Ordinanza n. 304 del 2012

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ORDINANZA N. 304

ANNO 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Alfonso                  QUARANTA                                      Presidente

-    Franco                    GALLO                                                 Giudice

-    Luigi                      MAZZELLA                                               ”

-    Gaetano                 SILVESTRI                                                ”

-    Sabino                    CASSESE                                                   ”

-    Giuseppe                TESAURO                                                  ”

-    Paolo Maria            NAPOLITANO                                          ”

-    Giuseppe                FRIGO                                                        ”

-    Alessandro           CRISCUOLO                                               ”

-    Paolo                      GROSSI                                                      ”

-    Giorgio                   LATTANZI                                                 ”

-    Aldo                       CAROSI                                                     ”

-    Marta                     CARTABIA                                                ”

-    Sergio                     MATTARELLA                                         ”

-    Mario Rosario        MORELLI                                                  ”

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 339, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Napoli, in composizione monocratica, nel procedimento vertente tra C. F. e G. S. ed altri con ordinanza del 30 gennaio 2012, iscritta al n. 164 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 novembre 2012 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello avverso una sentenza resa dal Giudice di pace di Napoli in una controversia civile di risarcimento danni derivanti da sinistro stradale, il Tribunale ordinario di Napoli, in composizione monocratica, con ordinanza emessa il 30 gennaio 2012, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo comma, 101, secondo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione («quest’ultimo in quanto in relazione di interposizione rispetto all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cui l’Italia aderisce, ed al diritto vivente derivatone») – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 339, terzo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80), «nella parte in cui non prevede che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113 co. 3 c.p.c. siano appellabili anche per i casi che, se ricorrenti per sentenze pronunciate in appello o in unico grado, renderebbero ammissibile la revocazione in base all’art. 395 c.p.c.»;

che (premesso di avere dichiarato, con sentenza non definitiva emanata in pari data nello stesso giudizio, che la sentenza di primo grado è stata «pronunciata in equità dal giudice di pace ex art. 113, co. 2 c.p.c.» e riportate le ragioni di tale decisione) il rimettente, in termini di rilevanza della questione, osserva che l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo discende (oltre che da tale accertamento) dal fatto che, nei motivi di appello, è espressa una doglianza «relativa a vizi della sentenza impugnata che, se fosse possibile l’appello a critica limitata ex art. 339 c.p.c. anche per motivi corrispondenti a quelli di cui al rimedio per revocazione ex art. 395 – e in particolare n. 4 – c.p.c., darebbero luogo […] ad accoglimento della doglianza»;

che in tal senso il rimettente, anche sulla scorta della giurisprudenza di legittimità in materia, intesa quale diritto vivente, esprime ed analizza le ragioni per le quali nella specie si configurerebbe il vizio revocatorio in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado nella lettura quantomeno di una deposizione testimoniale;

che, inoltre, il rimettente sottolinea che – mentre, prima della novella della norma censurata, avverso le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, allora inappellabili e quindi pronunciate in unico grado, era pienamente ammissibile la domanda di revocazione (ai sensi dell’art. 395 cod. proc. civ.) – ora «la sentenza equitativa del giudice di pace non è né una sentenza pronunciata in grado di appello né una sentenza pronunciata in unico grado», e quindi essa «non deve ritenersi impugnabile per revocazione, in particolare, per quanto qui interessa, ex art. 395 n. 4 c.p.c.»;

che, sul punto, il rimettente rileva come, data l’eccezionalità della disciplina del rimedio revocatorio, non sia praticabile una lettura estensiva dell’art. 395 cod. proc. civ., che parifichi la sentenza equitativa del giudice di pace, appellabile, a una sentenza emessa in unico grado, la qual cosa avrebbe come implicazione quella di ammettere un “concorso di impugnazioni” previo approntamento di norme volte a coordinare lo svolgimento dei procedimenti relativi; e ritiene altresì non condivisibile l’eccezione proposta dagli appellati, secondo i quali la parte appellante avrebbe semmai dovuto proporre istanza in revocazione, pur inammissibile, sollevando in tale sede l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 395 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede la revocazione avverso le sentenze equitative del giudice di pace, poiché, a giudizio del Tribunale, è «coessenziale al sistema che la revocazione e l’appello siano mezzi di impugnazione tra loro coordinati nel senso dell’esserne esclusa la contemporanea proponibilità»);

che, secondo il rimettente, dunque – dandosi per appurata la non esperibilità della revocazione ordinaria contro le sentenze equitative del giudice di pace rese secondo equità – i dubbi di incostituzionalità sembrano derivare solo dalla limitazione dei motivi di appello introdotta, dalla riforma del 2006, nell’art. 339, terzo comma, cod. proc. civ., il quale, inserendosi nel sistema preesistente, non darebbe rimedi né con la revocazione (inammissibile trattandosi di sentenza appellabile), né con l’appello (previsto a motivi limitati non comprendenti i vizi revocatori);

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che la mancata previsione, nella norma censurata, tra i motivi limitati ammissibili a sostegno dell’appello avverso sentenze in equità del giudice di pace (anche) dei motivi di cui all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., contrasti: a) con i canoni di ragionevolezza e di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., in quanto priva alcuni utenti della giustizia di uno strumento residuale concesso a quelli cui la causa sia stata decisa in diritto, senza che ciò possa dirsi giustificato dalla ratio legis – correlata «all’esigenza di differenziare le impugnazioni, evitando che 1’appello avverso la sentenza equitativa del giudice di pace sia una nuova sede di valutazione di parametri equitativi oramai definitivamente forgiati dal primo giudice sul caso concreto, facendone una sede di revisione da parte del giudice superiore delle sole ingiustizie della sentenza che siano frutto di violazioni di norme processuali o, per quelle sostanziali, apicali del sistema» – la quale deporrebbe «a favore, piuttosto che contro, rispetto alla parificazione a detti motivi limitati di appello di quelli di cui all’art. 395 c.p. c. (e, per quanto qui occorre, del suo n. 4)», trovandosi altrimenti «di fronte ad un difetto di correlazione logico-giuridica tra l’ultimo intervento normativo (che rendeva appellabile limitatamente la sentenza equitativa) e l’impianto preesistente (che vieta la revocazione delle sentenze appellabili), non superabile interpretativamente, e senza alcun coordinamento tra le norme interessate (art. 339 e 395 c.p.c.)»; b) con gli artt. 24, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost. («quest’ultimo in quanto in relazione di interposizione rispetto all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cui l’Italia aderisce, ed al diritto vivente derivatone»), in quanto «la possibilità che sia dato ad un giudice di pronunciare – pur equitativamente – senza una possibilità di eliminazione dal mondo giuridico della decisione dello stesso, se disancorata dai fatti obiettivamente sussistenti, dalla genuinità e lealtà delle prove e dalla stessa immunità della decisione dal dolo delle parti o del giudice, si risolverebbe, infatti, nella sostanziale negazione della garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti e del giusto processo»; c) con l’art. 101, secondo comma, Cost., secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, poiché «l’attuale impianto processuale imperniato sull’applicazione dell’art. 339 c.p.c. nel testo in essere consentirebbe al giudice di pace di pronunciare in equità restando esentato, nell’esercizio dell’equità stessa, in sostanza, dal rispetto di fondamentali canoni normativi (talvolta correlati anche a norme penali) quali l’immunità del “decisum” da dolo e falsità di prove, oltre che di errori e altri consimili vizi, condensati nell’art. 395 c.p.c., i quali semmai rileverebbero nella sola sede penale o del successivo risarcimento dei danni»;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità e/o di infondatezza della sollevata questione;

che, innanzitutto, la difesa dello Stato ne eccepisce il difetto di rilevanza (ovvero la carente motivazione al riguardo) in ragione del fatto che – pur muovendo la prospettazione (secondo cui, a causa della limitazione dei motivi di appello proponibili avverso una sentenza di equità ex art.113, terzo comma, cod. proc. civ., tale sentenza non potrebbe essere impugnata, né con l’appello né con la revocazione, in presenza di un vizio contemplato dall’art. 395, primo comma, numero 4, cod. proc. civ.) dal presupposto della sussistenza di una censura dell’appellante, che il rimettente reputa inammissibile, sia come motivo di appello (perché estranea ai motivi di cui all’art. 339, terzo comma cod. proc. civ.), sia come motivo di revocazione ex art. 395, numero 4, cod. proc. civ. (trattandosi di sentenza soggetta ad appello limitato) – il rimettente medesimo non analizza l’ammissibilità della censura proposta nel giudizio a quo come motivo di appello sotto il profilo della violazione dei princìpi regolatori della materia;

che, inoltre, l’Avvocatura osserva che, nella fattispecie, la censura mossa alla sentenza del giudice di pace non riguarda l’errore di fatto previsto dall’art. 395, numero 4, cod. proc. civ., inteso come una falsa percezione della realtà su un fatto decisivo incontestabilmente risultante dagli atti o documenti, ma la formulazione di un giudizio sul piano logico giuridico derivante da una erronea valutazione delle risultanze testimoniali, che va al di là di una falsa percezione della realtà;

che, infine, nel merito l’Avvocatura dello Stato rileva, da un lato, che l’art. 339, terzo comma, cod. proc. civ. in realtà consente di ammettere la doglianza in questione come motivo di appello per violazione dei princìpi regolatori della materia, poiché (secondo gli appellanti) la sentenza impugnata si basa su fatti non accertati in giudizio (in quanto erroneamente attribuiti ai testi escussi) e quindi contiene una decisione arbitraria che viola uno dei fondamentali princìpi del diritto processuale secondo il quale non sono ammesse decisioni basate su di una arbitraria ricostruzione dei fatti; dall’altro lato, che non appaiono condivisibili le argomentazioni che portano il Tribunale di Napoli ad escludere la proponibilità del vizio revocatorio avverso una sentenza soggetta ad appello limitato, giacché – lungi dall’applicare analogicamente una norma eccezionale – si tratta solo di individuare la ratio dell’art. 395 cod. proc. civ. che si fonda sul principio di sussidiarietà secondo il quale il rimedio revocatorio è escluso quando il relativo vizio può essere dedotto come motivo di appello, mentre il vizio medesimo ben potrà essere dedotto come motivo di revocazione qualora non lo si ritenesse ammissibile come censura d’appello.

Considerato che il giudice a quo censura il terzo comma dell’articolo 339 del codice di procedura civile, che, nel testo vigente, sostituito dall’art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80), dispone che «Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia»;

che – muovendo dal presupposto della esistenza di un vizio revocatorio ex art. 395, numero 4, cod. proc. civ., dedotto dall’appellante, in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado – il rimettente (chiamato a decidere in sede di gravame avverso una decisione del giudice di pace, che egli stesso, con sentenza non definitiva, ha dichiarato essere stata pronunciata secondo equità) ritiene che, a causa della limitazione dei motivi di appello proponibili avverso tale sentenza, questa non possa essere impugnata per far valere il vizio medesimo, né con l’appello (a motivi limitati) né con la revocazione (consentita solo riguardo alle pronunce indicate al primo comma dell’art. 395 cod. proc. civ.); e che pertanto la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, primo comma, 24, primo comma, 101, secondo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione («quest’ultimo in quanto in relazione di interposizione rispetto all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cui l’Italia aderisce, ed al diritto vivente derivatone»), «nella parte in cui non prevede che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113 co. 3 c.p.c. siano appellabili anche per i casi che, se ricorrenti per sentenze pronunciate in appello o in unico grado, renderebbero ammissibile la revocazione in base all’art. 395 c.p.c.»;

che l’intervenuta Avvocatura generale dello Stato ha preliminarmente eccepito il difetto di rilevanza (ovvero la carente motivazione sulla rilevanza) della questione, per non avere il rimettente analizzato la possibilità di ritenere ammissibile la doglianza proposta nel giudizio a quo come motivo di appello sotto il profilo della violazione dei princìpi regolatori della materia;

che siffatta eccezione risulta fondata;

che, in termini generali, va rilevato che (come sottolineato dallo stesso rimettente) la norma censurata, in comune anche alle altre disposizioni del citato decreto legislativo n. 40 del 2006, in coerenza ai criteri dettati nella delega di cui all’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), ha come obiettivo espresso largamente condiviso ed auspicato dalla stessa Corte di cassazione, quello di recuperarne la dimensione nomofilattica della propria attività, allora «schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo», la cui rivitalizzazione richiedeva appunto una riduzione del novero delle sentenze non appellabili, quindi immediatamente ricorribili per cassazione (sentenza n. 98 del 2008);

che, in relazione a ciò, questa Corte ha sottolineato che «lo scopo di disciplinare il processo di legittimità in funzione nomofilattica, alla luce del significato assunto da tale espressione, di rafforzamento di detta funzione, costituisce […] una direttiva ermeneutica che deve presiedere all’interpretazione del contenuto della delega e che rende chiara la facoltà del legislatore delegato di ridurre i casi di immediata ricorribilità per cassazione delle sentenze, mediante l’introduzione dell’appello quale “filtro”» (sentenza n. 98 del 2008);

che, pertanto, in un tale contesto normativo, tendenzialmente teso a depurare il sistema dalle ipotesi di ricorso immediato in Cassazione (quali quelle avverso le sentenze del giudice di pace pronunziate secondo equità, come previsto dal previgente disposto del terzo comma dell’art. 339 cod. proc. civ.), la prevista appellabilità, seppur limitata a taluni motivi, di tali pronunce costituisce il mezzo attraverso il quale il legislatore ha attribuito al giudice dell’appello la soluzione dei vizi (attinenti alla violazione delle norme sul procedimento, di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei princìpi regolatori della materia) della sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità;

che, ciò premesso, va rilevato che, in punto di rilevanza della questione (se da un lato l’ordinanza di rimessione si dilunga assai dettagliatamente nell’analisi, sia della asserita natura di vizio revocatorio dell’errore percettivo in cui sarebbe incorso il giudice di pace nell’esame delle prove testimoniali, sia della dedotta portata decisiva di tale errore nel giudizio di primo grado ed in quello di appello, ove rappresentabile come motivo di impugnazione), il giudice a quo, quanto poi alla concreta incidenza della eventuale pronuncia di incostituzionalità della norma censurata nella definizione del giudizio principale, dà per scontato che – se «in un appello senza la limitazione dell’art. 339 c.p.c., le doglianze in parola sarebbero state certamente esaminabili», ponendosi in un contesto di «logica di libera esaminabilità nell’appello tradizionale a motivi aperti (anche) di motivi corrispondenti a quelli a base del rimedio revocatorio» – viceversa oggi tali profili «non sono esaminabili […], nell’ambito dell’appello a motivi limitati introdotto, in detta disposizione, dal d.lgs. n. 40 del 2006», «atteso che i vizi [corrispondenti a quelli che danno accesso alla revocazione] non rientrano in uno dei motivi di appello ammissibili (violazione di norme costituzionali, comunitarie o procedimentali)»;

che siffatta argomentazione pecca di apoditticità, giacché la non altrimenti motivata esclusione della qualificabilità del vizio dedotto in appello come violazione di norme sul procedimento ovvero di norme costituzionali o comunitarie, o di princìpi regolatori della materia, non appare idonea a sottrarre il rimettente dal dovere di sperimentare la possibilità (anche, e soprattutto, alla luce della sopra evidenziata ratio che permea la riforma del 2006 e della conseguente “direttiva ermeneutica” che da essa scaturisce, nonché dalla considerazione che il giudizio di equità non è e non può essere un giudizio extra-giuridico, ma deve trovare i suoi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa garanzia di tutela giurisdizionale, come affermato dalla sentenza n. 206 del 2004) di dare alla norma impugnata un significato diverso, tale da renderla compatibile con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012), in ossequio al principio secondo cui una disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione (ordinanza n. 212 del 2011);

che, invero, in ragione dello specifico contenuto del formulato petitum (diretto, in ultima analisi, ad estendere il numero dei motivi di appellabilità limitata delle sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace, aggiungendo espressamente a quelli già previsti anche quei casi che altrimenti renderebbero ammissibile la revocazione in base all’art. 395 cod. proc. civ.), il rimettente avrebbe dovuto farsi carico di tentare (non già di ottenere, in modo improprio, un avallo interpretativo da parte di questa Corte, bensì) di individuare una diversa possibile interpretazione della norma censurata idonea a superare i dubbi di costituzionalità;

che, al contrario, il rimettente ha omesso di verificare in positivo se il vizio della sentenza di primo grado (che egli ritiene configurare un errore di fatto revocatorio) possa essere esaminato (anche eventualmente attraverso un adattamento dei motivi di ricorso) nell’ámbito dei motivi che consentono l’appello delle sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, che, pur limitato al controllo di vizi specifici, è comunque caratterizzato dalla sua essenza di mezzo a critica libera derivante dall’effetto devolutivo pieno della materia esaminata in primo grado;

che, in particolare, il rimettente non spiega perché i vizi contemplati dall’art. 395 cod. proc. civ. – una volta considerati nel loro contenuto, siccome tutti afferenti a vizi dell’attività del giudice e, perciò, a norme del processo che questo ha seguito – non possano essere considerati riconducibili alla nozione di vizi del procedimento, allorquando siano deducibili contro la sentenza equitativa del giudice di pace;

che la carente utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente e la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato (che ridonda anche in termini di insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza della questione: ordinanze n. 240 e n. 126 del 2012), integrano omissioni tali da rendere manifestamente inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale (ordinanze 102 del 2012 e n. 212 del 2011);

che ulteriore profilo di inammissibilità deriva dal fatto che l’intervento richiesto a questa Corte sarebbe caratterizzato da un corposo tasso di manipolatività e creatività (sentenza n. 36 del 2012 e ordinanza n. 240 del 2012), tanto più in un contesto, quale quello della conformazione degli istituti processuali, riservato alla ampia discrezionalità del legislatore col solo limite della manifesta irragionevolezza (ordinanze n. 194 e n. 240 del 2012);

che, infatti, il rimettente invoca (come detto) una pronuncia che, incidendo sulla portata applicativa della norma censurata, introduca (oltre quelle previste dalla norma medesima: violazione delle norme sul procedimento, di norma costituzionali o comunitarie ovvero dei princìpi regolatori della materia) un’ulteriore ipotesi di appellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità «anche per i casi che, se ricorrenti per sentenze pronunciate in appello o in unico grado, renderebbero ammissibile la revocazione in base all’art. 395 c.p.c.»;

che tuttavia – anche a prescindere dalla eterogeneità dei vizi elencati come motivi di revocazione ai numeri da 1 a 6 dell’art. 395 cod. proc. civ. e dalla diversa operatività (quanto a presupposti, conoscibilità, condizioni e termini) dei casi di revocazione ordinaria (ex art. 395, numeri 4 e 5, cod. proc. civ.) e di quelli di revocazione straordinaria (numeri 1, 2, 3 e 6 del medesimo articolo) – va sottolineato che (se anche si ritenesse che, con la richiesta additiva, il rimettente abbia voluto riferirsi, data la fattispecie sottoposta al suo esame, al solo caso di errore revocatorio previsto dall’art. 395, primo comma, numero 4, cod. pro civ.) il petitum non si configura affatto come soluzione costituzionalmente imposta, quantomeno in considerazione del fatto che (stante la variegata configurabilità delle ipotesi che in astratto ed in concreto possono manifestare la sussistenza dell’errore percettivo) l’eventuale riconduzione del sistema a costituzionalità non necessariamente dovrebbe tradursi in una pronuncia che semplicemente (rispetto alle sentenze secondo equità del giudice di pace) trasformi (tutti) gli eventuali motivi di revocazione in altrettanti motivi limitati di appello;

che un intervento di così ampia portata, capace di coinvolgere simultaneamente la disciplina dell’appello e dei casi di revocazione, con la necessità di rivederne istituti e nozioni ovvero anche di regolarne il coordinamento, è riservato al legislatore, al quale soltanto compete di definire un equilibrio diverso da quello attuale tra rimedi interni alle singole fasi o gradi del giudizio, nonché tra mezzi di impugnazione ordinari e straordinari (ordinanza n. 305 del 2001);

che, di conseguenza, la sollevata questione è manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 339, terzo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80), sollevata – in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo comma, 101, secondo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione («quest’ultimo in quanto in relazione di interposizione rispetto all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cui l’Italia aderisce, ed al diritto vivente derivatone») – dal Tribunale ordinario di Napoli, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 dicembre 2012.