 1, nella parte in cui modifica l’art. 29 della legge regionale 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa organica in materia di attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»), disponendo che «l’esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa è svolto senza limiti relativamente alle giornate di apertura e chiusura, a eccezione dell’obbligo di chiusura nelle seguenti giornate festive: 1° gennaio, Pasqua, lunedì dell’Angelo, 25 aprile, l° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre»; il richiamato art. 3, che hamodificato l’art. 30, della legge regionale n. 29 del 2005, disponendo che, «nei Comuni classificati come località a prevalente economia turistica, gli esercenti determinano liberamente le giornate di chiusura degli esercizi di commercio al dettaglio in sede fissa, in deroga a quanto disposto dall’art. 29». La disposizione impugnata precisa altresì le località a prevalente economia turistica e stabilisce che con delibera «della Giunta regionale, su domanda del comune interessato, possono essere individuate ulteriori località a prevalente economia turistica, sulla base delle rilevazioni periodiche di Promo Turismo FVG».

Secondo il ricorrente, gli impugnati artt. 1 e 3 violano l’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia «tutela della concorrenza», e gli artt. 4 e 6 dello statuto della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, che definiscono la potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di commercio, da esercitare in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato (art. 4, comma 1), potendo la Regione adeguare con norme integrative la legislazione statale alle proprie esigenze in alcune materie indicate dall’art. 6, ma non in materia di commercio.

La disciplina uniforme degli orari e dei giorni di apertura degli esercizi commerciali atterrebbe alla materia «tutela della concorrenza»; l’autonomia normativa regionale speciale non potrebbe dunque incidere su tale disciplina attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (vengono richiamate le sentenze n. 104 del 2014, n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007).

Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in questa materia sarebbe, ad avviso del ricorrente, l’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma l, della legge 22 dicembre 2011, n. 214. La disposizione avrebbe liberalizzato  l’attività imprenditoriale nel settore commerciale, stabilendo che «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali».

In particolare, il profilo degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali è disciplinato dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del d.l. n. 223 del 2006 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), come modificato dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il quale stabilisce che le attività commerciali «individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114» (recante «Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59»), sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di apertura e chiusura, dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.

L’imposizione generalizzata del divieto di apertura nei giorni festivi indicati dalla legge impugnata, e l’esclusione di quest’obbligo nei soli comuni a prevalente economia turistica, contrastano con tale assetto, «costituente disciplina della concorrenza e riforma economica fondamentale», sicché la normativa in esame esulerebbe dalla materia «commercio», invadendo la competenza esclusiva statale, per contrasto con il d.l. n. 223 del 2006 e con il successivo d.l. n. 201 del 2011, come convertiti in legge.

Le medesime violazioni si colgono anche in riferimento all’art. 3 della legge regionale n. 4 del 2016, che prevede la liberalizzazione totale dei giorni di apertura soltanto nei comuni a prevalente economia turistica, sotto il profilo della disparità di condizioni territoriali di esercizio del commercio.

La previsione di un regime differenziato si porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera e), Cost., e con i principi di liberalizzazione, uniformità del mercato, par condicio degli operatori e uniformità della disciplina, ribaditi dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 430 del 2007 (richiamata anche la sentenza n. 8 del 2013), per contrasto con l’art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006, come convertito in legge, che stabilisce la necessità di «garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di parità e il corretto e uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale».

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministriimpugna, altresì, gli artt. 9 e 15 (recte: 15, comma 1, lettera c), della legge regionale n. 4 del 2016.

2.1.– La prima disposizione introduce, nella legge regionale n. 29 del 2005, l’art. 85-bis, dedicato ai «centri commerciali naturali», locuzione con la quale il legislatore regionale ha inteso definire un insieme «di attività commerciali, artigianali e di servizi, localizzate in una zona determinata del territorio comunale» e finalizzate «al recupero, promozione e valorizzazione delle attività economiche, in particolare delle produzioni locali, al miglioramento della vivibilità del territorio e dei servizi ai cittadini e ai non residenti» (comma 1). Questi enti, ai sensi del comma 2 della norma censurata, possono costituirsi «in forma di società di capitali, società consortili e associazioni con finalità commerciali» e «adottano iniziative di qualificazione e innovazione dell’offerta commerciale, di promozione commerciale, di acquisizione di servizi innovativi di supporto alle attività delle imprese aderenti»; alla loro costituzione potrebbero aderire «le associazioni di categoria, la Camera di commercio e il Comune competenti per territorio e altri enti e associazioni che si prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio» (comma 3).

La disposizione impugnata, al comma 4, stabilisce altresì che al fine di sostenere le attività previste, i «centri commerciali naturali» possono accedere ai contributi previsti dalla legge regionale n. 4 del 2016 (di cui all’art. 100 della legge n. 29 del 2005).

2.2.– Nel ricorso si evidenzia, inoltre, che l’art. 15 della legge regionale n. 4 del 2016, modifica l’art. 2, comma 1, lettera i), della legge regionale n. 29 del 2005, distinguendo la categoria degli «esercizi di vendita al dettaglio di media struttura», precedentemente comprensiva degli esercizi con superficie di vendita superiore a 250 mq e fino a 1500 mq, in «esercizi di media struttura minore», compresi tra 250 e 400 metri quadrati ed esercizi di «media struttura maggiore», compresi tra più di 400 e 1500 metri quadri.

2.3.– Le due disposizioni censurate introdurrebbero due nuove tipologie di esercizi commerciali non previsti dalle norme statali, secondo quanto disposto dal d.lgs. n. 114 del 1998 (art. 4, comma 1, lettere d, e, g), generando una discrasia rispetto alla classificazione dei centri commerciali e degli esercizi di vendita al dettaglio stabilita da queste ultime. Questa differenziazione esulerebbe dalla materia «commercio» di competenza della Regione autonoma, incidendo direttamente sulla disciplina della concorrenza.

Il ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte secondo cui una regolazione delle attività economiche «ingiustificatamente intrusiva» genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, alla stessa utilità sociale (sentenza n. 299 del 2012). Richiama anche la sentenza n. 125 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali che avevano introdotto la definizione di «polo commerciale» non prevista nella classificazione degli esercizi di vendita operata dal d.lgs. n. 114 del 1998.

2.4.– Con riguardo al disposto dell’art. 15 della legge regionale n. 4 del 2016, ad avviso del ricorrente, dalla distinzione menzionata non farebbe seguito «nell’insieme della novellata legge regionale n. 29 del 2005, alcuna conseguenza pratica», poiché il regime amministrativo a cui sono sottoposti gli esercizi di media struttura rimarrebbe immutato (sottoposizione a Segnalazione certificata di inizio attività o ad autorizzazione in base alla dimensione della struttura), essendo regolato dall’art. 12, della citata legge, non soggetto a modifiche.

2.5.– Quanto ai «centri commerciali naturali», introdotti dall’art. 9, della legge regionale impugnata, anch’essi comporterebbero un eccesso di regolazione, in quanto si basano su una definizione sfuggente che eccede largamente i limiti concessi all’intervento del legislatore nella dinamica economica. La figura del «centro commerciale naturale» inciderebbe sul libero dispiegarsi dell’iniziativa economica in regime di concorrenza, fissando limiti spaziali, oggettivi e strutturali alle attività commerciali, anziché rimettere al dispiegamento del gioco concorrenziale il determinarsi dei luoghi, oggetti e strutture delle attività commerciali. Altererebbe, inoltre, la concorrenza all’interno del territorio regionale, e anche al di fuori di esso, perché: a) consente che alle società e associazioni con finalità commerciali, in cui i centri dovrebbero costituirsi, partecipino anche soggetti che non perseguono direttamente ed esclusivamente finalità commerciali, tra cui le Camere di commercio e il Comune competente per territorio; b) collega alla costituzione di un «centro commerciale naturale» l’accesso ai finanziamenti pubblici, previsti dall’art. 100 della legge regionale n. 29 del 2005 (secondo l’art. 85-bis, ultimo comma, della medesima legge, introdotto dall’impugnato art. 9), incentivando la costituzione di società o associazioni per ragioni legate alla possibilità di accedere ai finanziamenti (richiamata la sentenza n. 104 del 2014).

3.– Con il terzo motivo di ricorso, viene censurato l’art. 19 (recte: 19, comma 1, lettera a), della legge regionalein esame, che modifica l’art. 7, comma 2, della legge regionale n. 29 del 2005.

La norma impugnata stabilisce che l’esercizio dell’attività commerciale in sede fissa o sulle aree pubbliche di prodotti alimentari o la somministrazione di alimenti e bevande, ancorché svolto «nei confronti di una cerchia limitata di persone in locali non aperti al pubblico», è subordinato al possesso di uno dei requisiti di cui all’art. 71, commi 6 e 6-bis, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).

Il ricorrente richiama l’art. 71, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 59 del 2010, nel testo in vigore dal 14 settembre 2012, a seguito delle modifiche disposte dal decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), che dispone requisiti meno stringenti rispetto alla precedente formulazione. Sintetizzando l’evoluzione della vicenda normativa evidenzia che, con il d.lgs. correttivo n. 147 del 2012, il legislatore è intervenuto sulla prima attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno» (da qui: direttiva Servizi), operata con l’originario testo dell’art. 71, del d.lgs. n. 59 del 2010, in materia di requisiti soggettivi per l’esercizio del commercio o della somministrazione di alimenti. L’intervento costituì una verifica della necessità e proporzionalità di tali requisiti soggettivi, ai sensi dell’art. 15, della direttiva Servizi (e del correlativo art. 12 del d.lgs. n. 59 del 2010), che prescrive tale verifica da parte degli Stati membri. Il legislatore statale, con il decreto correttivo del 2012, ritenne che non fosse proporzionato richiedere il possesso dei requisiti soggettivi, previsti dall’art. 71, comma 6, anche nel caso in cui il commercio o la somministrazione di alimenti avvenissero nei confronti di una ristretta cerchia di soggetti. Per questa ragione eliminava l’inciso «anche se effettuate nei confronti di una cerchia determinata di persone».

Il permanere, nell’impugnato art. 19, della restrizione abolita dal legislatore statale, palesa per il ricorrente la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e delle norme statutarie sopra citate (che rinviano ai principi fondamentali della Costituzione e alle grandi riforme economiche), avendo introdotto una disciplina che incide sulla misura di liberalizzazione prevista dalla norma correttiva statale del 2012. Le Regioni, anche ad autonomia speciale, infatti, non possono, nell’esercitare la propria competenza in materia di «commercio», provocare differenziazioni territoriali nelle condizioni di tale offerta, secondo quanto statuito dall’art. 41, comma 2, della legge delega 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea – Legge comunitaria 2008), che impone anche alle Regioni ad autonomia speciale di adeguare la propria legislazione a quella statale di attuazione della direttiva Servizi.

Il permanere nella legislazione regionale di requisiti non necessari e non proporzionati, contrasterebbe anche con l’art. 117, primo comma, Cost.

4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, infine, l’art. 72, comma 1, della legge regionale n. 4 del 2016, che introduce l’art. 6-quater nella legge regionale 12 maggio 1971, n. 19 (Norme per la protezione del patrimonio ittico e per l’esercizio della pesca nelle acque interne del Friuli-Venezia Giulia).

Ad avviso del ricorrente, la Regione avrebbe adottato tale disposizione nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di pesca (art. 4, n. 3 dello statuto), ma ne avrebbe oltrepassato i limiti, invadendo la competenza statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), e l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto avrebbe posto una disciplina in contrasto con i principi ricavabili dall’ordinamento dell’Unione europea, e in particolare con l’art. 22 della direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43 CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) (c.d. direttiva Habitat), e gli artt. 4 e 6, par. 1, del regolamento CE 11 giugno 2007, n. 708/2007 (Regolamento del Consiglio relativo all’impiego in acquacoltura di specie esotiche e di specie localmente assenti).

Le modifiche apportate dalla legge impugnata consentirebbero, al fine di favorire la pesca sportiva: 1) l’immissione in tutti corpi idrici regionali di specie ittiche autoctone; 2) l’immissione di specie alloctone in corpi idrici artificiali, a condizione che, per quanto connessi con corpi idrici naturali, non ne consentano la migrazione; 3) l’immissione nei corpi idrici naturali della specie alloctona della trota iridea, purché siano immessi individui incapaci di riprodursi, anche nei corpi idrici abitati dalla «trota marmorata» (specie autoctona) per alleggerire la pressione di pesca su quest’ultima; 4) l’immissione della specie alloctona «trota fario» in qualsiasi corpo idrico, purché si tratti di corpi idrici non abitati dalla «trota marmorata» o di corpi idrici originariamente privi di fauna ittica e attualmente popolati da specie introdotte (come i laghi artificiali).

Per il ricorrente questa disciplina minerebbe l’equilibrio naturale delle specie ittiche autoctone, nella misura in cui si consente, senza limiti, l’immissione artificiale di specie autoctone, creando il pericolo del sovrappopolamento, senza prevedere che si tratti di specie a rischio di estinzione. Si consente inoltre che specie alloctone «particolarmente invasive» (trota iridea e trota fario), vengano introdotte artificialmente, garantendo in modo meramente apparente che non si mescoleranno alle specie autoctone, minando l’habitat di queste ultime, a fronte di condizioni limitative previste dalla normativa impugnata solo apparenti, considerata la loro genericità.

La normativa regionale esorbiterebbe dalla competenza regionale in materia di pesca, impingendo direttamente sulla tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che vincola anche le Regioni ad autonomia speciale, esulando la materia dalla competenza legislativa della Regione, secondo lo statuto di autonomia.

Lo Stato italiano, prosegue il ricorrente, ha esercitato la propria competenza con il decreto del Presidente della Repubblica n. 357 del 1997 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche ), come modificato dal decreto del Presidente della Repubblica n. 120 del 2003 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, concernente attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), consentendo (art. 12, comma 2) la reintroduzione delle specie autoctone sulla base di linee guida da emanarsi dal Ministero dell’ambiente, previa acquisizione del parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica (ora ISPRA), e (art. 12, comma 3) vietando espressamente la reintroduzione, l’introduzione e il ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone.

L’invasione della competenza statale deriva quindi, in definitiva, dalla circostanza che la legge regionale impugnata autorizza direttamente le immissioni di specie autoctone e alloctone sopra illustrate, superando l’intero sistema di verifiche preventive e di autorizzazioni, e soprattutto il divieto assoluto di introduzione di specie alloctone, previsti dalla normativa statale di settore, attuativa di precise prescrizioni di diritto europeo – espresse dalla direttiva CEE, n. 43 del 1992 e dal regolamento CE n. 708 del 2007 – e comunque fondante standard uniformi di tutela dell’ambiente, non differenziabili tra Regione e Regione.

Infine, la normativa regionale violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., per il contrasto con il principio di precauzione con riferimento all’art. 22 della direttiva Habitat, che consente agli Stati membri di reintrodurre specie autoctone, solo previa verifica della effettiva necessità e sostenibilità ambientale, al solo fine di ristabilire il loro soddisfacente stato di conservazione; con le disposizioni della direttiva stessa, che consente agli Stati membri, in funzione di conservazione dell’equilibrio ambientale, di vietare l’introduzione di specie alloctone, come ha fatto il legislatore italiano senza incontrare censura né in sede europea né da parte delle Regioni.

5.– Con memoria del 26 luglio 2016 si è costituita in giudizio la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.

La resistente eccepisce innanzitutto una ragione di inammissibilità del ricorso comune a tutte le censure. Nel motivare l’impugnazione, secondo la difesa regionale, il ricorrente non avrebbe considerato le disposizioni di cui agli artt. 8 e seguenti del d.P.R. n. 1116 del 1965 (Norme di attuazione dello Statuto in materia di agricoltura e foreste, industria e commercio, turismo e industria alberghiera), dal particolare e significativo «ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie» (richiamate le sentenze n. 288 del 2013 e n. 51 del 2006).

Con riguardo alla censura di cui all’art. 1 della legge regionale n. 4 del 2016, relativa alle giornate di chiusura degli esercizi commerciali, la Regione eccepisce che il ricorrente, nel lamentare la pretesa violazione di «norme di grande riforma economico- sociale» dello Stato, pur citando alcune disposizioni di legge statale (art. 31, del d. l. n. 201 del 2011; art. 3, del d. l. n. 223 del 2006), non le qualifica come «norme di grande riforma economico-sociale», bensì si limiterebbe a definirle «espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in questa materia» (nell’ambito materiale della tutela della concorrenza). Ne deriverebbe l’inammissibilità per difetto di motivazione e di indicazione del parametro (interposto) di legittimità costituzionale.

Nel merito, secondo la difesa regionale, la censura di violazione dell’ambito competenziale riservato allo Stato nella materia «tutela della concorrenza» appare infondata. Ad avviso della resistente, in particolare, i precedenti di questa Corte richiamati nel ricorso non rileverebbero nel caso di specie «per il semplice motivo che la disposizione in commento non limita l’assetto del mercato (e della concorrenza nel mercato) disciplinato dallo Stato».

La resistente eccepisce l’infondatezza anche della censura relativa alla presunta violazione dell’art. 4 dello statuto speciale «per il fatto che la disposizione impugnata non sarebbe "in armonia” con le norme di grande riforma economico-sociale dello Stato». A suo avviso, infatti, solo il comma 2, dell’art. 31, del d.l. n. 201 del 2011, che ha liberalizzato il commercio, costituirebbe «principio generale dell’ordinamento, mentre tale qualificazione non è prevista per il primo comma». Da ciò discenderebbe che «nemmeno lo Stato qualifica come "grande riforma economico-sociale” la soppressione delle regole di apertura e chiusura degli esercizi commerciali». Al contrario, la garanzia di alcuni giorni di chiusura rappresenterebbe una misura di tutela dei lavoratori, che trova fondamento nell’art. 36 Cost.

Con riguardo alla censura relativa ai centri commerciali naturali e alle medie strutture di vendita (artt. 9 e 15 della legge regionale n. 4 del 2016), la resistente evidenzia che le censure non avrebbero ad oggetto l’intero art. 15, bensì la sola lettera c) del comma l, che novella la lettera i) dell’art. 2, comma l, della legge regionale n. 29 del 2005, poiché le altre previsioni dell’art. 15 non sarebbero menzionate nell’articolazione del motivo.

Nel merito le doglianze sarebbero manifestamente infondate. La disciplina del «centro commerciale naturale» non costituirebbe una nuova tipologia di esercizio commerciale, bensì uno strumento «di promozione economico-sociale delle aree nelle quali, per tradizione, vocazione o potenzialità di sviluppo, l’attività commerciale assume particolare rilievo». Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che la legge contempla l’adesione a tali enti anche da parte dei Comuni, delle associazioni di categoria e delle Camere di commercio, «soggetti che sono totalmente estranei all’attività di vendita al dettaglio».

Sarebbe priva di fondamento anche la doglianza secondo la quale il centro commerciale naturale inciderebbe «sul libero dispiegarsi dell’iniziativa economica in regime di concorrenza», poiché la legge impugnata non determinerebbe «autoritativamente l’ambito territoriale dei centri commerciali naturali». Al contrario, l’istituzione di tali enti sarebbe rimessa alla volontà delle imprese private, «che scelgono di "consorziarsi” e, eventualmente, di agire in partenariato con i comuni e le camere di commercio, per valorizzare alcune aree a vocazione commerciale», (in linea con quanto accaduto in altre Regioni italiane e come avallato dalla giurisprudenza amministrativa: TAR Toscana, Sez. seconda, sentenza 30 maggio 2014, n. 925).

Secondo la resistente, inoltre, è infondata la censura in base alla quale la disposizione in esame sarebbe in grado di «alterare la concorrenza all’interno del territorio regionale», perché la Regione assegna dei contributi ai centri commerciali naturali. A suo avviso, la legge regionale n. 29 del 2005, già prevedeva forme di incentivazione per determinate attività commerciali; similmente stabiliscono inoltre le norme statali che prevedono incentivi alle imprese, senza che sussista violazione dell’ordinamento europeo che consentirebbe forme di incentivazione economica, purché erogate secondo i princìpi di non discriminazione, trasparenza, pubblicità e parità di trattamento tra gli operatori commerciali. Si tratterebbe, infatti, di aiuti compatibili con l’assetto concorrenziale del mercato europeo, tanto che il regolamento CE 18 dicembre 2013, n. 1407/2013/UE (Regolamento della Commissione relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli aiuti «de minimis») li sottrae alla disciplina sugli "aiuti di Stato” (art. 107 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).

Anche la censura concernente la qualificazione delle medie strutture di vendita sarebbe manifestamente infondata, in quanto si tratterebbe di «disposizioni meramente definitorie» che, appunto per questo, secondo la giurisprudenza costituzionale, non avrebbero effetto lesivo.

Il terzo motivo di ricorso relativo ai requisiti per la somministrazione dei cibi e bevande sarebbe nel merito infondato, perché non è in gioco la tutela della concorrenza, bensì quella della salute, secondo quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. l04 del 2014.

Con riguardo al quarto motivo di ricorso, relativo all’immissione di specie ittiche, per la Regione resistente la censura è anzitutto inammissibile, in quanto formulata in maniera ipotetica e, comunque, è infondata nel merito.

Secondo la resistente, l’impugnazionenon considera il ruolo che la novella impugnata conferirebbe all’Ente Tutela Pesca (ETP) del Friuli-Venezia Giulia, deputato alla conservazione e alla tutela del patrimonio ittico regionale che predispone il "Piano di gestione ittica” (art. 6-ter legge regionale n. 19 del 1971), quale documento di programmazione teso alla tutela della biodiversità, alla conservazione e incremento della fauna ittica e dei relativi habitat, alla gestione del patrimonio ittico. L’attività di immissione e ripopolamento, dunque, non sarebbe fine a sé stessa, costituendo uno strumento di attuazione del piano di gestione ittica.

Insussistenti sarebbero le censure di violazione dell’art. 22 della direttiva Habitat, sull’opportunità di reintrodurre delle specie locali nel loro territorio degli Stati membri (di cui all’allegato IV), poiché la disposizione impugnata non riguarderebbe le "re-introduzioni”, bensì le immissioni di esemplari di specie autoctone che sono già presenti nell’ambiente, a fini della loro "conservazione”.

Ad identica conclusione dovrebbe pervenirsi quanto alla denunciata violazione dell’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 357 del l997, perché la disposizione impugnata già escluderebbe l’immissione di specie alloctone nelle acque naturali e artificiali, ai sensi della direttiva richiamata, nonché nei «siti di frega o nursery di specie ittiche autoctone incluse nell’allegato II della Direttiva 92/43/CEE o di specie oggetto di particolari misure di salvaguardia da parte dell’Ente Tutela Pesca».

6.– In data 18 ottobre 2016 ha depositato atto di intervento, con istanza di sospensione cautelare, la Federazione delle Associazioni delle Imprese e delle Organizzazioni Associative della Distribuzione Moderna Organizzata (FEDERDISTRIBUZIONE).

7.– In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa regionale ha depositato una memoria, reiterando le sintetizzate eccezioni di inammissibilità e di infondatezza. Inoltre, in riferimento all’impugnato art. 3, deduce che, successivamente alla proposizione del ricorso, tale disposizione è stata modificata con la legge regionale 9 dicembre 2016, n. 19 (Disposizioni per l’adeguamento e la razionalizzazione della normativa regionale in materia di commercio), in un’ottica di maggiore liberalizzazione stabilendo, tra l’altro, che la Giunta regionale può disporre la sospensione delle giornate di chiusura degli esercizi commerciali, di cui al comma 1, della legge impugnata.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, lettere e) e s), della Costituzione, e agli artt. 4 e 6 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 9, 15, 19 e 72, comma 1, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, 8 aprile 2016, n. 4, (Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il settore terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo economico), di modifica delle leggi regionali 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa organica in materia di attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo») e 12 maggio 1971, n. 19 (Norme per la protezione del patrimonio ittico e per l’esercizio della pesca nelle acque interne del Friuli-Venezia Giulia).

2.– Preliminarmente, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento della Federazione delle Associazioni delle Imprese e delle Organizzazioni Associative della Distribuzione Moderna Organizzata (FEDERDISTRIBUZIONE), per la pregiudiziale e assorbente ragione che è avvenuto con atto depositato il 21 ottobre 2016 (spedito il 18 ottobre) e, quindi, oltre il termine stabilito dall’art. 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale; termine perentorio secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le più recenti, sentenze n. 242 e n. 110 del 2016).

3.– Ancora in via preliminare, va osservato che la Regione ha eccepito l’inammissibilità di tutte le censure, poiché il ricorrente non ha considerato le disposizioni, di cui agli artt. 8 e seguenti, del d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116 (Norme di attuazione dello Statuto in materia di agricoltura e foreste, industria e commercio, turismo e industria alberghiera), che avrebbero particolare e significativo «ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie» e rileverebbero al fine dell’esatta identificazione del thema decidendum.

3.1.– L’eccezione non è fondata.

Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’omesso riferimento alle disposizioni statutarie, qualora incida sulla compiuta definizione dell’oggetto del giudizio, comporta l’inammissibilità della questione (ex multis, sentenze n. 58 del 2016, n. 151 e n. 142 del 2015).

Nella specie non è, tuttavia, richiamabile detto principio. Le disposizioni delle quali è lamentata la pretermissione hanno, infatti, un contenuto sostanzialmente reiterativo delle norme statutarie (artt. 4 e 6 della legge costituzionale n. 1 del 1963), che sono state puntualmente evocate dal ricorrente, allo scopo di identificare la potestà legislativa regionale in materia di commercio e pesca.

4.– Il ricorrente censura anzitutto il citato art. 1, il quale sostituisce l’art. 29 della legge regionale n. 29 del 2005, prevedendo che «l’esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa è svolto senza limiti relativamente alle giornate di apertura e chiusura, ad eccezione dell’obbligo di chiusura nelle seguenti giornate festive: 1° gennaio, Pasqua, lunedì dell’Angelo, 25 aprile, l° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre». Censura inoltre il richiamato art. 3, che ha sostituito l’art. 30, comma 1, della legge regionale n. 29 del 2005, disponendo che nei comuni «classificati come località a prevalente economia turistica, gli esercenti determinano liberamente le giornate di chiusura degli esercizi di commercio al dettaglio in sede fissa, in deroga a quanto disposto dall’art. 29»; ha abrogato il comma 2 dell’art. 30 citato e ha aggiunto, al comma 3, che «[c]on delibera della Giunta regionale, su domanda del comune interessato, possono essere individuate ulteriori località a prevalente economia turistica sulla base delle rilevazioni di Promo Turismo FVG».

4.1.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, dette norme violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nonché gli artt. 4 e 6 dello statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, avendo la Regione esorbitato dai limiti della propria potestà legislativa esclusiva in materia di commercio.

Inoltre, si porrebbero in contrasto con l’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, che prevede la liberalizzazione del commercio, e con l’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, che dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto dell’obbligo di chiusura domenicale e festiva.

4.1.1.– Preliminarmente, va osservato che l’art. 29 della legge regionale n. 29 del 2005, così come modificato dall’impugnato art. 1 della legge regionale n. 4 del 2016, è quasi del tutto coincidente con la previgente disciplina, rappresentata dall’art. 29, comma 7, della legge regionale n. 29 del 2005, sull’obbligo di chiusura degli esercizi commerciali in determinati giorni dell’anno. Questa considerazione, tuttavia, non ostacola l’impugnabilità della disposizione novellata da parte del Governo, per l’inapplicabilità dell’istituto dell’acquiescenza ai giudizi in via principale, atteso che «la norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato» (così, da ultimo, la sentenza n. 60 del 2017).

4.1.2.– Ancora in via preliminare, va evidenziato che l’impugnato art. 3 è stato modificato dal sopravvenuto art. 14, comma 1, lettera a), della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 dicembre 2016, n. 19 (Normativa organica in materia di attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»), stabilendo i requisiti e il procedimento per ottenere la qualifica di ente a prevalente economia turistica da parte dei Comuni e prevedendo chela Giunta regionale possa disporre per l’intero territorio regionale la sospensione della previsione delle giornate di chiusura degli esercizi commerciali.

Il contenuto «marginale» della modifica normativa, tenuto conto del perimetro e del tenore della censura proposta dal ricorrente, rendono palese che la stessa non è satisfattiva dell’interesse di quest’ultimo. Conseguentemente, va operato il trasferimento della questione di costituzionalità sulla nuova formulazione dell’art. 3 (sentenza n. 23 del 2014).

4.1.3.– In relazione alla censura avente ad oggetto il citato art. 1, occorre precisare, inoltre, che la mancata qualificazione, da parte del ricorso, delle disposizioni interposte quali «norme di grande riforma economico-sociale» non incide sull’ammissibilità della stessa, come invece eccepito dalla resistente.

Nella specie, infatti, la disciplina statale richiamata a sostegno della censura viene correttamente evocata quale espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che ha esplicitamente ricondotto le disposizioni, richiamate nel caso odierno come parametro interposto, a principi di liberalizzazione del mercato a tutela della concorrenza (sentenza n. 38 del 2013; sentenze n. 299 del 2012 e n. 430 del 2007) e che ha altresì affermato che detta normativa «costituisce un limite alla disciplina che le medesime Regioni [a statuto speciale] possono adottare in altre materie di loro competenza» (sentenza n. 299 del 2012).

5.– Nel merito, come si evince già da queste ultime considerazioni, le questioni sono fondate.

               In materia di orari degli esercizi commerciali, l’art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, ha modificato l’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del d.l. n. 223 del 2006, come convertito in legge, e ha stabilito che le attività commerciali si svolgano «senza limiti e prescrizioni» concernenti, fra gli altri, «il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio».

               Questa Corte, con la sentenza n. 299 del 2012, ha ritenuto non illegittima tale norma, ascrivendola alla materia «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.). Successivamente, con la sentenza n. 239 del 2016, ha nuovamente valorizzato il principio di liberalizzazione, contenuto in detta norma interposta, che esonera gli esercizi commerciali dall’obbligo di rispettare gli orari e i giorni di chiusura.

Peraltro, è opportuno rilevare cheil contenuto precettivo dell’impugnato art. 1, coincide, per i profili qui rilevanti, con l’art. 4, della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, 25 febbraio 2013, n. 5, recante «Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale)», dichiarato illegittimo da questa Corte con la sentenza n. 104 del 2014.

In questa pronuncia è stato rimarcato che la normativa statale volta all’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali, oltre ad attuare un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle attività economiche a beneficio dei consumatori, favorisce «la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale» (sentenza n. 104 del 2014, che riprende le sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012).

Queste considerazioni, che vanno qui ribadite, rendono palese la fondatezza delle censure aventi ad oggetto l’impugnato art. 1, in quanto interviene nella disciplina delle giornate di apertura degli esercizi commerciali, ascrivibile appunto alla «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva dello Stato.

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, della legge regionale n. 4 del 2016, che modifica l’art. 29, della legge regionale n. 29 del 2005.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via conseguenziale, anche all’art. 29-bis, della richiamata legge regionale n. 29 del 2005, stante l’inscindibile legame funzionale sussistente fra la disposizione impugnata e l’altra ora indicata. La disposizione de qua, infatti, estende i principi richiamati dalla norma impugnata ad ogni singolo esercizio di vendita.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale colpisce, inoltre, anche l’impugnato art. 3, che ha modificato l’art. 30 della legge n. 29 del 2005, essendo divenuta priva di ragion d’essere una tale disposizione, tesa ad individuare i comuni classificati come località a prevalente economia turistica, dal momento che in questi, al pari degli altri comuni, dovrà operare la liberalizzazione del commercio senza distinzioni.

6.– Con la seconda censura, il Governo impugna l’art. 9 della legge regionale n. 4 del 2016, che introduce i c.d. «centri commerciali naturali» e la relativa disciplina, nonché l’art. 15, che prevede due distinti tipi di esercizi commerciali di media struttura (distinguendoli in «media struttura minore» e «media struttura maggiore»).

6.1.– Le disposizioni violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nonché gli artt. 4 e 6 dello statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, esorbitando dai limiti della competenza regionale esclusiva in materia di commercio.

6.1.1.– Entrambe le norme impugnate introdurrebbero, infatti, tipologie di esercizi commerciali non presenti a livello nazionale, secondo quanto disposto dall’art. 4, lettere d), e), g), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59). Si determinerebbe, così, una discrasia tra quanto disposto dalla legge regionale e la classificazione dei centri commerciali e degli esercizi di vendita al dettaglio indicati a livello nazionale.

6.2.– Sempre secondo il Governo, la disposizione che contempla i «centri commerciali naturali» comporterebbe un eccesso di regolazione incidente sul libero dispiegarsi dell’iniziativa economica in regime di concorrenza, fissando i limiti spaziali, oggettivi e strutturali alle attività commerciali «naturali», anziché rimettere al libero gioco concorrenziale il determinarsi dei luoghi, oggetti e strutture delle attività commerciali. Altererebbe inoltre la concorrenza all’interno del territorio regionale, e anche al di fuori di esso, consentendo che alle società e associazioni con finalità commerciali, in cui i centri dovrebbero costituirsi, possano partecipare anche soggetti che non perseguano direttamente ed esclusivamente finalità commerciali, tra cui le Camere di commercio e il Comune competente per territorio. Consentendo, infine, anche ai «centri commerciali naturali» l’accesso ai finanziamenti pubblici, previsti dall’art. 100 della legge regionale n. 29 del 2005, si incentiverebbe, con conseguente lesione dei principi della concorrenza, la costituzione di società o associazioni non per ragioni derivanti da dinamiche di mercato, bensì per la possibilità di accedere ai finanziamenti stessi.

6.3.– Preliminarmente, occorre precisare che, come dedotto dalla Regione, il citato art. 15 deve ritenersi censurato limitatamente alla norma recata nel comma 1, lettera c), laddove distingue ulteriormente le medie strutture di vendita.

6.4.– La questione avente ad oggetto l’introduzione di tipologie di esercizi commerciali non presenti a livello nazionale non è fondata.

Premesso che è lo stesso ricorrente ad evidenziare l’irrilevanza, a fini pratici, della suddistinzione delle medie strutture di vendita – poiché, tra l’altro, il regime amministrativo a cui esse sono sottoposte rimarrebbe immutato – è da sottolineare che in ordine al richiamato parametro interposto questa Corte ha evidenziato che, a seguito della modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione, la materia «commercio» rientra nella competenza residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma, dell’art. 117 Cost. In questo contesto, ha sottolineato la cedevolezza del decreto legislativo n. 114 del 1998, che «si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia» (sentenza n. 247 del 2010, che richiama l’ordinanza n. 199 del 2006).

Tale conclusione è riferibile anche alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in virtù della «clausola di maggior favore», di cui all’art. 10, della legge costituzionale n. 3 del 2001 (Modifiche al titolo V, della parte seconda della Costituzione). La Regione, infatti, ha già posto in essere una normativa in materia di commercio, qual è la disposizione censurata, che, in base alle argomentazioni svolte, prevale sul disposto del d.lgs. n. 114 del 1998.

6.5.– È del pari non fondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 9, laddove stabilisce che i «centri commerciali naturali» possano accedere ai finanziamenti pubblici, già previsti dall’art. 100 della legge regionale n. 29 del 2005.

Ai sensi dell’art. 9, comma 1, per centro commerciale naturale si intende «un insieme di attività commerciali, artigianali e di servizi localizzato in una zona determinata del territorio comunale» e finalizzato alla valorizzazione delle attività economiche e delle produzioni locali. Al fine di sostenere le attività richiamate, l’art. 9, comma 4, prevede l’accesso ai contributi di cui all’art. 100. Tale disposizione, secondo il ricorrente, si porrebbe in contrasto con il libero dispiegarsi, in regime di mercato, dell’iniziativa economica.

Va, tuttavia, in proposito evidenziato che il riferimento alla tutela della concorrenza non può essere così pervasivo da assorbire, aprioristicamente, le materie di competenza regionale.

Come questa Corte ha avuto modo di precisare con la sentenza n. 8 del 2013, «i principi di liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitino ad esercitare le proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche», sia pure «in base ai principi indicati dal legislatore statale». Tale orientamento – sottolinea la medesima decisione – non esclude ogni intervento legislativo regionale, purché siano fatte salve «le regolamentazioni giustificate da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario» che siano «adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali».

Secondo la giurisprudenza costituzionale non sussiste, comunque, una potestà statale esclusiva in materia di incentivi e aiuti alle imprese (sentenza n. 63 del 2008). Infatti, anche la legislazione regionale, volta a prevedere contributi e aiuti può ritenersi conforme al riparto costituzionale delle materie, qualora sia coerente con la disciplina del diritto dell’Unione europea sugli aiuti di Stato (sentenza n. 217 del 2012). Detti incentivi alle imprese, peraltro, quando consentiti, «lo sono normalmente in deroga alla tutela della concorrenza» (così la già citata sentenza n. 63 del 2008).

Nella specie, i contributi richiamati dalla norma impugnata sono quelli previsti dal citato art. 100 della legge regionale n. 29 del 2005, che contempla una serie di incentivi per un’ampia categoria di beneficiari che vanno dalle «micro, piccole e medie imprese», ai consorzi, sino ad arrivare, attraverso l’integrazione prevista dalla disposizione impugnata, ai «centri commerciali naturali». È tuttavia importante sottolineare che lo stesso articolo, al comma 6, si richiama esplicitamente al regolamento della Commissione n. 1407/2013/UE (Regolamento della Commissione, relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis»), che fissa una cifra assoluta al di sotto della quale l’aiuto non è soggetto all’obbligo della comunicazione, così da definire la soglia dei contributi erogabili in termini tali da escludere la possibile conflittualità degli stessi con la normativa dell’Unione europea. Si tratta, dunque, di incentivi che non alterano il mercato. Da qui la non fondatezza della censura.

6.6.– È invece fondata la questione relativa all’art. 9, con riferimento alla partecipazione delle Camere di commercio e dei Comuni ai «centri commerciali naturali».

La resistente evidenzia che i «centri commerciali naturali» rappresentano uno strumento «di promozione economico-sociale delle aree nelle quali, per tradizione, vocazione o potenzialità di sviluppo, l’attività commerciale assume particolare rilievo»; ciò troverebbe conferma nel fatto che la legge contempla la facoltà dei Comuni, delle associazioni di categoria e delle Camere di commercio di aderire a detti enti. Tuttavia, è proprio la commistione che si può instaurare tra gli esercenti e le pubbliche amministrazioni a mostrare profili di illegittimità.

A tal proposito, va precisato che la disposizione censurata prevede, al comma 2, che i «centri commerciali naturali sono costituiti in forma di società di capitali, società consortili e associazioni con finalità commerciali», stabilendo, al comma 3, che ai centri commerciali naturali «possono aderire, in qualità di soggetti interessati, le associazioni di categoria, la Camera di commercio e il Comune competenti per territorio e altri enti e associazioni che si prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio».

Dal combinato disposto dei due commi in oggetto, si evince la possibilità che il partenariato pubblico-privato potrebbe non limitarsi soltanto a promuovere il commercio in determinate aree attraverso l’ausilio – in misura proporzionata e ragionevole – di strumenti, che pure sono ascrivibili alle competenze dei Comuni, come la pianificazione urbanistica finalizzata a valorizzare le diverse parti del territorio (siano essi centri storici o zone a particolare vocazione produttiva). Il partenariato contemplato dalla legislazione regionale censurata in parte qua, invece, si spinge oltre, ammettendo anche la costituzione di società a capitale misto.

Il profilo che viene qui in considerazione non attiene, dunque, alle modalità organizzative delle società partecipate. Più specificamente, infatti, ciò che viene in rilievo è l’impatto di simile disciplina sulla «tutela della concorrenza».

Va in proposito evidenziato che il decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica», nello stabilire, all’art. 1, comma 2, che le disposizioni in esso contenute sono finalizzate a garantire l’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, la tutela e promozione della concorrenza e del mercato, la razionalizzazione della spesa pubblica, dispone, all’art. 4, comma 1, che le «amministrazioni pubbliche non possono direttamente o indirettamente costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società».

La disposizione del testo unico si pone in continuità rispetto alla normativa precedente, rappresentata dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato» (legge finanziaria 2008) che, all’art. 3, comma 27, valorizza il medesimo principio, al fine di ridurre il campo d’azione delle società pubbliche, in linea con quanto prefigurato anche dal successivo decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

Questa Corte ha ricondotto detta disciplina, che limita il raggio d’azione delle società partecipate da parte di Regioni ed enti locali, anche alla tutela della concorrenza (sentenza n. 326 del 2008), affermando che l’obiettivo della stessa è «quello di evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali» (sentenza n. 148 del 2009).

Nella specie, in considerazione della tipologia delle attività svolte dai «centri commerciali naturali», secondo la disposizione impugnata, si tratta di soggetti che svolgono attività di servizi. La disposizione censurata, pertanto, prevede la partecipazione delle Camere di commercio e dei Comuni a società aventi per oggetto attività di produzione di servizi che non sono strettamente necessari «al perseguimento delle proprie finalità istituzionali»; per ciò solo, essa viola la normativa statale a tutela della concorrenza, richiamata in precedenza.

6.7.– Ne consegue che deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, limitatamente alla parte in cui prevede che partecipino ai «centri commerciali naturali» anche soggetti pubblici quali le Camere di commercio e il Comune competente per territorio.

7.– Con la terza censura il Governo impugna l’articolo 19 della legge regionale n. 4, del 2016, che dispone il possesso di dati requisiti professionali per esercitare attività commerciali che prevedano la somministrazione di alimenti e bevande, anche ove l’attività commerciale sia svolta «nei confronti di una cerchia limitata di persone», in locali non aperti al pubblico.

7.1.– La disposizione violerebbe l’art. 117, primo e secondo comma, lettera e), Cost., nonché gli artt. 4 e 6, dello statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in materia di commercio.

Preliminarmente occorre precisare che il citato art. 19 deve ritenersi censurato limitatamente alla norma di cui al comma 1, lettera a).

7.2.– La violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., sarebbe palese in riferimento all’art. 41, commi 1, lettera f), e 2 della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008), che impone anche alle Regioni a statuto speciale di adeguare la propria legislazione a quella statale di attuazione della direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno), nonché in riferimento all’art. 15 della direttiva medesima, che impone di verificare la necessità e proporzionalità dei requisiti soggettivi di accesso alle attività di prestazione dei servizi.

7.3.– Il vulnus all’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost. sarebbe ravvisabile in riferimento all’art. 8, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno). Detta disposizione, infatti, ha modificato l’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), abolendo i requisiti richiamati in caso di somministrazione di alimenti e bevande «nei confronti di una cerchia limitata di persone».

La legislazione regionale, che continua a prevedere il possesso di almeno uno dei requisiti in questione, contrasterebbe con la «misura liberalizzatrice» statale.

7.4.– La questione non è fondata.

            Va, innanzitutto, osservato che il contenuto precettivo dell’impugnato art. 19 coincide, nei profili qui rilevanti, con quello di una norma regionale (art. 3 della legge della Regione autonoma Val d’Aosta/Vallée d’Aoste, n. 5 del 2013), scrutinata da questa Corte con la richiamata sentenza n. 104 del 2014.

Tale pronuncia ha evidenziato che, sebbene la normativa statale stabilisca che le attività commerciali possono essere svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali soggettivi, tuttavia, poi, fa espressamente salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande. In particolare, è stato sottolineato dalla medesima pronuncia che tali considerazioni «portano ad escludere che la normativa in questione attenga alla materia della «tutela della concorrenza», ponendo limiti o barriere all’accesso al mercato con effetti restrittivi della concorrenza stessa. Essa, piuttosto, concerne la materia della «tutela della salute», attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa concorrente delle Regioni, ponendosi quale misura volta a salvaguardare «la salute dei consumatori» (sentenza n. 104 del 2014).

           7.4.1.– Inquadrata in questi termini, sia rispetto alla materia della «tutela della concorrenza», sia riguardo al vincolo europeo richiamato dall’art. 117, primo comma, Cost., la questione deve ritenersi non fondata.

            8.– Con la quarta censura, infine, il Governo impugna l’articolo 72, comma 1, della legge regionale n. 4 del 2016, che prevede, al fine di valorizzare la pesca sportiva, la possibilità di autorizzare l’immissione nei corpi idrici naturali e artificiali di esemplari di specie ittiche autoctone e alloctone.

Per il ricorrente la previsione impugnata andrebbe a minare l’equilibrio naturale delle specie autoctone, consentendo l’immissione di ulteriori esemplari, creando un pericolo di sovrappopolamento, senza una previa verifica che si tratti di specie a rischio di estinzione. Inoltre, l’obbiettivo volto ad evitare la commistione delle specie alloctone con quelle autoctone verrebbe garantito in modo meramente apparente ricorrendo ad una normativa di carattere generico.

8.1.– La norma regionale violerebbe i limiti posti alla competenza regionale in materia di pesca, incidendo direttamente sulla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che vincola anche le Regioni ad autonomia speciale, esulando la materia dalla competenza legislativa della Regione secondo lo statuto di autonomia. La norma impugnata lederebbe altresì i vincoli europei richiamati dall’art. 117, primo comma, Cost.

8.1.1.– Secondo il Governo ricorrente, la lamentata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., si coglierebbe in riferimento all’art. 12, commi 2 e 3, del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), come modificato dal d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, concernente attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche). Detta normativa viene richiamata laddove vieta esplicitamente l’introduzione di specie alloctone e subordina l’introduzione di specie autoctone al superamento di una serie di verifiche e controlli.

8.1.2.– La lesione dell’art. 117, primo comma, Cost. sarebbe evidente, inoltre, in riferimento al principio di precauzione contenuto nell’art. 22, della direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43/CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche), (c.d. direttiva Habitat), nonché negli artt. 4 e 6, par. 1, del Regolamento CE, 11 giugno 2007, n. 708/2007 (Regolamento del Consiglio relativo all’impiego in acquacoltura di specie esotiche e di specie localmente assenti).

8.2.– In riferimento alla censura di cui all’art. 72, comma 1, la resistente ritiene che la censura sia costruita in termini meramente ipotetici. L’eccezione va respinta, potendosi obiettare che così deve necessariamente essere, facendo riferimento al principio di precauzione.

8.3.– Nel merito la questione è fondata.

L’introduzione, la reintroduzione e il ripascimento delle specie ittiche sono regolate dal già citato art. 12 del d.P.R. n. 357 del 1997, come modificato dal d.P.R. n. 120 del 2003, in attuazione della c.d. direttiva Habitat che richiede agli Stati membri di valutare l’opportunità di reintrodurre specie autoctone, qualora questa misura possa contribuire alla loro conservazione, sia di regolamentare, ed eventualmente vietare, le introduzioni di specie alloctone che possano arrecare pregiudizio alla conservazione degli habitat o delle specie autoctone (art. 22, lettere a e b).

Lo Stato italiano ha esercitato la sua competenza con il richiamato d.P.R. n. 357 del 1997, come modificato nel 2003, consentendo la reintroduzione delle specie autoctone, sulla base di linee guida del Ministero dell’ambiente, secondo le procedure stabilite dall’art. 12, comma 2. Ha altresì vietato espressamente (e in via generale) la reintroduzione, l’introduzione e il ripopolamento in natura di specie non autoctone (art. 12, comma 3).

Riguardo al riparto delle attribuzioni tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome, in materia ambientale e di protezione della fauna, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che ove la materia «tutela dell’ambiente» non sia contemplata negli statuti di autonomia, ciò determina che quanto non rientri nelle specifiche competenze delle Province autonome rifluisca «nella competenza generale dello Stato nella suddetta materia, la quale implica in primo luogo la conservazione uniforme dell’ambiente naturale, mediante precise disposizioni di salvaguardia non derogabili in alcuna parte del territorio nazionale» (sentenze n. 387 del 2008 e n. 288 del 2012 nonché, analogamente, sentenza n. 151 del 2011).

Relativamente all’immissione di specie ittiche nei corpi idrici regionali, inoltre, questa Corte ha affermato che la disciplina «dell’introduzione, della reintroduzione e del ripopolamento di specie animali rientra nella esclusiva competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, trattandosi di regole di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e non solo di discipline d’uso della risorsa ambientale-faunistica». Nell’esercizio di tale sua competenza esclusiva, finalizzata ad una «tutela piena ed adeguata» dell’ambiente, lo Stato «può porre limiti invalicabili di tutela» (sentenza n. 30 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 288 del 2012).

A tali limiti le Regioni devono adeguarsi nel dettare le normative d’uso dei beni ambientali, o comunque nell’esercizio di altre proprie competenze, rimanendo libere, ove lo ritengano opportuno, di definire, nell’esercizio della loro potestà legislativa, «limiti di tutela dell’ambiente anche più elevati di quelli statali» (sentenza n. 30 del 2009; in senso conforme sentenza n. 151 del 2011).

Con riferimento alle specie alloctone, con la sentenza n. 30 del 2009 questa Corte ha precisato che l’art. 12, comma 3, del citato d.P.R. n. 357, vieta espressamente e in via generale la reintroduzione, l’introduzione e il ripopolamento in natura di «specie e popolazioni non autoctone».

Riguardo invece all’immissione delle specie autoctone, l’art. 12, comma 2, del d.P.R. n. 357, come sostituito dal d.P.R. n. 120 del 2003, richiede alle Regioni e alle Province autonome di attivare un’attività istruttoria che coinvolga gli enti interessati, al fine di prevedere la introduzione e la reintroduzione di esemplari delle stesse, «dandone comunicazione al Ministero dell’ambiente» e presentando allo stesso uno studio per evidenziare che l’introduzione di dette specie contribuisca a ristabilirle «in uno stato di conservazione soddisfacente».

La Regione non ha tenuto conto delle procedure previste per dar vita all’immissione stessa, secondo quanto indicato all’art. 12, comma 2. Queste indicazioni, infatti, non emergono dalla normativa impugnata la cui ratio, oltretutto, rivolta alla valorizzazione della pesca sportiva, si discosta dagli obiettivi perseguiti dalla legislazione statale, tesi, piuttosto, alla conservazione delle specie a rischio.

In base alle considerazioni svolte, la questione è fondata rispetto all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Resta assorbita l’ulteriore censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa organica in materia di attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»), come modificata dall’art. 1, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2016, n. 4 (Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il settore terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo economico);

2) dichiara, in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis della legge regionale n. 29 del 2005;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge regionale n. 29 del 2005, come modificato dall’art. 3 della legge regionale n. 4 del 2016 e successivamente dall’art. 14 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 dicembre 2016, n. 19 (Disposizioni per l’adeguamento e la razionalizzazione della normativa regionale in materia di commercio);

4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 4 del 2016, limitatamente alla parte in cui prevede che ai «centri commerciali naturali» possano aderire anche «la Camera di commercio e il Comune competente per territorio»;

5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge regionale n. 4 del 2016;

6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge regionale n. 4 del 2016, promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e agli artt. 4 e 6 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), con il ricorso indicato in epigrafe;

7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera a), della legge regionale n. 4 del 2016, promossa in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettera e), Cost., e agli artt. 4 e 6 della legge costituzionale n. 1 del 1963, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2017.