Ordinanza n. 269 del 2015

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ORDINANZA N. 269

ANNO 2015

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                                Giudice

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                                ”

-           Nicolò                          ZANON                                                    ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248; degli artt. 2 e 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), in combinato disposto con gli artt. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) − come sostituito dall’art. 16, comma 1, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) − e 91-bis del medesimo d.P.R. n. 602 del 1973 e con l’art. l, comma l, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione); nonché dell’art. 362, comma 2, del codice di procedura civile, promossi dal Tribunale ordinario di Tivoli con due ordinanze del 19 dicembre 2013 e del 10 gennaio 2014, rispettivamente iscritte al n. 83 del registro ordinanze 2014 e al n. 55 del registro ordinanze 2015, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2015.

          Visti gli atti di intervento di Equitalia Sud spa e del Presidente del Consiglio dei ministri;

          udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2015 il Giudice relatore Giuliano Amato;

          uditi l’avvocato Marcello Cecchetti per Equitalia Sud spa e l’avvocato dello Stato Paola Maria Zerman per il Presidente del Consiglio dei ministri.

          Ritenuto che con due ordinanze di analogo tenore, rispettivamente depositate il 19 dicembre 2013 (r.o. n. 83 del 2014) ed il 10 gennaio 2014 (r.o. n. 55 del 2015), il Tribunale ordinario di Tivoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248; degli artt. 2 e 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), in combinato disposto con gli artt. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) − come sostituito dall’art. 16, comma 1, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) − e 91-bis del medesimo d.P.R. n. 602 del 1973 e con l’art. l, comma l, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione); nonché dell’art. 362, comma 2, del codice di procedura civile;

          che tutte le disposizioni sopra richiamate vengono censurate «nella parte in cui non disciplinano la giurisdizione del preavviso di fermo e nella parte in cui obbligano un soggetto che abbia ricevuto un preavviso di fermo per crediti di diversa natura a rivolgersi a diversi giudici », ponendosi in contrasto con gli artt. 11, 24, 111 e 117 della Costituzione, nonché con gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché con gli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;

          che, in via subordinata, il Tribunale rimettente ha sollevato, in riferimento agli artt. 11, 24, 111 e 117 Cost., all’art. 6 della CEDU e agli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questione di legittimità costituzionale «dell’articolo 362 comma 2 e 3» del codice di procedura civile, nella parte in cui non consente ad ogni giudice, di qualsiasi ordine e grado, di richiedere un’interpretazione pregiudiziale vincolante alle sezioni unite della Corte di cassazione e, inoltre, nella parte in cui non prevede che i principi espressi dalle pronunce della Corte di cassazione a sezioni unite costituiscano precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli uffici giudiziari della Repubblica;

          che in entrambi i giudizi il Tribunale riferisce di essere chiamato a decidere in ordine alla domanda, avanzata nei confronti di Equitalia Sud spa, volta all’annullamento, ovvero all’accertamento della nullità o inefficacia, del fermo di un autoveicolo, in ragione del mancato pagamento di diverse cartelle esattoriali, alcune delle quali relative a crediti di natura tributaria, altre a crediti di diversa natura;

          che il giudice a quo rileva che l’art. 35, comma 26-quinquies, del d.l. n. 223 del 2006 ha inserito nell’art. 19, comma 1, lettera e-ter, del d.lgs. n. 546 del 1992 − e quindi nell’elenco degli atti impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie − il fermo di beni mobili registrati, di cui all’art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973;

          che, sebbene tale intervento legislativo fosse destinato a risolvere la controversa questione del riparto di giurisdizione in ordine ai provvedimenti di fermo, sarebbe tuttavia rimasta incerta la titolarità della stessa giurisdizione allorché il fermo riguardi (o riguardi anche) obbligazioni extratributarie;

          che, in ogni caso, osserva il Tribunale, alla luce dell’ordinanza della Corte di cassazione, sezioni unite, 5 giugno 2008, n. 14831, laddove il provvedimento concerna più crediti di diversa natura, il giudice è tenuto a disporre la separazione delle cause, trattenendo quella per la quale ha giurisdizione e rimettendo l’altra al giudice competente, ferma restando la possibilità per il debitore di proporre separate impugnazioni innanzi ai giudici diversamente competenti, in relazione alla natura dei crediti posti a base del provvedimento;

          che, d’altra parte, sarebbe controversa la questione dell’autonoma impugnabilità dinanzi alle Commissione tributarie del preavviso di fermo, in quanto non ricompreso nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992;

          che, a questo riguardo, il rimettente evidenzia l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, la quale, dopo alcune iniziali pronunce che hanno negato l’impugnabilità del preavviso, con l’ordinanza 11 maggio 2009, n. 10672, ne ha definitivamente riconosciuto l’autonoma impugnabilità, ravvisando nello stesso preavviso un atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa tributaria, rispetto alla quale sorge, ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ., l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva;

          che il rimettente ritiene la questione non manifestamente infondata in riferimento ai parametri di cui agli artt. 24 e 111 Cost., in quanto la necessità di proporre cause separate per l’impugnazione del medesimo atto finirebbe per raddoppiare gli oneri, non solo economici, a carico del contribuente e, quindi, per comprimere il diritto, costituzionalmente tutelato, di agire in giudizio;

          che, inoltre, la non univoca formulazione letterale delle disposizioni censurate e le divergenze giurisprudenziali sopra riportate avrebbero determinato una situazione di incertezza, tale da integrare la violazione degli artt. 6 e 13 della CEDU, sotto il profilo della mancanza di certezza del diritto, nonché degli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiamati attraverso il riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.;

          che l’impossibilità di rimettere la questione interpretativa alle sezioni unite della Corte di cassazione, in funzione nomofilattica, nonché l’assenza di vincolatività delle sue decisioni determinerebbero la mancanza di certezza in ordine alle regole giuridiche da applicare; tale incertezza, ad avviso del giudice a quo, si porrebbe in contrasto con gli artt. 6 e 13 della CEDU, richiamati attraverso il riferimento agli artt. 11, 111 e 117 Cost.;

          che la questione di costituzionalità, così formulata, non sarebbe «meramente propositiva di una interpretazione piuttosto di un’altra, ma, al contrario, è atta ad evitare la violazione (che implicherebbe una possibile condanna della Repubblica Italiana per “defaut de sécurité juridique”) della violazione del principio di certezza giuridica in base all’art. 6 della Convenzione EDU, nel caso in cui il Giudice a quo dovesse decidere in base a dettato normativo non chiaro e la cui determinazione in concreto del significato fosse di fatto attribuito in modo arbitrario al singolo Giudice, stante la scarsa chiarezza ed intellegibilità della norma […]»;

          che, inoltre, il giudice a quo osserva che, se si ammette che il giudice possa disapplicare la norma interna per contrasto con i principi comunitari della CEDU, senza sollevare la questione di legittimità costituzionale, si verificherebbe un paradosso, ovvero che il giudice – al quale sono precluse sia l’applicazione, sia la disapplicazione della legge della cui costituzionalità egli dubita – potrebbe, invece, disapplicare la legge per contrasto con i principi comunitari;

          che detta possibilità sarebbe fondata sull’argomentazione per cui «la Convenzione, in quanto richiamata dai Trattati, è diritto comunitario», il quale prevale sul diritto interno: il giudice sarebbe quindi abilitato ad applicare il diritto comunitario e a disapplicare la norma interna che contrasti con la CEDU;

          che tuttavia, ad avviso del rimettente, tale procedimento argomentativo porterebbe ad instaurare un nuovo sistema, parallelo, di sindacato di costituzionalità sulle leggi, realizzabile in modo diffuso dai giudici comuni; ciò vanificherebbe il principio del controllo accentrato della legittimità costituzionale, cui va riconosciuta la portata di principio supremo dell’ordinamento costituzionale; tale impostazione non sarebbe condivisibile e richiederebbe, pertanto, di essere rimossa da una pronuncia della Corte costituzionale;

          che, in via subordinata, il rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale «dell’attuale sistema processuale civile, nella parte in cui preclude al Giudice di ogni ordine e grado di poter offrire una soluzione (in quanto in evidente contrasto con l’art. 6 della CEDU) interessando direttamente il giudice della nomofilachia, analogamente a quanto avviene con riferimento alle questioni pregiudiziali relative al diritto comunitario (innanzi alla Corte di Giustizia UE)»;

          che in tal senso, il giudice rimettente ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale «dell’art. 362, comma 2 e 3, cpc in relazione all’art. 24, 111 Cost. e all’art. 6 della CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di ogni ordine e grado di richiedere preventivamente una pronuncia delle Sezioni Unite in funzione nomofilattica, analogamente a quanto previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie»;

          che nel dispositivo dell’ordinanza, la censura relativa all’art. 362 cod. proc. civ. viene, altresì, riferita alla «parte in cui i principi espressi dalle pronunce della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite non costituiscono precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli uffici giudiziari della Repubblica»;

          che in entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;

          che in via preliminare, la difesa statale ritiene che il giudice a quo non abbia adeguatamente verificato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata, alla luce della disciplina introdotta dall’art. 52, comma 1, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98 e, ancor prima, della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 7 maggio 2010, n. 11087, che ha affermato l’autonoma impugnabilità del preavviso di fermo amministrativo;

          che, nel merito, si osserva che dal tenore letterale dell’art. 86, comma 2, del d.P.R. n. 602 del 1973 sono ricavabili puntuali indicazioni anche in ordine alla natura giuridica del preavviso di fermo, quale atto di comunicazione preventiva, finalizzato ad assicurare, mediante una pronta conoscibilità del provvedimento di fermo, un’ampia tutela del contribuente, che di quel provvedimento è il destinatario;

          che, in riferimento alla circostanza che il fermo amministrativo, e conseguentemente anche il preavviso di fermo, rientrino nella giurisdizione del giudice tributario soltanto se riferiti a crediti di natura tributaria − con la conseguenza che il destinatario dei provvedimenti in questione debba rivolgersi a giudici diversi in relazione alla natura del credito − la difesa statale ritiene che ciò costituisca una conseguenza diretta della specializzazione delle competenze degli organi giudicanti, funzionale ad assicurare, sulla base di distinte attribuzioni, una più adeguata ed efficace risposta alla domanda di giustizia;

          che, con riferimento alla questione formulata in via subordinata, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che le censure coinvolgerebbero la costituzionalità dell’intero sistema processuale civile, nella parte in cui preclude al giudice di ogni ordine e grado di adire direttamente e preventivamente la Corte di cassazione in funzione nomofilattica;

          che ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, tale richiesta deve ritenersi inammissibile, in quanto comporta una vera e propria sovversione di sistema con risultati, peraltro, marcatamente disarmonici, stante la estraneità della regola dello stare decisis alle coordinate generali del nostro ordinamento, il quale è viceversa improntato al principio della supremazia della legge scritta;

          che, d’altra parte, i dubbi ermeneutici circa la corretta portata precettiva di una disposizione non avrebbero valenza tale da pregiudicare il diritto di difesa e il principio di certezza del diritto, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo;

          che sarebbe inoltre inconferente il richiamo all’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), fattoa Roma il 25 marzo 1957, che permette ai giudici nazionali di interrogare la Corte di giustizia circa l’interpretazione o la validità del diritto europeo; tale strumento, infatti, garantisce l’uniforme applicazione del diritto europeo e non di quello nazionale, riservata ai giudici degli Stati membri; la funzione del rinvio pregiudiziale sarebbe quindi del tutto diversa da quella svolta dalla Corte di cassazione in chiave nomofilattica;

          che con memoria depositata il 10 novembre 2015, l’Avvocatura generale dello Stato ha insistito affinché le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Tivoli siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate;

          che i dubbi interpretativi formulati dal giudice a quo sarebbero superabili mediante un’interpretazione sistematica delle norme e dell’ordinamento giudiziario, il quale prevede l’esistenza di una pluralità di giudici volta ad assicurare, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, unitamente al principio di conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda proposta ad un giudice privo di giurisdizione;

          che l’Avvocatura generale dello Stato ribadisce, inoltre, l’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata in via subordinata, dell’art. 362 cod. proc. civ., richiamando i medesimi argomenti svolti nel proprio atto di intervento;

          che in entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuta la società Equitalia Sud spa, quale parte convenuta nei giudizi a quibus, chiedendo che tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Tivoli siano dichiarate manifestamente inammissibili o, comunque, manifestamente infondate nel merito;

          che la società interveniente ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in combinato disposto con gli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in quanto tali disposizioni non costituirebbero parametro idoneo ai fini dello scrutinio di costituzionalità delle norme impugnate, ma verrebbero in rilievo «solo in riferimento ad ambiti di competenza attribuiti all’Unione dai trattati»; nel caso di specie, tuttavia, le norme interne censurate attengono al riparto di giurisdizione e rientrano in un ambito di competenza dell’ordinamento italiano;

          che viene, inoltre, eccepito il difetto di rilevanza della questione relativa alla violazione del principio di «non incertezza del diritto»; il giudice a quo si preoccuperebbe, infatti, degli eventuali contrasti giurisprudenziali derivanti dalla mancanza, nella formulazione della norma, di chiarezza ed univocità di significato; essi, tuttavia, sarebbero configurabili solo in un momento successivo alla pronuncia del Tribunale rimettente e, pertanto, non avrebbero nulla a che vedere con il giudizio a quo;

          che inoltre, nel caso in esame, sarebbe possibile un’interpretazione conforme a Costituzione (ed alla Convenzione europea), attribuendo alla disposizione in esame il significato che emerge dal combinato disposto degli artt. 2 e 19, primo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992, ovvero facendo leva sulla consolidata giurisprudenza di legittimità;

          che, in ogni caso, la questione sarebbe manifestamente infondata, in quanto il principio di non incertezza del diritto enucleato dalla Corte di Strasburgo in riferimento all’art. 6 della CEDU non comporta che non possano esistere contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, ma semmai che, qualora tali contrasti effettivamente sussistano, vi sia un organo supremo che li possa dirimere; nel caso dell’ordinamento italiano, quest’organo è la Corte di cassazione che, infatti, ha prodotto una consolidata giurisprudenza (richiamata dallo stesso giudice a quo) in merito all’interpretazione da attribuire alla disposizione impugnata, dando soluzione ai dubbi ermeneutici prospettati dal Tribunale rimettente;

          che, inoltre, nel prospettare l’«incertezza potenziale» della disciplina, per il carattere non vincolante delle decisioni della Corte di cassazione, il Tribunale ordinario di Tivoli avrebbe sollevato una questione non rilevante, non essendo stato chiarito se il giudice rimettente intenda disattendere gli insegnamenti della Corte di cassazione sul punto, ovvero ritenga di condividerli;

          che, d’altro canto, ad avviso della parte interveniente, la questione sarebbe infondata anche laddove si presupponga l’applicazione delle censurate regole di riparto della giurisdizione; infatti, la necessità di adire contestualmente più giudici per opporsi al medesimo fermo, iscritto a tutela di crediti di natura diversa, non deriverebbe affatto dall’illogicità o incoerenza della regola di riparto della giurisdizione, ma dalla contestuale esistenza, in capo al medesimo soggetto, di debiti di diversa natura, come tali soggetti alla giurisdizione di diversi giudici; pertanto, ove il giudice a quo avesse voluto contestare la legittimità di tale assetto normativo, avrebbe dovuto censurare le norme che stabiliscono l’esistenza delle diverse giurisdizioni, e non la regola che disciplina il riparto della giurisdizione tra i diversi giudici;

          che Equitalia spa eccepisce, inoltre, la manifesta inammissibilità per difetto di rilevanza, della questione sollevata in via subordinata, relativa all’art. 362, comma 2, cod. proc. civ., non essendo stati chiariti i motivi per i quali non sarebbe possibile decidere senza il previo rinvio alla Corte di cassazione a sezioni unite, né se vi siano dei profili sui quali il medesimo Tribunale ritenga insufficienti le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di legittimità; il rimettente avrebbe, quindi, formulato una prospettazione del tutto ipotetica, che prescinde dai giudizi pendenti dinanzi a sé, e che dovrebbe riguardare l’intero sistema processuale;

          che, d’altra parte, l’impossibilità di adire direttamente la Corte di cassazione non pregiudicherebbe i diritti di difesa delle parti, in quanto l’ordinamento predispone uno strumento per accertare, in forma definitiva e vincolante, la giurisdizione su una determinata controversia, costituito dal regolamento di giurisdizione, di cui agli artt. 41 e 367 cod. proc. civ.;

          che viene eccepita, inoltre, la manifesta inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 362, comma 2, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede la vincolatività delle decisioni della Corte di cassazione a sezioni unite; ed invero, osserva Equitalia Sud spa, se il Tribunale ritenesse costituzionalmente necessaria l’esistenza di un vincolo alla decisione del giudice di primo grado (vincolo individuato nei principi elaborati dalla Corte di cassazione), egli potrebbe direttamente decidere in tal senso, senza per ciò pretendere che sia la Corte costituzionale adita a dare «fondamento costituzionale» a tale scelta; in ogni caso, la questione prospettata dal rimettente riguarderebbe problematiche di politica del diritto, destinate a rimanere estranee al giudizio incidentale di legittimità costituzionale;

          che, ad avviso di Equitalia Sud spa, la questione sarebbe comunque infondata, in quanto l’assenza di vincolatività delle decisioni della Corte di cassazione non solo non contrasta con alcun principio costituzionale, ma trova proprio nella Costituzione il proprio fondamento ed il proprio riconoscimento; in particolare, l’art. 101, secondo comma, Cost., laddove afferma che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge», stabilisce un principio generale in base al quale ciascun giudice decide la controversia sottoposta al suo esame applicando le norme di diritto, così come dallo stesso giudice rilevate ed interpretate, senza che possano assumere rilevanza ed efficacia vincolante precedenti decisioni di altri giudici;

          che, con due memorie di identico tenore, depositate in prossimità dell’udienza pubblica, Equitalia Sud spa ha insistito affinché tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Tivoli siano dichiarate manifestamente inammissibili o, comunque, manifestamente infondate;

          che la società interveniente sottolinea come il «diritto vivente» non lasci alcuno spazio a incertezze: la giurisdizione sull’impugnazione del fermo amministrativo di cui all’art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973 deve essere individuata avendo riguardo alla natura del credito alla cui tutela il fermo stesso è finalizzato;

          che a dimostrazione della formazione di un «diritto vivente» sulla questione in esame, Equitalia Sud spa richiama, oltre a tutte le pronunce già evidenziate nella memoria di costituzione, anche decisioni più recenti, ed in particolare la sentenza 18 maggio 2015, n. 10093; non sussisterebbe, quindi, alcuna incertezza in ordine all’individuazione del giudice avente giurisdizione sull’impugnazione del fermo amministrativo;

          che d’altra parte, non sarebbe ravvisabile alcuna irragionevolezza nella regola di riparto che impone, nel caso di fermo iscritto a tutela di crediti di diversa natura, di adire contestualmente giudici differenti, in quanto tale regola discenderebbe dai principi costituzionali in forza dei quali «la giurisdizione del giudice tributario “deve ritenersi imprescindibilmente collegata” alla natura tributaria del rapporto» (sentenza n. 39 del 2010).

          Considerato che con due ordinanze, di analogo tenore, rispettivamente depositate il 19 dicembre 2013 (r.o. n. 83 del 2014) ed il 10 gennaio 2014 (r.o. n. 55 del 2015), il Tribunale ordinario di Tivoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248; degli artt. 2 e 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), in combinato disposto con gli artt. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) − come sostituito dall’art. 16, comma 1, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) − e 91-bis del medesimo d.P.R. n. 602 del 1973 e con l’art. l, comma l, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione); nonché dell’art. 362, comma 2, del codice di procedura civile;

          che tutte le disposizioni sopra richiamate vengono censurate «nella parte in cui non disciplinano la giurisdizione del preavviso di fermo e nella parte in cui obbligano un soggetto che abbia ricevuto un preavviso di fermo per crediti di diversa natura a rivolgersi a diversi giudici », ponendosi in contrasto con gli artt. 11, 24, 111 e 117 della Costituzione, nonché con gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché con gli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;

          che, in via subordinata, il Tribunale rimettente ha sollevato, in riferimento agli artt. 11, 24, 111 e 117 Cost., all’art. 6 della CEDU e agli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questione di legittimità costituzionale «dell’articolo 362 comma 2 e 3» del codice di procedura civile, nella parte in cui non consente ad ogni giudice, di qualsiasi ordine e grado, di richiedere un’interpretazione pregiudiziale vincolante alle sezioni unite della Corte di cassazione e, inoltre, nella parte in cui non prevede che i principi espressi dalle pronunce della Corte di cassazione a sezioni unite costituiscano precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli uffici giudiziari della Repubblica;

          che le due ordinanze di rimessione pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alle medesime disposizioni censurate; i giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia;

          che la questione di legittimità, sollevata in via principale dal Tribunale ordinario di Tivoli, è manifestamente inammissibile, per molteplici ragioni;

          che, in particolare, il rimettente denuncia l’illegittimità di plurime disposizioni, complessivamente considerate, «nella parte in cui non disciplinano la giurisdizione del preavviso di fermo e nella parte in cui obbligano un soggetto che abbia ricevuto un preavviso di fermo per crediti di diversa natura a rivolgersi a diversi giudici»;

          che, a questo riguardo, deve essere rilevata la carenza, nella motivazione di entrambe le ordinanze di rimessione, di puntuali indicazioni in ordine non solo al titolo di ciascuna delle pretese creditorie in contestazione nei giudizi a quibus, ma anche ai motivi dedotti dai ricorrenti a sostegno delle domande di nullità o di annullamento; tali lacune nell’impianto di entrambe le ordinanze di rimessione, non emendabili attraverso una lettura degli atti di causa, impediscono di stabilire, in concreto, se il giudice a quo sia sfornito di giurisdizione in ordine ad alcune delle controversie sottoposte al suo esame e, in particolare, se egli sia tenuto ad affermare o a declinare la propria giurisdizione rispetto alle controversie sottoposte al suo esame;

          che tali lacune nella ricostruzione delle fattispecie sottoposte all’esame del Tribunale rimettente si riflettono nel difetto di motivazione sulla necessità di fare applicazione di ciascuna delle molteplici disposizioni censurate, e quindi in ordine alla rilevanza della questione rispetto ai giudizi a quibus;

          che, sotto un diverso ed ulteriore profilo, l’intervento manipolativo invocato si presenta incerto e non identificato; in particolare, il giudice a quo − pur consapevole del definitivo consolidamento della regola di riparto della giurisdizione elaborata dalle sezioni unite della Corte di cassazione − ne censura le ricadute sul piano dell’effettività della tutela, ma non chiarisce quale dovrebbe essere la regola di riparto della giurisdizione, ritenuta conforme ai principi costituzionali evocati, alternativa a quella elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, rimettendo a questa Corte la elaborazione ex novo di una diversa regola di riparto della giurisdizione;

          che, infatti, il rimettente non invoca affatto una pronuncia ablativa delle norme censurate, ma richiede piuttosto un intervento di tipo additivo, finalizzato a concentrare presso un unico plesso giurisdizionale le controversie in ordine ai provvedimenti di fermo amministrativo; e tuttavia, ai fini del conseguimento di tale obiettivo, è stata omessa ogni indicazione in ordine alla direzione e ai contenuti dell’intervento correttivo auspicato, tra i molteplici astrattamente ipotizzabili; tale omissione si risolve nella indeterminatezza ed ambiguità del petitum, le quali comportano l’inammissibilità della questione (ex plurimis, sentenze n. 220 del 2014; n. 220 del 2012; n. 186 e n. 117 del 2011; ordinanze n. 335, n. 260 e n. 21 del 2011);

          che deve essere parimenti dichiarata la manifesta inammissibilità della questione, formulata in via subordinata, relativa alla denunciata illegittimità dell’«articolo 362, comma 2 e 3, cpc», nella parte in cui non prevede la possibilità, per il giudice di ogni ordine e grado, di richiedere in via preventiva una pronuncia delle sezioni unite in funzione nomofilattica, analogamente a quanto previsto in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di giustizia europea, nonché nella parte in cui non prevede che i principi espressi dalle pronunce della Corte di cassazione a sezioni unite costituiscano precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli uffici giudiziari della Repubblica;

          che − al di là della carente descrizione della fattispecie, per l’omessa indicazione del contenuto degli atti impugnati e dei vizi dai quali sarebbero affetti − anche con riferimento a tale questione subordinata la motivazione dell’ordinanza di rimessione non chiarisce se, ed in quale misura, il giudice a quo ritenga di essere titolare di giurisdizione in ordine alle azioni proposte dalle parti ricorrenti, ossia in che modo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sul riparto di giurisdizione nell’impugnazione del fermo amministrativo debbano trovare applicazione nei casi sottoposti al suo esame;

          che, d’altra parte, anche a tacere del fatto che l’art. 362 cod. proc. civ. si compone di due soli commi, il Tribunale rimettente non indica il motivo per cui ritenga di non poter decidere il caso sottoposto al suo esame, senza il previo rinvio “pregiudiziale” alla Corte di cassazione a sezioni unite; la denunciata assenza di uno strumento processuale per interpellare direttamente la Corte di cassazione in funzione nomofilattica introduce una questione meramente ipotetica, che prescinde dal giudizio a quo, riguardando, invece, l’intero sistema del processo civile;

          che, inoltre, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 362, comma 2, cod. proc. civ. investe una disposizione, relativa alla proposizione dei ricorsi per cassazione, inconferente con i giudizi nei quali è stata formulata la questione, la quale risulta, pertanto, non rilevante nel caso concreto;

          che, in ogni caso, come già affermato nella precedente ordinanza n. 156 del 2013, con cui è stata dichiarata manifestamente inammissibile analoga questione di legittimità costituzionale, il rimettente − nel denunciare l’impossibilità di richiedere in via preventiva una pronuncia delle sezioni unite in funzione nomofilattica e la mancanza di vincolatività delle pronunce della Corte di cassazione – «ha richiesto alla Corte un intervento additivo “creativo”, peraltro manipolativo di sistema, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, che eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore (ex plurimis: ordinanze n. 255 e n. 252 del 2012, n. 243 e n. 182 del 2009)»;

          che, in definitiva, tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Tivoli devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.

          Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

          riuniti i giudizi,

1) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248; degli artt. 2 e 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), in combinato disposto con gli artt. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) − come sostituito dall’art. 16, comma 1, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) − e 91-bis del medesimo d.P.R. n. 602 del 1973 e con l’art. l, comma l, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione); nonché dell’art. 362, comma 2, del codice di procedura civile in riferimento agli artt. 11, 24, 111 e 117 della Costituzione, agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sollevata dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe;

2) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 362, comma 2, del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 11, 24, 111 e 117 della Costituzione, agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sollevata dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.

          Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° dicembre 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Giuliano AMATO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2015.