Sentenza n. 69 del 2016

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SENTENZA N. 69

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Alessandro                 CRISCUOLO                                   Presidente

-      Paolo                          GROSSI                                              Giudice

-      Giorgio                       LATTANZI                                               ”

-      Aldo                           CAROSI                                                    ”

-      Marta                          CARTABIA                                              ”

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             ”

-      Giuliano                      AMATO                                                    ”

-      Silvana                        SCIARRA                                                 ”

-      Daria                           de PRETIS                                                ”

-      Nicolò                         ZANON                                                    ”

-      Franco                        MODUGNO                                             ”

-      Augusto Antonio      BARBERA                                               ”

-      Giulio                         PROSPERETTI                                         ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 9 gennaio 2015, depositato in cancelleria il 16 gennaio 2015 ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi 2015.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2016 il Giudice relatore Aldo Carosi;

uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– La Regione Veneto, con ricorso depositato il 16 gennaio 2015 ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi del 2015, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, tra l’altro, dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, in riferimento agli artt. 2, 3, 97, 114, primo comma, 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione.

L’art. 4 del d.l. n. 133 del 2014 al comma 1 dispone che, – al fine di favorire la realizzazione delle opere segnalate dai Comuni alla Presidenza del Consiglio dei ministri dal 2 al 15 giugno 2014 e di quelle inserite nell’elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche incompiute di cui all’art. 44-bis del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, per le quali la problematica emersa attenga al mancato concerto tra amministrazioni interessate al procedimento amministrativo – è data facoltà di riconvocare la Conferenza di servizi funzionale al riesame dei pareri ostativi alla realizzazione dell’opera e ciò anche se la Conferenza di servizi fosse già stata definita in precedenza. In ogni caso i termini relativi al procedimento della Conferenza di servizi sono ridotti alla metà.

Il comma 2 del medesimo articolo prevede peraltro che, in caso di mancato perfezionamento del procedimento in ragione di ulteriori difficoltà amministrative, è data facoltà di avvalersi, a scopo consulenziale-acceleratorio, dell’apposita cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Ai sensi del successivo comma 3, i pagamenti connessi agli investimenti in opere oggetto di segnalazione, nel limite di euro 250.000.000,00 per l’anno 2014, sono esclusi dal patto di stabilità interno alle condizioni ivi indicate.

Il seguente comma 4 dispone che, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sono individuati i Comuni che beneficiano dell’esenzione dal patto di stabilità interno e l’importo dei pagamenti da escludere.

Il comma 5 del medesimo art. 4 prevede che i pagamenti sostenuti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto-legge relativi a debiti in conto capitale degli enti territoriali per gli anni 2014 e 2015 sono esclusi dai vincoli del patto di stabilità interno per un importo complessivo di euro 300.000.000,00 (euro 200.000.000,00 relativamente all’anno 2014 ed euro l00.000.000,00 relativamente all’anno 2015).

Il successivo comma 6 prescrive che, con riguardo all’anno 2014, «l’esclusione di cui al secondo periodo dell’alinea del comma 5 è destinata per 50 milioni di euro ai pagamenti dei debiti delle regioni sostenuti successivamente alla data del l° luglio 2014, […] che beneficiano di entrate rivenienti dall’applicazione dell’articolo 20, commi l e l-bis, del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625, superiori a 100 milioni».

Il comma 7 modifica il comma 9-bis dell’art. 31 della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2012), che, per l’anno 2014, nel saldo finanziario in termini di competenza mista, rilevante ai fini della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, esclude per gli importi ivi indicati i pagamenti in conto capitale sostenuti nel primo semestre dalle Province e dai Comuni.

Il comma 9, infine, prevede le specifiche modalità di compensazione degli effetti finanziari in termini di fabbisogno e di indebitamento netto derivanti dai commi 3, 5 e 8 del citato art. 4 del d.l. n. 133 del 2014.

A giudizio della ricorrente, l’art. 4, nei commi richiamati, innanzitutto, violerebbe gli artt. 3, 97 e 114, primo comma, Cost., in quanto la Regione, pur essendo equiordinata ai Comuni, rimarrebbe esclusa dalle misure di semplificazione e finanziarie previste dall’art. 4 dello stesso decreto-legge, in violazione del fondamentale canone costituzionale di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., in combinato disposto con l’art. 97 Cost., che enuncia il principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Indici di tale irragionevolezza normativa sarebbero, tra gli altri: la brevità dell’arco temporale previsto per la segnalazione; la non applicabilità della normativa impugnata alle opere incompiute regionali, che generalmente sarebbero di maggiore impatto e rilievo per la collettività rispetto a quelle comunali; l’esclusione dal patto di stabilità interno dei soli pagamenti connessi agli investimenti in opere di competenza dei Comuni oggetto di segnalazione e non anche in quelle regionali, di maggiore estensione ed importanza per la collettività.

L’irragionevolezza della disciplina normativa si tradurrebbe, altresì, nella violazione dell’art. 2 Cost., secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Non agevolare la realizzazione di opere regionali, anche mediante l’esclusione dal patto di stabilità interno dei pagamenti connessi ai relativi investimenti, finirebbe per ledere il corrispondente fondamentale diritto inviolabile dell’uomo alla salute. Inoltre la Regione sarebbe titolare di molte funzioni amministrative attratte al fine di assicurarne l’esercizio unitario ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.

La ricorrente sul punto afferma altresì di essere pienamente legittimata a promuovere questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3 e 97 Cost., poiché la lesione dei relativi precetti costituzionali comporterebbe, nella fattispecie, una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o, comunque, ridonderebbe sul riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni.

L’art. 4 sarebbe, poi, costituzionalmente illegittimo anche per violazione dell’art. 117 Cost.

La ricorrente afferma che la disciplina dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4 e 9, andrebbe ascritta alla «programmazione di lavori pubblici» ed all’«approvazione dei progetti a fini urbanistici ed espropriativi», le quali rientrerebbero nella materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Trattandosi di materia soggetta a potestà legislativa concorrente, l’art. 4 del d.l. n. 133 del 2014 sarebbe illegittimo, nella parte in cui non prevederebbe alcun coinvolgimento legislativo della Regione, alla quale, invece, spetterebbe, in tale materia, la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato.

L’art. 4, comma 3, del medesimo decreto-legge – stante l’afferenza del patto di stabilità interno alla materia «coordinamento della finanza pubblica» – violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto conterrebbe disposizioni che non realizzerebbero un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e prevederebbero in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi.

La Regione Veneto sostiene che alla violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. conseguirebbe quella dell’art. 118 Cost., poiché, prevedendo una simile misura di agevolazione per i soli Comuni, il citato art. 4 finirebbe per ledere la potestà amministrativa regionale, nel momento in cui la Regione intendesse attrarre a sé le funzioni amministrative astrattamente spettanti ai Comuni al fine di assicurarne l’esercizio unitario e sempre nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Analoghe censure dovrebbero essere rivolte all’art. 4, comma 5, del d.l. n. 133 del 2014 laddove si ritenesse che l’espressione «enti territoriali» non si riferisca alle Regioni, ma solo agli enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane).

Quanto al successivo comma 6, poi, sarebbe evidente la sostanziale disparità di trattamento della disciplina tra le Regioni del Mezzogiorno e le altre Regioni.

La ricorrente evidenzia in proposito che le entrate di cui ai commi l e l-bis dell’art. 20 del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625 (Attuazione della direttiva 94/22/CEE relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi), derivano dal versamento da parte dei titolari di concessione di coltivazione di idrocarburi di un’aliquota del prodotto della coltivazione. Quindi, mentre alle Regioni a statuto ordinario non facenti parte del Mezzogiorno è corrisposta un’aliquota pari al cinquantacinque per cento, alle Regioni a statuto ordinario del Mezzogiorno, invece, «è corrisposta, per il finanziamento di strumenti della programmazione negoziata nelle aree di estrazione e adiacenti, anche l’aliquota destinata allo Stato». Le Regioni del Mezzogiorno in tal modo, si sostiene, raggiungerebbero più facilmente la soglia indicata dalla norma ai fini dell’esclusione dal patto di stabilità interno.

Secondo la Regione Veneto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 9, del d.l. n. 133 del 2014, che disciplina le modalità di compensazione degli effetti finanziari in termini di fabbisogno e di indebitamento netto derivanti dai commi 3 e 5, deriverebbe direttamente da quella che affligge questi ultimi.

A giudizio della ricorrente, proprio la disparità di trattamento tra le Regioni del centro-nord e quelle del Mezzogiorno giustificherebbe la censura relativa alla violazione dell’art. 119 Cost. sulla base dell’«esorbitante residuo fiscale» della Regione Veneto. Si sostiene in proposito che nel suo ambito, per effetto della normativa sul finanziamento del fondo perequativo, la pubblica amministrazione disporrebbe, per l’erogazione di servizi a favore dei cittadini residenti, meno di quanto ricavato dal prelievo fiscale sul proprio territorio. Secondo la ricorrente verrebbe in tal modo violato l’art. 119 Cost., il quale, pur prevedendo meccanismi perequativi (terzo e quinto comma), fisserebbe un principio di corrispondenza tra assetto delle finanze delle singole Regioni e gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

2.– Costituitosi in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce l’infondatezza del ricorso.

Il resistente innanzitutto osserva che i lavori pubblici non sono indicati tra le materie espressamente elencate dall’art. 117 Cost. In particolare, richiama la sentenza n. 303 del 2003, in cui questa Corte avrebbe affermato che limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente comporterebbe la svalutazione oltremisura delle istanze unitarie che, pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale, giustificherebbero, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze. Di conseguenza, anche nel nostro sistema costituzionale sarebbero presenti congegni volti a rendere più flessibile il sistema a fronte di istanze di unificazione fondate sulla proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica. Un elemento di flessibilità sarebbe indubbiamente contenuto nell’art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative. Quando l’istanza di esercizio unitario trascende anche l’ambito regionale, la funzione amministrativa potrebbe essere esercitata dallo Stato con attrazione della funzione legislativa.

Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la medesima questione del riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni sarebbe stata successivamente affrontata da questa Corte nella sentenza n. 401 del 2007, in cui avrebbe affermato che le disposizioni contenute nel decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), per la molteplicità degli interessi perseguiti e degli oggetti implicati, non sarebbero riferibili ad un unico ambito materiale: i lavori e i contratti pubblici, infatti, non integrerebbero una vera e propria materia, ma si qualificherebbero a seconda dell’oggetto al quale afferiscono, per cui non sarebbero ascrivibili in via generale alla competenza dello Stato o delle Regioni, ma dovrebbero essere valutati a seconda del contenuto precettivo delle singole disposizioni.

Secondo il resistente, dalla sentenza n. 401 del 2007 si evincerebbe la concentrazione di competenze in capo al legislatore statale per quel che riguarda la disciplina di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture al fine di garantire una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale di una materia, che richiederebbe delle regole valide per tutti i soggetti dell’ordinamento.

Da queste considerazioni deriverebbe, secondo la difesa erariale, l’integrale infondatezza delle censure avversarie.

3.– Con memoria depositata il 18 gennaio 2016, la Regione Veneto ha affermato, a sostegno delle censure proposte, che le disposizioni impugnate avrebbero implicazioni di carattere finanziario, dalla cui corretta applicazione discenderebbe il buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e, ove si rispetti contestualmente il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., la realizzazione della solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2 Cost.

4.– Con memoria depositata il 18 gennaio 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito che le disposizioni censurate sarebbero riconducibili alla materia dei lavori pubblici ed ha ripetuto le argomentazioni a sostegno dell’infondatezza, già esposte nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1.– Con il ricorso in epigrafe la Regione Veneto ha impugnato numerose disposizioni del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164.

Riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel d.l. n. 133 del 2014, vengono in rilievo in questa sede le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del citato decreto in riferimento agli artt. 2, 3, 97, 114, primo comma, 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione.

L’art. 4, commi 1 e 2, del d. l. n. 133 del 2014 prevede innanzitutto misure dirette a favorire la realizzazione di opere pubbliche dei Comuni, che non siano state portate a compimento per il mancato concerto tra amministrazioni, mediante la facoltà di riconvocare la Conferenza di servizi. Le opere interessate sono quelle che i Comuni segnaleranno alla Presidenza del Consiglio dei ministri nell’arco di tempo previsto tra il 2 ed il 15 giugno 2014 e quelle già inserite nell’elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche incompiute di cui all’art. 44-bis del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214. In caso di ulteriori difficoltà amministrative, è prevista la facoltà di avvalimento dell’apposita cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

L’art. 4, commi 3, 4, 5, 6, 7 e 9, prevede misure finanziarie dirette a favorire la realizzazione delle opere segnalate dai Comuni e consistenti nell’esclusione dei pagamenti connessi a questi investimenti dal patto di stabilità interno, alle condizioni ivi indicate.

La ricorrente censura le citate disposizioni innanzitutto in riferimento agli artt. 2, 3, 97 e 114, primo comma, Cost., lamentando in sostanza che le Regioni non rientrerebbero nel novero dei soggetti destinatari delle misure di semplificazione e finanziarie per la realizzazione delle opere incompiute, previste solamente a beneficio dei Comuni.

La Regione Veneto lamenta inoltre che lo Stato avrebbe illegittimamente legiferato nelle materie di competenza concorrente relative al «governo del territorio» ed al «coordinamento della finanza pubblica».

Nel censurare l’art. 4, comma 5, del d.l. n.133 del 2014 per violazione dei citati parametri costituzionali, la ricorrente assume che la disposizione non sia applicabile alle Regioni, ma solo agli enti locali.

Con riguardo poi all’art. 4, comma 6, del menzionato decreto, la Regione denuncia una disparità di trattamento con le Regioni del Mezzogiorno, in quanto il meccanismo individuato per l’esclusione dai vincoli del patto di stabilità interno favorirebbe queste ultime penalizzando le altre autonomie, e tra di esse anche la ricorrente.

Inoltre la disciplina censurata, prevedendo una misura di agevolazione per i soli Comuni, violerebbe l’art. 118 Cost., in quanto finirebbe per ledere la potestà amministrativa regionale nel momento in cui la Regione intendesse attrarre al proprio livello di governo le funzioni amministrative astrattamente loro spettanti al fine di assicurarne l’esercizio unitario nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Infine, le disposizioni impugnate violerebbero l’art. 119 Cost., poiché l’esclusione delle Regioni dal novero dei soggetti che possono fruire di agevolazioni finanziarie in ordine alla realizzazione di opere pubbliche – tanto più quando, come nel caso della Regione Veneto, abbiano un consistente “residuo fiscale” – contrasterebbe con i principi di territorialità, di autonomia e di responsabilità, secondo i quali, anche in presenza di meccanismi perequativi (art. 119, terzo e quinto comma, Cost.), le Regioni «[d]ispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio» (art. 119, secondo comma, Cost.).

2.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento agli artt. 2, 3, 97 e 114, primo comma, Cost., sono inammissibili.

Quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost., la ricorrente denuncia l’irragionevolezza delle disposizioni impugnate ed il loro contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, che si tradurrebbe anche nella violazione dell’art. 2 Cost., senza fornire alcuna adeguata argomentazione; quanto alla violazione dell’art. 114, primo comma, Cost., la Regione si limita a riportarne testualmente il contenuto.

Il ricorso proposto, quindi, pur identificando le disposizioni censurate ed i parametri costituzionali che si assumono violati, risulta assolutamente generico: limitandosi a denunciare in modo assertivo la lesione dei parametri evocati, le censure proposte non raggiungono la soglia minima di chiarezza e di completezza, cui è subordinata l’ammissibilità delle impugnative in via principale. È principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale che il ricorso in via principale non solo «deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi», indicando «le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità», ma deve altresì «contenere una seppur sintetica argomentazione di merito a sostegno della richiesta declaratoria di incostituzionalità della legge» (ex multis, ordinanza n. 123 del 2012).

3.– Anche le censure proposte nei confronti dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento all’art. 118 Cost., sono inammissibili per carenza di motivazione.

La ricorrente afferma che la previsione di misure di agevolazione a favore dei soli Comuni lederebbe la potestà amministrativa regionale, precludendo alla Regione la possibilità di attrarre le funzioni amministrative astrattamente spettanti ai Comuni ove volesse assicurarne l’esercizio unitario secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Da tali argomentazioni non è dato comprendere in che modo l’attrazione, peraltro ipotetica, da parte della Regione, di funzioni amministrative spettanti ai Comuni possa essere pregiudicata dalla realizzazione di opere comunali incompiute.

4.– È, altresì, inammissibile la questione di legittimità costituzionale promossa nei confronti dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento all’art. 119 Cost., per lesione dell’autonomia regionale in relazione all’«esorbitante residuo fiscale della Regione Veneto», cioè al «saldo fra ciò che ciascuna Regione riceve in termini di spesa pubblica e il suo contributo in termini di prelievo fiscale». Da tale raffronto deriverebbe l’illegittimità dell’esclusione della Regione dalle misure agevolative di cui alle norme impugnate.

Fermo restando che l’assoluto equilibrio tra prelievo fiscale ed impiego di quest’ultimo sul territorio di provenienza non è principio espresso dalla disposizione costituzionale invocata, il criterio del residuo fiscale richiamato dalla Regione non è parametro normativo riconducibile all’art. 119 Cost., bensì un concetto utilizzato nel tentativo, storicamente ricorrente tra gli studiosi della finanza pubblica, di individuare l’ottimale ripartizione territoriale delle risorse ottenute attraverso l’imposizione fiscale.

Data la struttura fortemente accentrata, nel nostro ordinamento, della riscossione delle entrate tributarie e quella profondamente articolata dei soggetti pubblici e degli interventi dagli stessi realizzati sul territorio, risulta estremamente controversa la possibilità di elaborare criteri convenzionali per specificare su base territoriale la relazione quantitativa tra prelievo fiscale e suo reimpiego.

L’esigenza di aggregare dati eterogenei secondo metodologie non univocamente accettate ha fatto sì che il concetto di residuo fiscale sia stato utilizzato piuttosto come ipotesi di studio che come parametro di correttezza legale nell’allocazione territoriale delle risorse.

L’accentuata disputa circa le modalità appropriate per un calcolo corretto del differenziale tra risorse fiscalmente acquisite e impiego negli ambiti territoriali di provenienza attraversa la forte dialettica politico-istituzionale afferente alle Regioni ed agli enti locali. È significativo – con riguardo alle controverse modalità di valutazione – che proprio la ricorrente, la quale lamenta un forte pregiudizio sotto il descritto profilo, risulti la Regione maggiormente beneficiaria, almeno nel primo decennio del secolo attuale, dell’impiego sul proprio territorio di risorse statali per la realizzazione delle infrastrutture strategiche di interesse nazionale (tra le altre, Corte dei conti – sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, delibera 15 giugno 2007, n. 72/2007/G, con la quale è stato approvato il referto al Parlamento intitolato «Relazione sulle risultanze dell’attività di controllo sulla gestione amministrativa e contabile delle risorse allocate al capitolo 7060 del Ministero delle infrastrutture avente ad oggetto: “Fondo da ripartire per la progettazione e la realizzazione delle opere strategiche di preminente interesse nazionale nonché per opere di captazione ed adduzione di risorse idriche”»).

In definitiva, il parametro del residuo fiscale non può essere considerato un criterio specificativo dei precetti contenuti nell’art. 119 Cost.

Da quanto considerato deriva, dunque, l’inammissibilità della questione per l’assoluta inconferenza del parametro evocato dalla ricorrente.

5.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 6, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento all’art. 3 Cost., è inammissibile per carenza di motivazione circa l’incidenza della stessa sulla situazione soggettiva della ricorrente e sull’asserita disparità di trattamento.

La Regione Veneto denuncia la violazione dell’art. 3 Cost. da parte dell’art. 4, comma 6, del decreto-legge n. 133 del 2014, il quale dispone, con riguardo all’anno 2014, l’esclusione dai vincoli del patto di stabilità – per l’importo complessivo di euro 50.000.000,00 – di pagamenti dei debiti delle Regioni che già beneficino di proventi superiori ad euro 100.000.000,00 derivanti dalle aliquote loro spettanti per la coltivazione degli idrocarburi. Vi sarebbe disparità di trattamento tra le Regioni a statuto ordinario del Mezzogiorno e le altre (tra cui la stessa Regione Veneto) poiché le entrate in questione sarebbero devolute alle Regioni del Mezzogiorno anche per la parte altrimenti destinata allo Stato, secondo il meccanismo di cui all’art. 20, commi 1 e 1-bis, del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625 (Attuazione della direttiva 94/22/CEE relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi).

La ricorrente omette di riferire se in concreto essa già percepisca le suddette aliquote ed, in caso positivo, se il preteso incremento riservato alle Regioni del Mezzogiorno sia determinante per raggiungere quel livello minimo richiesto dalla norma impugnata (euro 100.000.000,00). Peraltro, non viene fornita alcuna motivazione circa la confrontabilità delle due situazioni.

6.– Le censure rivolte all’art. 4, comma 5, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento agli artt. 2, 3, 97, 114, primo comma, 117, terzo comma, 118 e 119 Cost., sono inammissibili per grave erroneità del presupposto interpretativo.

Secondo la ricorrente la norma, limitando i benefici ai soli enti territoriali, escluderebbe indebitamente le Regioni.

Tale argomentazione rivela un palese difetto interpretativo: risulta infatti evidente che l’espressione utilizzata dal legislatore all’art. 4, comma 5, del d.l. n. 133 del 2014 – «enti territoriali» –non è limitata agli enti locali ma comprende, per costante accezione legislativa, le Regioni. Anche a queste ultime dunque fa riferimento il comma 5, il quale prevede che i pagamenti sostenuti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto-legge relativi a debiti in conto capitale degli enti territoriali per gli anni 2014 e 2015 sono esclusi dai vincoli del patto di stabilità interno per un importo complessivo di euro 300.000.000,00 (euro 200.000.000,00 relativamente all’anno 2014 ed euro l00.000.000,00 relativamente all’anno 2015). Peraltro, ulteriore testimonianza del grave errore interpretativo in cui è incorsa la ricorrente si ricava dalla formulazione del comma 5-bis dell’art. 4, il quale menziona espressamente anche le Regioni tra le destinatarie della disposizione impugnata.

7.– La questione di legittimità costituzionale promossa nei confronti dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4 e 9, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., per lesione della competenza concorrente della Regione nella materia «governo del territorio» non è fondata.

La ricorrente lamenta che la disciplina impugnata interverrebbe sulla «programmazione di lavori pubblici» e sull’«approvazione dei progetti a fini urbanistici ed espropriativi», funzioni ascrivibili alla materia «governo del territorio» di competenza legislativa concorrente, senza prevedere alcun coinvolgimento legislativo della Regione.

L’assunto non può essere condiviso poichè le norme in considerazione non appartengono all’ambito di competenza del «governo del territorio» bensì a quello del «coordinamento della finanza pubblica».

È proprio la finalità del coordinamento della finanza pubblica a collegare teleologicamente le norme impugnate: l’art. 4, comma 1, dispone infatti che le opere interessate allo sblocco procedurale sono quelle per le quali la problematica emersa attiene al mancato concerto tra amministrazioni interessate al procedimento amministrativo e per le quali è utile riconvocare la Conferenza di servizi ove si ritenga possibile assicurare un proficuo riesame dei pareri ostativi alla realizzazione dell’opera. Il comma 2 prevede peraltro che, in caso di mancato perfezionamento del procedimento in ragione di ulteriori difficoltà amministrative, è data facoltà di avvalersi dell’apposita cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. I commi 3, 4, 7 e 9 prevedono poi l’esclusione dai vincoli del patto di stabilità per le opere che dovessero superare positivamente il riesame in questione insieme alle modalità tecniche per assicurare tale obiettivo.

Così configurate, le norme impugnate non hanno alcun effetto novativo nella materia del «governo del territorio» perché sono destinate a sbloccare le opere pubbliche già programmate e progettate (la cui procedura realizzativa era ferma al momento dell’adozione delle disposizioni censurate) solo nel caso in cui le problematiche emerse dovessero essere superate attraverso le procedure acceleratorie. Ciò senza che sia previsto alcun effetto sanante nel caso in cui dovessero eventualmente permanere, nelle fattispecie interessate, profili non conformi alle norme ambientali, urbanistiche e afferenti al governo del territorio.

Le disposizioni in esame mirano dunque a recuperare progetti e finanziamenti immobilizzati per cause rimuovibili attraverso il superamento di inconvenienti che non coinvolgono la violazione della disciplina inerente al governo del territorio. È evidente che, ove le opere in stato di blocco dovessero risultare non conformi alla normativa a tutela dell’ambiente, dell’urbanistica e a disposizioni di legge, esse non potrebbero essere riavviate.

In tale prospettiva ermeneutica vengono così a coniugarsi primari obiettivi del coordinamento della finanza pubblica, quali il recupero di risorse allo stato inutilizzate e lo stimolo alla ripresa dell’economia e dell’occupazione in un momento di particolare difficoltà per il Paese. L’esclusione dal patto di stabilità diventa a sua volta condizione necessaria per l’effettiva realizzazione della finalità legislativa.

L’appartenenza delle disposizioni alla materia del «coordinamento della finanza pubblica» viene avvalorata con chiarezza anche dalla stessa intitolazione del d.l. n. 133 del 2014 (cosiddetto “Sblocca Italia”): «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive». Ed è significativo che alcune delle opere interessate alle procedure di sblocco appartengano all’anagrafe degli interventi incompleti prevista dall’art. 44-bis del d.l. n. 201 del 2011, a sua volta intitolato «Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici».

Il suddetto art. 44-bis prevede che siano comprese nell’elenco opere incompiute: a) per mancanza di fondi; b) per cause tecniche; c) per sopravvenute nuove norme tecniche o disposizioni di legge; d) per il fallimento dell’impresa appaltatrice; e) per il mancato interesse al completamento da parte del gestore. Detta anagrafe è a sua volta finalizzata a verificare la «adattabilità» delle opere stesse ai fini del loro riutilizzo o le «ulteriori destinazioni a cui può essere adibita ogni singola opera», prevedendo che «[a]i fini della fissazione dei criteri [di recupero] si tiene conto delle diverse competenze in materia attribuite allo Stato e alle regioni».

La correlazione funzionale tra le disposizioni oggetto di impugnazione risponde dunque ad una scelta di politica economica nazionale, adottata per far fronte all’eccezionale emergenza finanziaria ed occupazionale che il Paese sta attraversando e si pone quindi come espressione del perseguimento di obiettivi di interesse generale.

Detta correlazione, per la sua finalità e per la proporzionalità allo scopo che intende perseguire, risulta espressiva di un principio fondamentale della materia, di competenza concorrente, del «coordinamento della finanza pubblica». Come tale non è invasiva delle attribuzioni della Regione nella materia stessa, in quanto il finalismo della previsione normativa esclude che possa invocarsi nei suoi confronti la natura di norma di dettaglio (sentenze n. 205 e n. 63 del 2013).

8.– Per analoghe ragioni anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 133 del 2014, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. per violazione della competenza concorrente della Regione nella materia del «coordinamento della finanza pubblica» è priva di fondamento.

Le norme impugnate devono essere rispettivamente ricondotte, come già precisato, a detto ambito di competenza. In seno a tale materia, tuttavia, spetta allo Stato la definizione dei principi fondamentali relativi al rispetto dei vincoli del patto di stabilità interno.

Le norme censurate, prevedendo misure di semplificazione e di incentivazione agli investimenti nella forma della riconvocazione della Conferenza di servizi e dell’esclusione dai vincoli del patto di stabilità interno, costituiscono appunto principi fondamentali e non realizzano pertanto alcuna lesione della competenza legislativa della Regione, con conseguente infondatezza della questione da quest’ultima proposta in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe;

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, promosse, in riferimento agli artt. 2, 3, 97, 114, primo comma, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 6, del d.l. n. 133 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 133 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 2, 3, 97, 114, 117, terzo comma, 118 e 119 Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4 e 9, del d.l. n. 133 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;

5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 133 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2016.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Aldo CAROSI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 aprile 2016.