Sentenza n. 184 del 2014

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SENTENZA N. 184

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Gaetano                       SILVESTRI                                     Presidente

-           Sabino                         CASSESE                                          Giudice

-           Giuseppe                     TESAURO                                               ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                        ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, nel procedimento penale a carico di V.L., con ordinanza del 21 febbraio 2013, iscritta al n. 4 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2014.

 Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2014 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del 2014), il Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale a seguito della contestazione in dibattimento da parte del pubblico ministero di una circostanza aggravante non risultante dall’imputazione quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti d’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».

Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dall’art. 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel corso del quale – aperto il dibattimento ed ammesse le prove richieste dalle parti – il pubblico ministero, dopo l’esame dei suoi testimoni, aveva contestato le circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-sexies del citato art. 186.

Alla scadenza del termine richiesto dall’imputato ai sensi dell’art. 519 cod. proc. pen. – prosegue il Tribunale rimettente – le parti avevano presentato una richiesta congiunta di applicazione della pena per la fattispecie aggravata risultante dalla nuova contestazione.

La richiesta sarebbe inammissibile, perché è stata presentata dopo la scadenza del termine previsto dagli artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen.; essa però – osserva il giudice a quo – è stata «originata dalla contestazione da parte del pubblico ministero ai sensi dell’art. 517 c.p.p. delle circostanze aggravanti previste dai commi   2-bis e 2-sexies dell’art. 186 Cod. d. Strada […] suscettibili di un significativo mutamento sanzionatorio in danno dell’imputato». L’una comporta, infatti, il raddoppio della pena e rende inapplicabile la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità; l’altra determina «lo speciale e più severo giudizio di bilanciamento delle circostanze, derogatorio rispetto alla regola generale dell’art. 69 c.p.». La possibile richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, peraltro, era stata rappresentata dall’imputato fin dagli atti introduttivi del dibattimento, «attraverso la produzione della dichiarazione di disponibilità» del presidente di una onlus a far lavorare l’imputato nel caso di sostituzione della pena.

Ad avviso del Tribunale rimettente, sarebbe avvenuta una «contestazione dibattimentale “tardiva”, frutto di errore sulla compiuta individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il Pubblico Ministero, che ha determinato una patologica carenza dell’accusa, tale da convincere l’imputato ad affrontare all’origine il dibattimento e, solo all’esito del postumo recupero dell’errore originario, a chiedere l’ammissione al rito alternativo dell’applicazione della pena». La contestazione delle due circostanze aggravanti, infatti, non sarebbe stata determinata da nuovi elementi emersi in fase dibattimentale, «bensì da una miglior rilettura degli atti della parte pubblica, atteso che la notizia di reato certamente recava sin dall’origine tanto l’orario di consumazione del reato quanto le sue modalità, ovvero la connessione causale tra lo stato d’ebbrezza e la determinazione di un sinistro stradale, nulla di nuovo avendo sul punto aggiunto il verbalizzante» in sede di esame testimoniale. Questi elementi sarebbero emersi già dalla relazione di incidente stradale dell’Ufficio infortunistica della Polizia municipale presente nel fascicolo del pubblico ministero e dall’espressa indicazione dell’orario dell’incidente nel capo di imputazione.

Ciò premesso, il giudice a quo richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui «risulta lesiva del diritto di difesa oltre che del principio di uguaglianza qualsiasi preclusione processuale che impedisce all’imputato l’accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente laddove la contestazione concerna un fatto già risultante dagli atti di indagine preliminare al momento dell’esercizio dell’azione penale». La valutazione dell’imputato sulla convenienza di un rito speciale dipende, infatti, «dalla concreta impostazione data all’accusa, sì che ove questa sia affetta da errore sull’individuazione del fatto o del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, la sua variazione sostanziale deve consentire all’imputato il recupero di quelle facoltà di scelta definitoria del processo di cui è stato espropriato causa il decorso dei termini di proposizione della domanda».

Il caso di specie – prosegue il Tribunale rimettente – è connotato, rispetto alla nuova imputazione o al reato concorrente, cui si riferiscono le precedenti pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 333 del 2009, n. 530 del 1995 e n. 265 del 1994), «dall’inscindibilità ed unitarietà del fatto», quale risultato dell’originaria accusa e della nuova contestazione, che rende obbligata la contestazione tardiva da parte del pubblico ministero, «non essendo concepibile un separato ed autonomo giudizio futuro sulle sole circostanze aggravanti».

In tal modo, però, l’imputato è «privato del diritto di scegliere secondo convenienza il rito speciale dell’applicazione della pena che, secondo costante interpretazione, rappresenta una modalità di esercizio del suo diritto di difesa».

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., pertanto, sarebbe non manifestamente infondata con riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost., perché contrasterebbe con il diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena a fronte della contestazione tardiva, in qualche modo necessitata per il pubblico ministero, di circostanze aggravanti».

La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe una discriminazione dell’imputato «nell’accesso al rito speciale in ragione della maggiore o minore completezza ed esaustività dell’imputazione a fronte della diversa valutazione dei risultati delle indagini preliminari effettuata nel momento di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero».

La questione, infine, sarebbe rilevante nel giudizio a quo, perché, se si rimuovesse il limite temporale attualmente posto dagli artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen., non vi sarebbero altri ostacoli all’accoglimento della richiesta di applicazione della pena formulata dall’imputato, con il consenso del pubblico ministero, «immediatamente dopo la scadenza del termine per adeguare la propria difesa alle nuove contestazioni elevate dal pubblico ministero in corso di dibattimento».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del 2014), il Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale a seguito della contestazione in dibattimento da parte del pubblico ministero di una circostanza aggravante non risultante dall’imputazione quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti d’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».

Secondo il giudice rimettente, la norma in questione violerebbe l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto contrasterebbe con il diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena a fronte della contestazione tardiva», da parte del pubblico ministero, di circostanze aggravanti note già dalle indagini preliminari, la cui compiuta e doverosa enunciazione sin dalla formulazione dell’imputazione «avrebbe convinto l’imputato a rinunciare al dibattimento, cui è in seguito costretto, essendogli a tal punto impedita quella scelta del rito che è regola fondante del sistema processuale».

La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., perché nell’accesso al rito speciale l’imputato sarebbe discriminato «in ragione della maggiore o minore completezza ed esaustività dell’imputazione a fronte della diversa valutazione dei risultati delle indagini preliminari effettuata nel momento di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero».

2.– La questione è fondata.

2.1.– Il dubbio di legittimità costituzionale concerne la cosiddetta contestazione suppletiva «tardiva» di una circostanza aggravante.

Come questa Corte ha già rilevato (sentenze n. 237 del 2012 e n. 333 del 2009), la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali – tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), che del reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. o delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.: non rileva, ai presenti fini, la contestazione del fatto nuovo, prevista dall’art. 518 cod. proc. pen., che presuppone il consenso dell’imputato) – si presenta coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, la disciplina delle nuove contestazioni mira, infatti, a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale, quando alcuni profili di fatto risultino diversi o nuovi rispetto a quelli emersi dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini e valutati dal pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale.

Secondo la formulazione degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti debbono emergere «nel corso dell’istruzione dibattimentale», in connessione con la ricordata finalità dell’istituto. Risultano così evocati i soli mutamenti dell’imputazione imposti dall’evoluzione istruttoria, sì che l’istituto si caratterizza come speciale e derogatorio rispetto alle ordinarie cadenze processuali relative all’esercizio dell’azione penale e al suo controllo giudiziale.

Nonostante il dato letterale, la giurisprudenza di legittimità, con l’avallo delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 4 del 28 ottobre 1998), ritiene che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possano essere basate anche sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.

Per effetto di questa lettura estensiva, l’istituto delle nuove contestazioni si connota «non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione» (sentenza n. 333 del 2009).

A fronte di tale ragione giustificatrice, occorre, però, tenere conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa.

In proposito, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, il codice di rito aveva specificamente previsto che, «di fronte alla nuova contestazione dibattimentale, l’imputato – salvo si trattasse della contestazione suppletiva della recidiva – avesse diritto ad un termine a difesa non inferiore al termine a comparire indicato dall’art. 429 cod. proc. pen. e potesse, in ogni caso, chiedere l’ammissione di nuove prove (art. 519 cod. proc. pen.). Tale ultima facoltà risultava, peraltro, soggetta ad una condizione – quella dell’“assoluta necessità”, insita nell’originario richiamo all’art. 507 cod. proc. pen. – che venne ritenuta da questa Corte irragionevole e lesiva del diritto di difesa, nella misura in cui, ponendo “limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i nova”, non consentiva un recupero integrale dell’ordinario “diritto alla prova” (sentenza n. 241 del 1992)» (sentenza n. 237 del 2012).

Nella prospettiva del codice di procedura penale rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale (giudizio abbreviato e patteggiamento), riti che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, costituiscono anch’essi «modalità, tra le più qualificanti (sentenza 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis,  sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere, in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta.

L’imputato, infatti, in seguito alle nuove contestazioni effettuate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, poteva trovarsi a fronteggiare un’accusa rispetto alla quale sarebbe stato suo interesse chiedere i riti alternativi, ma tale opportunità gli era preclusa essendo ormai decorsi i termini per le relative richieste.

2.2.– Rispetto alle nuove contestazioni “fisiologiche”, a quelle cioè effettivamente determinate dalle acquisizioni dibattimentali, questa Corte, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, aveva escluso che la preclusione in discorso violasse gli artt. 3 e 24 Cost.: era stato, infatti, dato rilievo prevalente al principio di indissolubilità del binomio premialità-deflazione.

Esaminando la questione con riferimento ora al giudizio abbreviato, ora al patteggiamento, si era ritenuto che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi che discendono dai riti speciali ricevesse tutela «solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento», permetta di raggiungere «quell’obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l’introduzione del giudizio abbreviato e più in generale dei riti speciali» (sentenze n. 593 del 1990; n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).

Inoltre la Corte aveva osservato che la modificazione dell’imputazione e la contestazione suppletiva costituiscono eventualità non infrequenti, in un sistema imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, e non imprevedibili, sicché se ne doveva dedurre che il rischio della nuova contestazione dibattimentale rientrasse naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tali riti, «onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta» (sentenze n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; in prospettiva analoga, sentenza n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).

3.– Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, la Corte, però, nel caso di contestazioni dibattimentali “tardive”, è pervenuta, proprio rispetto al patteggiamento, a una diversa conclusione, perché in questo caso non può parlarsi «di una libera assunzione del rischio del dibattimento da parte dell’imputato», le cui determinazioni in ordine ai riti speciali sono state sviate «da aspetti di “anomalia” caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero». Le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali». Anche il principio di eguaglianza viene violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha dichiarato, quindi, costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentivano all’imputato di richiedere il “patteggiamento” relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

La sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato, invece, inammissibile l’analoga questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale – pure riscontrabile – spettasse in via esclusiva al legislatore.

Successivamente la struttura del giudizio abbreviato è radicalmente cambiata per effetto della legge 16 dicembre 1999, n. 479  (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), e la Corte, con la sentenza n. 333 del 2009, venuti meno i precedenti ostacoli, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. anche nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso o al reato concorrente «contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale».

Questa ulteriore pronuncia additiva era risultata necessaria, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., già rilevati dalla sentenza n. 265 del 1994, «anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato» (sentenza n. 333 del 2009), differenza che, nel mutato panorama normativo, «si rivela[va] essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.» (sentenza n. 237 del 2012).

4.– Prendendo spunto dalle affermazioni delle sentenze da ultimo citate, il Tribunale ordinario di Roma, come si è ricordato, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente il patteggiamento nel caso in cui il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante.

La questione può idealmente ricollegarsi alla sentenza n. 265 del 1994, ove però si avvertiva che la relativa dichiarazione di illegittimità costituzionale rimaneva «rigorosamente circoscritta alle specifiche situazioni dedotte dai giudici a quibus, che riguardano, come precisato, le contestazioni dibattimentali del fatto diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12, primo comma, lettera b, cod. proc. pen.)» e che, in particolare, era «ad essa estranea la diversa evenienza della contestazione delle circostanze aggravanti, non devoluta all’esame di questa Corte».

In realtà, però, la motivazione della sentenza può ugualmente riferirsi al caso di contestazione “tardiva” di una o più circostanze aggravanti, in quanto anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale. Le circostanze in questione possono incidere sull’entità della sanzione, anche in modo rilevante, laddove il legislatore contempla la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, o, talvolta, sullo stesso regime di procedibilità del reato o, ancora, sull’applicabilità di alcune sanzioni sostitutive (come nel caso oggetto del giudizio a quo).  

Né varrebbe osservare, in senso contrario, che l’aggravamento dell’originaria situazione sarebbe soltanto potenziale, giacché l’aumento della pena potrebbe essere annullato dallo stesso giudice facendo uso del potere di bilanciamento delle opposte circostanze, attribuitogli dall’art. 69 cod. pen. Questa obiezione presuppone, infatti, il verificarsi di due condizioni del tutto eventuali, vale a dire che il giudice ritenga sussistenti le condizioni per l’applicazione di almeno una circostanza attenuante e che la giudichi prevalente (la sola equivalenza sarebbe di pregiudizio per l’imputato, perché in conseguenza della contestazione dell’aggravante si vedrebbe privato degli effetti vantaggiosi dell’attenuante). È da aggiungere che il legislatore ha ampliato il catalogo delle circostanze aggravanti “privilegiate”, per le quali il giudizio di bilanciamento può essere impedito o limitato, in modo da escluderne la soccombenza nella comparazione con le attenuanti (sentenza n. 251 del 2012), e che alcune aggravanti possono incidere sulla procedibilità, anche a prescindere dal giudizio in questione.

Va poi sottolineato che l’imputato cui sia stata contestata, nel corso del dibattimento, una circostanza aggravante sulla base di elementi già acquisiti al momento dell’esercizio dell’azione penale, non si trova in una situazione diversa da chi analogamente si è sentito modificare l’imputazione con la contestazione di un fatto diverso, evenienza che in realtà potrebbe costituire per l’imputato anche un pregiudizio minore. Sotto questo aspetto, quindi, essendo divenuta ammissibile la richiesta di patteggiamento nel caso di modificazione dell’imputazione, a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., potrebbe dar luogo a una disparità di trattamento la sua esclusione nel caso della contestazione di una nuova circostanza aggravante, a norma dell’art. 517 cod. proc. pen.

In conclusione, poiché «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero», non vi è dubbio che, in seguito al suo errore e al conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, sì che «risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenza n. 265 del 1994).

Del resto va considerato che «il patteggiamento è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento» (sentenza n. 265 del 1994; ordinanza n. 486 del 2002). L’adozione del rito speciale risulta comunque idonea a produrre un effetto, sia pure attenuato, di economia processuale.

Ugualmente deve ritenersi violato l’art. 3 Cost., venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero alla chiusura delle indagini stesse (sentenza n. 265 del 1994).

Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2014.