SENTENZA N. 40
ANNO 2012
Commenti alla decisione di
I. Alessandro Pace, Sull’asserita
applicabilità all’imputato dell’obbligo di astenersi dal deporre su fatti
coperti dal segreto di Stato e sull’inesistenza dei "fatti eversivi” come
autonoma fattispecie di reato, nella Sezione "Studi” di (per gentile concessione della Rivista
Giurisprudenza Costituzionale)
II. Adele Anzon Demmig, La Corte abbandona definitivamente
all’esclusivo dominio dell’autorità politica la gestione del segreto di Stato
nel processo penale, nella Sezione "Studi” di (per gentile concessione della Rivista
Giurisprudenza Costituzionale)
III.
Gianpiero Sica, Il
segreto di Stato e l’imputato nel processo penale commento alla sentenza della
Corte costituzionale n. 40 del 2012 (per gentile concessione della Rivista
telematica Federalismi.it)
IV. Renzo Orlandi, Una
pervicace difesa del segreto di Stato, nella
Sezione "Studi” di , per gentile concessione della Rivista
Giurisprudenza Costituzionale
V. Tommaso F. Giupponi, "A
ciascuno il suo”. L'attività dei servizi di informazione e la disciplina del
segreto di Stato di nuovo davanti alla Corte, per gentile concessione del Forum di Quaderni costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato sorto a seguito delle note del Presidente del Consiglio dei ministri del
3 dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n.
52285/181.6/2/07.IX.I, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Perugia con ricorso notificato il 14-19 gennaio 2011, depositato
in cancelleria il 2 febbraio 2011 ed iscritto al n. 7 del registro conflitti
tra poteri dello Stato 2010, fase di merito.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Tesauro, sostituito per la redazione della sentenza dal
Giudice Giuseppe Frigo;
uditi l’avvocato Federico Sorrentino per il Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Perugia e gli avvocati dello Stato Aldo Linguiti e Massimo Giannuzzi per
il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso (qualificato
come «ordinanza/ricorso») depositato il 15 giugno 2010, il Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Perugia – nell’ambito di un processo penale
affidatogli – ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei
confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alle note del
3 dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n.
52285/181.6/2/07.IX.I, aventi ad oggetto la conferma del segreto di Stato
opposto in sede di conclusione delle indagini da due persone, poi imputate in
detto processo.
1.1.– Riferisce il
ricorrente di doversi pronunciare sulla richiesta di rinvio a giudizio
formulata dal pubblico ministero nei confronti del generale Nicolò Pollari, già
direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI) dal
15 ottobre 2001, e di Pio Pompa, consulente dal novembre 2001 e quindi
dipendente del medesimo Servizio dal dicembre 2004 al dicembre 2006, quale
direttore di sezione addetto all’ufficio del direttore.
Agli imputati è
contestato, in primo luogo, il delitto di peculato aggravato continuato in
concorso (artt. 314, 81, secondo comma, 61, numero 2, e 110 del codice penale).
Secondo l’ipotesi accusatoria, tra il 2001 e il luglio 2006, il Pompa – su
richiesta o, comunque, con l’approvazione del Pollari, suo superiore gerarchico
– avrebbe svolto attività dirette alla raccolta e all’elaborazione di
informazioni sulle opinioni politiche, i contatti e le iniziative di
magistrati, funzionari dello Stato, giornalisti e parlamentari, nonché sulle
attività di associazioni di magistrati, anche europei, e di movimenti
sindacali, ritenuti «di parte politica avversa», al fine di commettere o di far
commettere a terzi diffamazioni, calunnie e abusi di ufficio in loro danno. Con
ciò, gli imputati si sarebbero appropriati di somme e di risorse umane e
materiali del SISMI, utilizzandoli per scopi palesemente estranei a quelli
istituzionali del Servizio, oltre che in violazione delle disposizioni in
materia di trattamento dei dati personali, di cui all’art.
Agli imputati è
contestato, inoltre, il delitto di violazione di corrispondenza aggravata
continuata in concorso (artt. 616, primo comma, 81, secondo comma, 61, numero
9, e 110 cod. pen.), per avere, con abuso delle
rispettive funzioni pubbliche, preso cognizione della «corrispondenza
elettronica» circolante all’interno della lista chiusa dei destinatari delle
comunicazioni dell’associazione MEDEL (Magistrats européens pour la démocratie et les libertés), ledendo, con ciò, la riservatezza del
dibattito interno all’associazione (fatto accertato il 5 luglio 2006).
Al solo Pompa è
addebitato, infine, il delitto di possesso ingiustificato di mezzi di
spionaggio (art. 260, primo comma, numero 3, cod. pen.),
per essere stato colto, il 26 giugno
Ricevuta la notifica
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari – prosegue il ricorrente
– tanto il Pollari che il Pompa avevano chiesto al pubblico ministero di essere
sottoposti a interrogatorio, ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale e in occasione di tale
atto avevano poi rappresentato con memorie come, per difendersi compiutamente
dalle accuse loro mosse, essi avrebbero dovuto rivelare notizie coperte da
segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna
corporis» del SISMI: quali, in specie, le direttive
e gli ordini impartiti dalle competenti Autorità di Governo e dal direttore del
Servizio agli appartenenti all’organismo, la posizione del Pompa all’interno di
questo, i suoi rapporti con gli altri operatori del Servizio, le risorse
utilizzate per la sua attività, l’attinenza o meno della documentazione
richiamata nei capi d’accusa alla sicurezza dello Stato e la sua rilevanza per
l’attività istituzionale del SISMI. Di conseguenza, gli indagati opponevano il
segreto di Stato su tutti i fatti descritti nei capi di imputazione.
A fronte di ciò, il
pubblico ministero, con note del 27 ottobre e del 16 novembre 2009, chiedeva al
Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 41 della legge 3
agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica
e nuova disciplina del segreto), di confermare l’esistenza del segreto di Stato
riguardo a quattro circostanze, la cui conoscenza era ritenuta essenziale per
la definizione del procedimento, e cioè: a) se il SISMI, durante il periodo in
cui era stato diretto dal generale Pollari, avesse «finanziato in qualsiasi
modo e forma, sia direttamente che indirettamente, la sede di Roma, via
Nazionale, gestita da Pio Pompa»; b) se avesse «retribuito economicamente, in
qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente, il citato Pio Pompa o
Jennj Tontodimamma»; c) se avesse «impartito ordini e
direttive ai […] menzionati Pompa e Tontodimamma»; d)
se, infine, avesse «impartito ordini e direttive ai […] menzionati Pompa e Tontodimamma di raccolta di informazioni su magistrati
italiani o stranieri».
Con note del 3 e del
22 dicembre 2009, oggetto dell’odierna impugnativa, il Presidente del Consiglio
dei ministri, in riferimento ai primi due punti della richiesta, dichiarava di
confermare il segreto di Stato tanto in ordine a «modi e forme dirette e
indirette di finanziamento per la gestione da parte di Pio Pompa della sede del
SISMI di via Nazionale, allorché il Servizio era diretto da Nicolò Pollari»;
quanto in relazione a «modi e forme di retribuzione, diretta o indiretta, di
Pio Pompa e Jennj Tontodimamma, collaboratori prima e
dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò Pollari». Richiamando la sentenza n. 106 del
2009 di questa Corte, il Presidente del Consiglio rilevava come la conferma
del segreto si imponesse per l’«esigenza di tutela degli interna corporis dell’allora SISMI con
riferimento al disvelamento di dinamiche interne all’attività del Servizio».
Il Presidente del
Consiglio confermava l’esistenza del segreto anche sulle altre due circostanze
oggetto della richiesta, osservando che – alla luce di quanto precisato nella
citata sentenza
n. 106 del 2009 – «anche le direttive e gli ordini impartiti all’interno
del servizio possono costituire interna corporis da tutelare, se dalla loro divulgazione
vengono in evidenza, come nel caso in esame, profili attinenti alle modalità
organizzative e a quelle tecnico-operative che è opportuno non disvelare»;
profili che la vigente normativa sul segreto di Stato, e in particolare il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 aprile 2008 (Criteri per
l’individuazione delle notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti,
delle attività, delle cose e dei luoghi suscettibili di essere oggetto di
segreto di Stato), considererebbero, d’altra parte, «tutelabili al massimo
livello».
Il Presidente del
Consiglio dichiarava, quindi, conclusivamente, di dover confermare il segreto
di Stato su tutte le circostanze dianzi indicate «allo scopo di evitare danni
gravi agli interessi individuati dal comma 1 dell’art. 39 della legge n. 124
[del] 2007».
Il successivo 29
dicembre 2009, il pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio del Pollari
e del Pompa, ritenendo che gli elementi raccolti nel corso delle indagini
preliminari – costituiti da dati non coperti da segreto di Stato, acquisiti
essenzialmente a seguito della perquisizione e del conseguente sequestro operati
il 5 luglio 2006 presso la sede del SISMI di via Nazionale in Roma – fossero
comunque idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Nell’udienza
preliminare, il pubblico ministero sosteneva – con l’adesione dei difensori
delle parti civili – che l’opposizione e la conferma del segreto di Stato non
potessero assumere rilievo nell’attuale fase processuale, ma, semmai, solo
nella successiva fase dibattimentale: ciò, in quanto gli imputati non avevano
contestato la legittimità dell’ingresso nel fascicolo processuale di elementi
già acquisiti, ma si erano limitati a dedurre l’impossibilità di produrre atti
– peraltro, non indicati – in tesi necessari per la loro difesa, perché
costituenti oggetto di segreto di Stato.
La validità
dell’assunto era contestata dai difensori degli imputati, secondo i quali
l’avvenuta conferma del segreto – concernente notizie essenziali per
l’accertamento dei fatti e per l’esercizio della difesa – avrebbe imposto, al
contrario, l’immediata declaratoria di non doversi procedere nei confronti
degli imputati per l’esistenza del segreto di Stato, secondo quanto previsto
dall’art. 41, comma 3, della legge n. 124 del 2007.
1.2.– Disattendendo
la tesi del pubblico ministero e delle parti civili, il giudice ricorrente
ritiene che la questione relativa alla sussistenza del segreto di Stato rilevi,
in effetti, già nella fase processuale in corso, finalizzata ad una prima
verifica della fondatezza delle accuse e dell’eventuale esistenza di cause di
non punibilità o di situazioni ostative al seguito dell’azione penale. Nella
specie, verrebbe segnatamente in considerazione l’impedimento all’esercizio del
diritto di difesa degli imputati, derivante dall’impossibilità di contrastare
le accuse loro mosse adducendo cause di giustificazione basate su atti coperti,
in assunto, da segreto di Stato.
Al fine di rendere
rilevante tale impedimento, non sarebbe, d’altro canto, necessario sollevare
questione di legittimità costituzionale dell’art. 41 (e, eventualmente, degli
artt. 39 e 40) della legge n. 124 del 2007, così come sostenuto dal pubblico
ministero e dalle parti civili. Nella sentenza n. 106 del
2009, questa Corte avrebbe, infatti, già implicitamente riconosciuto la
conformità a Costituzione delle anzidette norme, omettendo di sollevare avanti
a sé tale questione di legittimità costituzionale in un caso nel quale uno
degli imputati aveva parimenti opposto il segreto di Stato, quale ostacolo al
compiuto esercizio delle sue facoltà difensive.
1.3.– Tanto premesso,
il ricorrente pone in dubbio, tuttavia, la legittimità degli atti di conferma
del segreto, reputandoli lesivi delle proprie attribuzioni riconosciute dalla
Costituzione.
In via preliminare,
il ricorrente osserva come la legittimità degli atti impugnati debba essere
appropriatamente verificata sulla base delle previsioni della legge n. 124 del
2007, vigente nel momento in cui il segreto di Stato è stato opposto e
confermato, e non già di quelle della legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione
e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del
segreto di Stato), in vigore all’epoca di commissione dei fatti di reato
contestati agli imputati. Al di là della «portata definitoria» di talune
disposizioni, la disciplina del segreto di Stato avrebbe, infatti, carattere
processuale, rimanendo, perciò, soggetta al principio tempus regit actum, il quale comporta che, nel
caso di successione di leggi nel tempo, la nuova disciplina si applichi anche
ai procedimenti in corso, quanto alle attività non completamente «esaurite»
nella vigenza della precedente normativa.
Del resto, la legge
del 2007, benché foriera nel suo complesso di rilevanti innovazioni, parrebbe
in una linea di sostanziale continuità con la disciplina previgente, quanto
alla delimitazione dell’area degli interessi tutelabili a mezzo del segreto di
Stato. L’art. 39, comma 1, di detta legge – richiamato negli atti impugnati –
stabilisce, infatti, sulla falsariga dell’art. 12 della legge n. 801 del 1977,
che «sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le
attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno
all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali,
alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento,
all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con
essi, alla preparazione e difesa militare dello Stato». La disposizione
recepirebbe, d’altra parte, le indicazioni di questa Corte, che – già prima
della sentenza
n. 106 del 2009 – aveva posto in evidenza come la disciplina del segreto di
Stato involgesse il supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua
personalità internazionale – riconosciuto dall’art.
Ad avviso del ricorrente,
l’oggetto del processo penale in corso non evocherebbe sotto alcun profilo i
supremi interessi dianzi richiamati. Risulterebbe, al contrario, evidente –
alla luce del complesso delle acquisizioni di indagine, recepite nei capi di
imputazione – come tutta l’attività che, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe
stata indebitamente finanziata dal SISMI con risorse pubbliche si ponga al di
fuori degli scopi istituzionali del Servizio.
A fronte di ciò,
resterebbe inconferente il richiamo, parimenti operato dagli atti impugnati, al
d.P.C.m. 8 aprile 2008, che, a integrazione del
citato art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007, stabilisce i criteri per
l’individuazione delle notizie suscettibili di tutela a mezzo del segreto di
Stato, recando, in allegato, un elenco esemplificativo di materie cui le
notizie stesse possono attenere (art. 5 del decreto). Se è ben vero, infatti,
che nell’ambito di tale elenco si rinvengono dei riferimenti (peraltro, gli
unici) agli «interna corporis»
dei servizi informativi (punti 6, 7 e 8), in nessuna parte di esso risulta,
tuttavia, prevista la possibilità di opporre il segreto di Stato in relazione
alla concessione di finanziamenti o all’emanazione di ordini e direttive per lo
svolgimento di attività estranee alle finalità istituzionali del Servizio.
La circostanza
risulterebbe tanto più significativa alla luce della disposizione dell’art. 26,
comma 1, della stessa legge n. 124 del
Rimarchevole sarebbe,
altresì, il fatto che l’art. 17 della legge n. 124 del 2007, nell’introdurre
una speciale causa di giustificazione a favore del personale dei servizi che
ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, ne subordini
espressamente l’operatività alla condizione che si tratti di condotte
indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi stessi, oltre che al
rigoroso rispetto dei limiti stabiliti (commi 1 e 6, lettera a).
1.4.– Sotto diverso
profilo, e con particolare riguardo al primo dei reati contestati agli imputati
(quello di peculato), occorrerebbe anche tenere conto – secondo il ricorrente –
della rilevanza costituzionale propria della materia della spesa pubblica, alla
luce dei precetti espressi dagli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost.: precetti dai
quali si desumerebbe l’esistenza di un generale obbligo dei soggetti pubblici
di giustificare l’impiego delle risorse di cui dispongono, in conformità alle
rispettive finalità istituzionali, e, al tempo stesso, l’esigenza che la
gestione di dette risorse sia sempre soggetta a controllo, anche
giurisdizionale.
A tali principi non
si sottrarrebbe il settore dei servizi di informazione, relativamente ai quali
l’art. 29 della legge n. 124 del 2007 dispone l’istituzione di una apposita
unità previsionale di base nello stato di previsione della spesa del Ministero
dell’economia e delle finanze, stabilendo, altresì, che il relativo regolamento
di contabilità venga adottato anche in deroga alle norme di contabilità
generale dello Stato, ma comunque nel rispetto dei principi fondamentali da
esse enunciati, nonché di ulteriori specifiche disposizioni, che prefigurano
forme di controllo preventivo e di rendiconto (comma 3, lettere d ed e).
1.5.– Alla stregua
delle considerazioni esposte, sarebbe, dunque, contraddittorio riconoscere che
determinate condotte, tenute dal personale dei servizi al di fuori delle
proprie attribuzioni istituzionali, siano sanzionate penalmente, e, nello
stesso tempo, ammettere che il loro accertamento da parte dell’autorità
giudiziaria possa venire inibito mediante l’opposizione indiscriminata del
segreto di Stato sugli «interna corporis». Del pari sarebbe contraddittorio richiedere
anche ai servizi di informazione il rispetto dei principi costituzionali in
tema di impiego delle risorse pubbliche e, contemporaneamente, consentire che
venga precluso l’accesso a qualunque notizia relativa alla concreta
destinazione di tali risorse.
Non gioverebbe, in
senso contrario, il richiamo operato dalle note impugnate alla sentenza n. 106 del
2009 di questa Corte, nella quale pure si riconosce che gli «interna corporis»
del SISMI sono tutelabili mediante l’opposizione del segreto di Stato, al fine
di proteggere il Servizio stesso e le sue modalità operative e organizzative da
ogni indebita pubblicità. Tale principio sarebbe stato enunciato, infatti, con
riguardo a una situazione fattuale sostanzialmente diversa da quella odierna,
nella quale venivano in rilievo i rapporti tra l’intelligence italiana e quella di altri Stati e la connessa
esigenza di preservare la «credibilità» internazionale della prima.
Rispetto all’ipotesi
di peculato di cui al presente si discute, la conferma del segreto di Stato
opposto dagli imputati verrebbe, per converso, a precludere al giudice penale –
prima ancora dell’accertamento dell’esistenza di eventuali cause di
giustificazione – la verifica del fatto in tutti i suoi elementi costitutivi,
fornendo agli imputati stessi «una sorta di esimente "in bianco”, da spendere a
piacimento», senza alcuna possibilità di riscontro da parte dell’autorità
giudiziaria.
1.6.– Sotto questo
profilo, la non opponibilità del segreto di Stato, nei termini di cui alle note
impugnate, si desumerebbe dagli stessi principi tradizionalmente affermati dalla
giurisprudenza costituzionale, letti alla luce della successiva evoluzione
della disciplina legislativa della materia, la quale si sarebbe mossa nella
direzione di un sempre maggiore contemperamento tra gli interessi alla cui
tutela il segreto di Stato è preordinato e gli altri interessi protetti dalla
Costituzione.
Già nella sentenza n. 110 del
1998, questa Corte avrebbe, infatti, evidenziato con chiarezza
l’impossibilità di configurare una «immunità sostanziale» collegata
all’attività dei servizi segreti. In aderenza a tale indicazione, il
legislatore del 2007 – nell’introdurre la scriminante speciale a favore del
personale dei servizi in precedenza ricordata – avrebbe quindi stabilito,
proprio per non trasformare la scriminante in una immunità, che non possono
costituire oggetto di segreto atti, notizie e documenti concernenti le condotte
tenute da appartenenti ai servizi di informazione in violazione della
disciplina relativa alla causa di giustificazione considerata (comma 1-bis dell’art. 204 cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 40, comma 3, della legge n. 124
del 2007).
Alla luce del quadro
normativo di riferimento e del «principio di proporzionalità», già enucleato
dalla precedente sentenza
di questa Corte n. 86 del 1977, le esigenze di riserbo riguardo alle
modalità organizzative e operative del Servizio – evocate dalla sentenza n. 106 del
2009 – non potrebbero costituire, dunque, oggetto di tutela indiscriminata,
specie quando vengano in considerazione condotte di appartenenti al Servizio
aventi carattere criminoso. La configurabilità del segreto di Stato rimarrebbe
subordinata, di contro, alla concreta preminenza degli interessi che esso mira
a salvaguardare rispetto agli altri beni costituzionalmente protetti, tra cui
quello della corretta amministrazione della giustizia.
In questa
prospettiva, l’atto con il quale il Presidente del Consiglio dei ministri
confermi il segreto di Stato opposto dell’ambito di un procedimento penale non
potrebbe, dunque, prescindere da una congrua motivazione, la quale dia conto
delle ragioni della prevalenza della tutela degli «interna corporis» su ogni altro interesse
salvaguardato da norme costituzionali. Lo stesso art. 41, comma 5, della legge
n. 124 del 2007 è, del resto, esplicito nel richiedere che la conferma abbia
luogo con «atto motivato».
A fronte di tale disposizione
e di quella del comma 8 dello stesso art. 41, per cui in nessun caso il segreto
di Stato è opponibile alla Corte costituzionale, non potrebbe essere
considerato, quindi, ancora attuale, nella sua assolutezza, il principio
enunciato dalla sentenza
n. 86 del 1977, secondo il quale la decisione del Presidente del Consiglio
dei ministri – stante il carattere squisitamente «politico» – non sarebbe
soggetta ad alcun sindacato giurisdizionale, ma esclusivamente al controllo del
Parlamento.
La circostanza che
l’atto di conferma del segreto costituisca espressione di discrezionalità
politica potrebbe valere, bensì, a sottrarlo al sindacato dell’autorità
giudiziaria ordinaria, ma non anche a quello della Corte costituzionale,
essendo
1.7.– Il ricorrente
chiede, pertanto, a questa Corte di dichiarare che non spettava al Presidente
del Consiglio dei ministri adottare gli atti di conferma del segreto di Stato
impugnati e, per l’effetto, di annullarli.
2.– Il ricorso è
stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 376
del 2010, «impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione anche
relativamente ai profili attinenti alla stessa ammissibilità del ricorso».
3.– Si è costituito
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso venga dichiarato
in parte inammissibile e, per il resto, infondato.
3.1.– Svolte alcune
considerazioni di carattere generale in ordine alla giurisprudenza di questa
Corte e alla vigente disciplina legislativa in materia di segreto di Stato,
l’Avvocatura dello Stato rileva come – contrariamente a quanto sostenuto dal
giudice ricorrente – le notizie oggetto degli atti impugnati rientrino
senz’altro nel novero di quelle tutelabili a mezzo del segreto di Stato ai
sensi del d.P.C.m. 8 aprile 2008. Dette notizie
risulterebbero, infatti, ricomprese nell’ampia previsione dell’art. 3 del
decreto, che fa riferimento alle informazioni la cui diffusione sia idonea ad
arrecare un danno grave ai supremi interessi dello Stato, indicati nel medesimo
articolo in termini omologhi a quelli dell’art. 39, comma 1, della legge n. 124
del 2007. Le medesime notizie sarebbero, d’altra parte, agevolmente
inquadrabili fra quelle inerenti alle attribuzioni, alla programmazione, alla
pianificazione, all’impiego e alle strutture dei servizi informativi,
specificamente menzionate nel punto 6 dell’elenco allegato al citato d.P.C.m.: elenco che ha, peraltro, carattere meramente
esemplificativo. Risulterebbe evidente, in particolare, che la divulgazione dei
dati relativi all’esistenza e alle modalità dei finanziamenti di una sede
operativa del Servizio consentirebbe di conoscere i modi di ottenimento delle
informazioni e i luoghi di svolgimento delle operazioni di intelligence, investendo i relativi assetti organizzativi e
operativi.
Né varrebbe fare
leva, in senso contrario, sulla disciplina penalistica contenuta nella legge n.
124 del
3.2.– Parimenti non
condivisibile risulterebbe l’ulteriore argomento del ricorrente, stando al
quale non si potrebbe, senza cadere in contraddizione, considerare punibili le
condotte poste in essere dal personale dei servizi per fini estranei a quelli
istituzionali e, al tempo stesso, lasciare che ne venga impedito
l’accertamento, mediante l’opposizione – in assunto indiscriminata – del
segreto di Stato.
Alla luce di quanto
stabilito, in conformità alle indicazioni della giurisprudenza di questa Corte,
dall’art. 202 cod. proc. pen., come sostituito
dall’art. 40 della legge n. 124 del 2007, la conferma del segreto di Stato da
parte del Presidente del Consiglio dei ministri non impedisce al pubblico
ministero di indagare sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso, e di
esercitare, se del caso, l’azione penale, ma inibisce all’autorità giudiziaria
soltanto l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, degli elementi di
conoscenza coperti dal segreto.
L’apposizione del
segreto su una o più fonti di prova non è, dunque, incompatibile, in linea di
principio, con la possibilità di procedere all’accertamento del fatto di reato
sulla base di elementi autonomi. È solo la mancanza di questi ultimi,
unitamente all’essenzialità delle fonti di prova sottoposte a segreto, a
imporre al giudice la dichiarazione di non doversi procedere per l’esistenza
del segreto di Stato, ai sensi dell’art. 202, comma 3, cod. proc. pen.
In questa
prospettiva, l’eventualità che l’opposizione e la conferma del segreto vengano,
in linea di fatto, a precludere al giudice l’accertamento di taluno dei reati
sottoposti alla sua cognizione, lungi dal giustificare la doglianza di lesione
della sfera di attribuzioni riservata al potere giudiziario, costituirebbe una
evenienza assolutamente fisiologica, come attesta proprio la previsione
legislativa della declaratoria di non doversi procedere ora ricordata.
3.3.– Privo di
fondamento risulterebbe anche l’assunto del ricorrente secondo il quale la
segretazione dell’esistenza e delle modalità dei finanziamenti relativi alla
sede di via Nazionale, precludendo l’accesso alle informazioni relative alla
destinazione dei fondi gestiti dal Servizio, contrasterebbe con la necessità
che anche i servizi di sicurezza rispettino i principi costituzionali in
materia di impiego delle risorse pubbliche.
Il Giudice perugino
non avrebbe tenuto adeguato conto, infatti, della speciale disciplina dettata
dall’art. 29 della legge n. 124 del 2007 – pure da lui richiamato – riguardo al
controllo sulla gestione dei fondi assegnati ai servizi, in correlazione
all’assoluta peculiarità delle funzioni che essi sono chiamati a svolgere.
Detto controllo sarebbe congegnato in modo da non precludere la verifica della
rispondenza della gestione alle finalità istituzionali, articolandosi in un
controllo successivo sulla legittimità e regolarità della gestione stessa,
mediante l’esame del bilancio consuntivo da parte di un ufficio della Corte dei
conti distaccato presso il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza
(DIS), e in un controllo preventivo sugli atti di gestione delle spese
ordinarie, da parte di un ufficio – parimenti distaccato presso il DIS –
facente capo all’Ufficio bilancio e ragioneria della Presidenza del Consiglio
dei ministri (art. 29, comma 3, lettere c
e d, della legge n. 124 del 2007). Il
riserbo sulle relative informazioni risulterebbe assicurato dal vincolo del
segreto, cui i componenti dei predetti uffici distaccati sono espressamente
tenuti (art. 29, comma 3, lettera e).
La lettera f) del citato art. 29 attribuisce,
inoltre, in via esclusiva ai responsabili dei servizi la competenza ad adottare
gli atti di gestione delle spese riservate, con obbligo di rendiconto
trimestrale e di relazione finale annuale al Presidente del Consiglio dei
ministri, prefigurando, così, un controllo di tipo esclusivamente politico su
dette spese; mentre la lettera g)
impone la trasmissione al Comitato parlamentare per la sicurezza della
Repubblica (COPASIR) del consuntivo della gestione finanziaria delle spese
ordinarie, nonché la presentazione a tale organo parlamentare di un’informativa
semestrale sulle singole linee essenziali della gestione finanziaria delle
spese riservate.
In tale quadro, non
sarebbe, dunque, affatto anomala la segretazione dell’esistenza e delle
modalità dei finanziamenti di una singola struttura del Servizio.
3.4.– Non
significativa sarebbe, per altro verso, la circostanza – su cui il ricorrente
pone l’accento – che, nel caso di specie, gli interna corporis del SISMI non vengano in
considerazione con riferimento ai rapporti tra l’intelligence italiana e quella di altri Stati, diversamente che
nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 106 del
2009.
La conferma del
segreto di Stato, ritenuta legittima da tale sentenza, è stata, infatti,
giustificata non soltanto con la necessità di preservare la credibilità del
Servizio italiano nell’ambito dei rapporti internazionali, ma anche, e più in
generale, con l’esigenza – intrinseca alla qualità stessa del Servizio – di porre
le proprie modalità organizzative e operative al riparo dagli ovvi ed esiziali
rischi di una indistinta conoscibilità.
3.5.– Destinato
all’insuccesso sarebbe, altresì, il tentativo del ricorrente di far emergere
una discontinuità tra la giurisprudenza di questa Corte antecedente alla legge
n. 124 del 2007 e la sentenza n. 106 del
2009, con riguardo ai limiti di sindacabilità degli atti di conferma del
segreto di Stato.
Detta sentenza avrebbe
ribadito, in realtà, senza riserve il consolidato principio per cui le modalità
di esercizio del potere di individuazione delle notizie destinate a rimanere
segrete nel supremo interesse alla sicurezza dello Stato, spettante al
Presidente del Consiglio dei ministri, sono soggette a un sindacato
esclusivamente parlamentare, stante la natura eminentemente politica delle
sottostanti valutazioni e la spettanza al solo Parlamento del controllo nel
merito delle più alte e gravi decisioni dell’Esecutivo. Tale principio – in
precedenza riflesso nella disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 801
del 1977 – sarebbe stato, d’altra parte, pienamente confermato dalla legge n.
124 del 2007, nel regolare in modo più articolato il controllo esercitato dal
COPASIR sulla politica informativa per la sicurezza dello Stato (art. 31).
3.6.– Neppure
potrebbe accedersi, infine, alla tesi del Giudice perugino, secondo la quale
l’atto di conferma del segreto resterebbe comunque sindacabile, sotto il
profilo dell’adeguatezza della motivazione, dalla Corte costituzionale in sede
di conflitto di attribuzione, quanto meno al fine di verificare «il rispetto
dei limiti che inquadrano in un ambito costituzionalmente definito ed
accettabile l’avvenuta opposizione/conferma del segreto».
Tale motivo di
ricorso sarebbe inammissibile per genericità, stante la «palese […]
inconsistenza» del parametro costituzionale alla cui stregua
La tesi del
ricorrente risulterebbe, in ogni caso, manifestamente infondata. L’art. 28
della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), con disposizione di chiara valenza sistematica,
impone infatti alla Corte, nei giudizi di legittimità costituzionale delle
leggi e degli atti aventi forza di legge, di astenersi da ogni valutazione di
tipo politico e da ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del
Parlamento. La natura politica del potere di conferma del segreto di Stato
renderebbe la posizione del Presidente del Consiglio dei ministri assimilabile,
per questo verso, a quella del Parlamento: con la conseguenza che, anche in
sede di risoluzione dei conflitti tra poteri dello Stato insorti in tale
materia,
3.7.– In conclusione
– secondo il resistente – gli atti impugnati risulterebbero pienamente
legittimi, in quanto sorretti da motivazione non arbitraria o irrazionale, che
si concreta nel riferimento alla riconducibilità delle notizie in essi indicate
alle ipotesi normativamente previste di opposizione e conferma del segreto di
Stato. Ciò che manca – né potrebbe essere altrimenti, a meno di vanificare le
stesse ragioni dell’apposizione del segreto – è solo «la specifica indicazione
delle ragioni di opportunità e soprattutto della valutazione di pertinenza
delle circostanze prese in considerazione con le ipotesi normativamente ora
previste nell’allegato al d.P.C.m. 8 aprile 2008».
4.– In prossimità
dell’udienza pubblica, il giudice ricorrente ha depositato una memoria
illustrativa, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
4.1.– In essa egli rammenta
come il procedimento penale da cui il conflitto trae origine abbia preso avvio
a seguito del sequestro eseguito il 5 luglio 2006 dalla Procura della
Repubblica di Milano, nell’ambito di altro procedimento, presso la sede del
SISMI di via Nazionale in Roma, gestita da Pio Pompa. Nell’occasione, era stato
rinvenuto un archivio contenente un gran numero di dossier sulla vita, sull’attività e sugli orientamenti politici di
funzionari dello Stato, giornalisti, parlamentari e magistrati e sulle attività
di movimenti sindacali e associazioni di magistrati. Alla luce dei documenti
sequestrati, la raccolta di informazioni sarebbe dovuta servire di base per
iniziative volte a «delegittimare», tramite diffamazioni e calunnie, i soggetti
«monitorati», in quanto «vicini a una determinata parte politica», avversa alla
maggioranza di Governo del momento.
Si tratterebbe di
materiale «inquietante», al punto da aver indotto il Parlamento a introdurre,
con la legge n. 124 del 2007 – proprio a fronte dello scandalo seguito al
sequestro di via Nazionale – il reato (severamente punito) di istituzione e
utilizzazione di schedari informativi per finalità estranee agli scopi
istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza, unitamente
all’espresso divieto di istituzione, da parte del Dipartimento delle
informazioni per la sicurezza (DIS), dell’Agenzia informazioni e sicurezza
esterna (AISE) e dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), di
archivi diversi da quelli la cui esistenza sia stata ufficialmente comunicata
al COPASIR (art. 26).
Sarebbe evidente,
d’altro canto, come la formazione di dossier
su magistrati, funzionari e giornalisti, ove giustificata solo dalle loro
(reali o presunte) idee politiche e finalizzata a screditarli, non risponda
alle finalità istituzionali dei servizi, ma costituisca, al contrario, una
«attività deviata», «ai confini con l’eversione costituzionale». In nessun caso
essa potrebbe ritenersi, quindi, coperta da segreto di Stato: secondo il
costante orientamento della Corte costituzionale e alla luce di quanto
stabilito dapprima dall’art. 12 della legge n. 801 del 1977 e, oggi, dall’art.
39 della legge n. 124 del 2007, possono essere, infatti, oggetto di segreto di
Stato le sole notizie la cui diffusione esponga a pericolo un ristretto
catalogo di interessi "superiori” (integrità dello Stato anche in relazione ad
accordi internazionali, difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo
fondamento, indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati, relazioni
internazionali, preparazione e difesa militare dello Stato). L’accertamento
delle responsabilità penali per la formazione dei dossier rinvenuti in via Nazionale non solo non porrebbe affatto in
pericolo i predetti interessi, ma, al contrario, sarebbe esso stesso necessario
per la difesa di una istituzione posta dalla Costituzione a suo fondamento,
vale a dire la magistratura.
4.2.– Tanto
puntualizzato, il Giudice ricorrente rileva, altresì, come il Pollari e il
Pompa, nelle memorie, rispettivamente, del 27 luglio e del 12 novembre 2009, si
fossero entrambi difesi dal primo dei reati loro contestati (quello di
peculato) sostenendo che i documenti sequestrati sarebbero stati raccolti, per
la quasi totalità, dal Pompa anteriormente alla sua assunzione alle dipendenze
del SISMI, e, in parte, anche prima dell’inizio della sua collaborazione
esterna con il Servizio, avvalendosi di mezzi e risorse personali. Detta
documentazione sarebbe stata, inoltre, formata sulla base di notizie tratte da
organi di informazione e da internet.
Gli indagati avevano,
tuttavia, contemporaneamente dedotto che, «per fornire ulteriori e decisivi
elementi idonei a dimostrare in modo inconfutabile la totale insussistenza dei
fatti ascritti», essi avrebbero dovuto riferire notizie coperte da segreto di
Stato, concernenti gli «interna corporis» del Servizio. Entrambi avevano, quindi,
opposto il segreto di Stato «su tutti i fatti descritti nell’ipotesi
accusatoria».
Ad avviso del
ricorrente, vi sarebbe una evidente contraddizione logica tra la tesi difensiva
"principale” e l’opposizione del segreto. Se fosse vero, infatti, che il Pompa
ha formato i dossier a proprie spese,
si tratterebbe di un’attività del tutto estranea agli interna corporis del SISMI. Soprattutto,
però, non si comprenderebbe come le notizie che entrambi gli indagati hanno
sostenuto essere coperte da segreto di Stato possano valere a scagionare, al
tempo stesso, sia l’uno che l’altro. Affermando di non poter dimostrare la
propria innocenza se non svelando gli interna
corporis del Servizio, il Pompa avrebbe, infatti,
implicitamente sostenuto di aver agito in esecuzione di ordini e direttive di
un suo superiore (con conseguente operatività della scriminante di cui all’art.
51 cod. pen.). Opponendo nei medesimi termini il
segreto, il Pollari avrebbe lasciato intuire l’esatto contrario, ossia che
esisterebbero prove del fatto che il Pompa abbia agito senza che egli,
all’epoca direttore del Servizio, ne sapesse alcunché. In un simile contesto,
non potrebbe quindi non sorgere il sospetto che almeno uno degli indagati abbia
opposto il segreto, non già a tutela della salus rei publicae, quanto piuttosto per
sottrarsi all’accertamento della sua responsabilità penale.
Considerazioni
similari varrebbero anche in rapporto alla linea difensiva degli indagati
relativa al secondo capo di imputazione (violazione di corrispondenza).
Entrambi gli indagati avevano sostenuto, infatti, da un lato, che la
corrispondenza interna all’associazione MEDEL sarebbe stata scaricata da siti internet liberamente accessibili, e,
dall’altro, di trovarsi, tuttavia, nell’impossibilità di dimostrare in modo
inconfutabile l’insussistenza del fatto, per «l’esistenza del segreto di Stato
su circostanze fondamentali per la propria difesa»: segreto che avevano,
quindi, nuovamente opposto «su tutti i fatti descritti nel capo di
imputazione».
Nei medesimi ampi
termini il segreto di Stato era stato opposto, infine, dal Pompa in relazione
al terzo reato, a lui esclusivamente ascritto (possesso di notizie che
nell’interesse dello Stato dovevano rimanere segrete).
In sostanza, dunque,
gli indagati non avevano opposto il segreto di Stato a fronte di una specifica
domanda loro rivolta dal pubblico ministero, o comunque in riferimento a una
determinata notizia, ma lo avevano opposto in modo generico e onnicomprensivo
su tutti i fatti loro contestati, asserendo che tale segreto sarebbe stato di
ostacolo all’articolazione delle proprie difese e sostenendo, poi – in sede di
udienza preliminare, dopo che era intervenuta la conferma del Presidente del
Consiglio dei ministri – che, a fronte di ciò, il Giudice dell’udienza
preliminare avrebbe dovuto necessariamente pervenire alla dichiarazione di non
doversi procedere nei confronti di entrambi.
Al riguardo, il
ricorrente dubita, tuttavia, che l’opposizione del segreto di Stato possa avere
un oggetto così ampio e generico, da impedirgli di conoscere «l’intera
fenomenologia del fatto in tutti i suoi elementi costitutivi». È, in effetti,
possibile che una o più prove dell’esistenza di una causa di giustificazione,
ovvero dell’estraneità dell’imputato ai fatti a lui addebitati, siano coperte
da segreto di Stato, ma – affinché ciò possa portare a una pronuncia di non
luogo a procedere – occorrerebbe quanto meno un «"principio di prova”, ovvero
la delimitazione del segreto in un contesto difensivo univoco e non
contraddittorio».
4.3.– Il ricorrente
osserva, per altro verso, come il pubblico ministero, con note del 27 ottobre e
del 16 novembre 2009, abbia chiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di
confermare l’opposizione del segreto su quattro distinte circostanze, ritenute
essenziali ai fini del procedimento penale.
Con riferimento ai
primi due punti della richiesta, la conferma del segreto sarebbe illegittima
sotto un duplice profilo.
In primo luogo,
perché risulterebbe frutto di un travisamento dell’oggetto della richiesta.
La conferma sarebbe
illegittima, in secondo luogo, perché la richiesta riguardava, per tale parte,
circostanze palesemente non segrete. Sarebbe, infatti, notorio che il Pompa e
Spostando
l’attenzione dall’esistenza delle retribuzioni e dei finanziamenti alle «forme»
e ai «modi» dei medesimi, le note del Presidente del Consiglio porterebbero
all’assurdo risultato di rendere non utilizzabili nel processo circostanze
ormai di pubblico dominio, la cui diffusione non creerebbe, dunque, alcun
pericolo per le esigenze primarie che il segreto di Stato mira a tutelare.
Un discorso analogo
varrebbe anche in rapporto alla conferma del segreto sul terzo punto della
richiesta. L’oggetto di quest’ultima era unicamente il fatto che il Pompa e
Una ulteriore ragione
di illegittimità degli atti impugnati, in rapporto ai tre punti in questione,
risiederebbe nel fatto che il segreto potrebbe riguardare solo notizie o atti
specifici, non essendo ipotizzabile che tutte le retribuzioni dei dipendenti
dei servizi di informazione, tutte le spese sostenute per le loro sedi e tutte
le direttive ad essi impartite siano coperte da segreto di Stato, e perciò non
acquisibili e non utilizzabili dall’autorità giudiziaria.
In realtà, il vero e
unico punto nodale – tra quelli oggetto della richiesta di conferma del segreto
di Stato – ai fini della verifica della fondatezza delle difese dei due
indagati sarebbe il quarto: sapere, cioè, se, nel procedere alla raccolta di
informazioni su magistrati e altri soggetti considerati «ostili», il Pompa avesse
o meno agito in esecuzione di ordini o direttive del Servizio.
Anche in relazione a
tale punto, la conferma del segreto risulterebbe, peraltro, illegittima. Ove,
infatti, una direttiva nei sensi indicati non esistesse, non si comprenderebbe
quale sia l’oggetto del segreto. Qualora, al contrario, il direttore del SISMI
avesse ordinato al Pompa e alla Tontodimamma la
formazione dei dossier in questione,
si tratterebbe di una gravissima deviazione dagli scopi istituzionali del
Servizio, ai limiti del tentativo di eversione costituzionale, con la
conseguenza che una simile direttiva non potrebbe mai essere coperta dal
segreto di Stato.
4.4.– Gli atti
impugnati sarebbero, infine, illegittimi perché, rendendo impossibile
l’accertamento penale dei fatti, trasformerebbero l’opposizione del segreto di
Stato in una sorta di «esimente in bianco».
Al riguardo, il
ricorrente ricorda come il rapporto tra diritto di difesa dell’imputato e
segreto di Stato sia stato al centro di un ampio dibattito. Nel vigore del
codice di procedura penale del 1930, la giurisprudenza di legittimità aveva, in
particolare, escluso che la disposizione di cui all’art. 352 di detto codice,
in tema di opposizione del segreto di Stato, potesse applicarsi, oltre che al
testimone, anche all’imputato, il quale, da un lato, aveva ampia libertà di
articolare la propria difesa, anche rifiutandosi di rispondere alle domande che
gli venivano rivolte, e, dall’altro, qualora si fosse trovato nella necessità
di rivelare fatti coperti da segreto di Stato a fini difensivi, doveva
ritenersi legittimato a farlo, rimanendo la sua condotta scriminata dall’art.
51 cod. pen.
Più di recente, il
problema si era, peraltro, riproposto nel corso del processo relativo al
sequestro di persona ai danni di [Nasr Osama Mustafa Hassan, alias] Abu Omar – da cui sono scaturiti
i conflitti di attribuzione decisi dalla sentenza n. 106 del
2009 – giacché anche nell’occasione il generale Pollari aveva dedotto che
esistevano prove della sua innocenza, non producibili in giudizio perché
coperte da segreto di Stato.
Prima ancora che
La citata
disposizione – scaturita da un intenso dibattito parlamentare – non avrebbe,
peraltro, affatto previsto che alla mera deduzione, da parte dell’imputato,
dell’esistenza di non ben definite prove della sua innocenza coperte da segreto
di Stato debba automaticamente seguire una pronuncia di proscioglimento. Essa
avrebbe adottato, di contro, una soluzione «aperta» riguardo al problema
dell’operatività della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen.,
demandando, in sostanza, il bilanciamento dei valori in gioco – diritto di
difesa e tutela del segreto – alle scelte difensive dell’imputato e alla
valutazione del giudice.
In proposito,
occorrerebbe anche considerare che, a differenza della legge n. 801 del 1977,
la quale non delineava alcuna ipotesi di immunità sostanziale collegata
all’attività dei servizi informativi (come rilevato anche dalla sentenza n. 110 del
1998 di questa Corte), la legge n. 124 del
Alla luce di ciò,
sarebbe, dunque, impensabile che gli agenti dei servizi imputati di un reato
possano sottrarsi al giudizio penale semplicemente affermando che esistono
prove della loro innocenza non acquisibili in quanto coperte da segreto di
Stato. Proprio questa strategia difensiva sarebbe stata, per contro, avallata
dal Presidente del Consiglio dei ministri nel caso di specie.
4.5.– A fronte di
tutto ciò, sarebbe quindi necessario, ad avviso del ricorrente, da parte di
questa Corte verificare la reale esistenza delle prove allegate dagli imputati
e la legittimità della loro segretazione.
Ciò non
significherebbe sindacare nel merito l’esercizio del potere di segretazione –
operazione, questa, preclusa alla Corte, come ribadito dalla sentenza n. 106 del
2009 – ma soltanto controllare, in fatto, che non vi sia stato un palese
abuso dell’istituto del segreto di Stato. Tale controllo potrebbe essere
agevolmente svolto dalla Corte, nell’esercizio dei propri poteri istruttori,
chiedendo al Presidente del Consiglio dei ministri l’ostensione degli atti in
questione (se esistenti), non essendole il segreto di Stato in nessun caso
opponibile (art. 41, comma 8, della legge n. 124 del 2007).
D’altra parte, ove pure
riscontrasse l’esistenza di atti interni al Servizio che possano scriminare uno
o entrambi gli imputati,
5.– Anche il
Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria, insistendo per
il rigetto del ricorso.
Nel ribadire e
sviluppare le precedenti eccezioni e difese, il resistente si sofferma, in
particolare, sulla non configurabilità del denunciato vulnus ai principi costituzionali in tema di controllo sulla
gestione delle risorse pubbliche, rilevando come – alla luce della speciale
disciplina dettata dall’art. 29 della legge n. 124 del 2007, già richiamata in
sede di costituzione in giudizio – i dati relativi ai finanziamenti dei servizi
e alle modalità di gestione di tali finanziamenti debbano ritenersi, non già
semplicemente suscettibili di segretazione, ma addirittura senz’altro coperti
da segreto, nell’ottica di garantire l’efficienza e la funzionalità dei servizi
stessi.
Né, d’altro canto, la
suddetta disciplina speciale – segnatamente nella parte in cui prefigura un
controllo di tipo esclusivamente politico sulla gestione delle spese riservate
– contrasterebbe, sotto alcun profilo, con i parametri evocati dal ricorrente.
Non pertinente sarebbe, infatti, il riferimento all’art. 81 Cost., trattandosi
di disposizione che non riguarda la disciplina del controllo sulla gestione
finanziaria dello Stato, ma la formazione della legge di bilancio. Dalla
disposizione combinata degli artt. 100 e 103 Cost. – che attribuiscono alla
Corte dei conti competenze relative al controllo preventivo e successivo in
materia di contabilità pubblica e gestione finanziaria – non potrebbe, inoltre,
desumersi l’illegittimità della sottrazione al sindacato giurisdizionale della
gestione dei fondi riservati assegnati ai servizi, in quanto la concreta
delimitazione delle competenze della Corte dei conti resterebbe comunque
affidata alla discrezionalità del legislatore. Nella specie, d’altra parte, la
previsione di un controllo esclusivamente politico sulle spese riservate non
sarebbe affatto irragionevole, né contrastante con il principio del buon
andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato
dall’art. 97 Cost., trovando giustificazione nella specificità delle funzioni
assolte dai servizi.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia, nell’ambito di un processo
penale che vede imputati un ex direttore del SISMI (il generale Nicolò Pollari)
e un ex collaboratore e poi dipendente del medesimo Servizio (Pio Pompa), ha
proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del
Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alle note del 3 dicembre
2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n.
52285/181.6/2/07.IX.I, con le quali è stato confermato – nei termini ivi
indicati – il segreto di Stato opposto dai sunnominati Pollari e Pompa in
occasione dell’interrogatorio reso ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale.
2.– Giova, al
riguardo, preliminarmente riepilogare, nei suoi termini essenziali, la vicenda
che ha dato origine al conflitto, quale emerge dalle deduzioni e dalle
produzioni documentali delle parti.
Il processo di cui il
ricorrente è investito trae origine dalla perquisizione e dal conseguente
sequestro eseguiti il 5 luglio 2006 dalla Procura della Repubblica di Milano,
nell’ambito di altro procedimento, presso la sede del SISMI di via Nazionale in
Roma, che si deduce gestita dal Pompa. Nell’occasione, era rinvenuto un
archivio contenente numerosi dossier
sulla vita, sull’attività e sugli orientamenti politici di magistrati,
funzionari statali, giornalisti e parlamentari e sulle attività di movimenti
sindacali e associazioni di magistrati. Secondo l’ipotesi accusatoria, alla
luce dei documenti sequestrati, detta raccolta di informazioni avrebbe avuto
come obiettivo quello di screditare, mediante diffamazioni, calunnie e abusi di
ufficio, i soggetti interessati, considerati «ostili» in ragione delle loro
idee politiche.
A seguito di ciò, il
Pollari e il Pompa erano sottoposti a procedimento penale in relazione – per quanto
qui interessa – a due ipotesi di reato. Da un lato, quella di peculato
aggravato continuato, per essersi appropriati, in concorso tra loro, di somme e
di risorse materiali e umane del SISMI, impiegandoli per scopi palesemente
estranei alle finalità istituzionali del Servizio, quale l’anzidetta attività
di raccolta e trattamento di informazioni. Dall’altro, quella di violazione di
corrispondenza aggravata continuata, per aver preso cognizione, sempre in
concorso fra loro, della corrispondenza informatica inerente a una associazione
di magistrati europei (
Ricevuto l’avviso di
conclusione delle indagini preliminari, gli indagati chiedevano e ottenevano di
essere sottoposti a interrogatorio, ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. In tale
sede, attraverso memorie che depositavano, contestavano entrambi gli addebiti
loro mossi. Quanto al peculato, assumevano che la documentazione sequestrata
apparteneva al Pompa, il quale l’avrebbe formata con risorse personali – per la
quasi totalità prima della sua assunzione alle dipendenze del SISMI e, in
parte, addirittura prima dell’inizio della sua collaborazione esterna col
Servizio – avvalendosi di informazioni tratte da organi di informazione e da internet. Quanto alla violazione di
corrispondenza, sostenevano – fermo quanto precede – che il materiale era stato
scaricato da siti internet liberamente
accessibili. Gli indagati soggiungevano, tuttavia, che per fornire ulteriori e
decisivi elementi, atti a dimostrare in modo inconfutabile l’insussistenza dei
fatti, avrebbero dovuto rivelare notizie coperte da segreto di Stato, in quanto
inerenti agli «interna corporis» del Servizio (quali le direttive e gli ordini
impartiti dalle autorità governative e dal direttore agli appartenenti
all’organismo, la posizione del Pompa all’interno di questo, le risorse
utilizzate per la sua attività e via dicendo). Di conseguenza, opponevano il
segreto di Stato su tale complesso di circostanze e, in definitiva, «su tutti i
fatti descritti» nei capi di imputazione. Analoga posizione assumeva il Pompa
quanto al delitto di possesso di notizie destinate a rimanere segrete
nell’interesse dello Stato, a lui ascritto in via esclusiva.
A fronte di ciò, il
pubblico ministero chiedeva al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi
dell’art. 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la
sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), di confermare
l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro circostanze, la cui
conoscenza era ritenuta essenziale per la definizione del procedimento; vale a
dire se il SISMI, nel periodo in cui era stato diretto dal Pollari: a) avesse
«finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che indirettamente», la
sede di via Nazionale, gestita dal Pompa»; b) avesse «retribuito
economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente», il
Pompa o Jennj Tontodimamma; c) avesse «impartito
ordini e direttive» ai medesimi; d) avesse, infine, «impartito ordini e
direttive» al Pompa o alla Tontodimamma «di raccolta
di informazioni su magistrati italiani o stranieri».
Con le note
impugnate, il Presidente del Consiglio dei ministri confermava il segreto
relativamente a «modi e forme dirette e indirette di finanziamento per la
gestione da parte di Pio Pompa della sede del SISMI in via Nazionale, a Roma,
allorché il Servizio era diretto da Nicolò Pollari»; a «modi e forme di
retribuzione, diretta o indiretta, di Pio Pompa e di Jennj Tontodimamma,
collaboratori prima e dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò Pollari»;
nonché in relazione alle direttive e agli ordini impartiti al Pompa e alla Tontodimamma all’interno del Servizio. La conferma del
segreto veniva motivata con l’esigenza di tutela degli «interna corporis» del SISMI, nell’ottica
di non rendere di pubblico dominio le modalità di organizzazione e le tecniche
operative del Servizio: profili che – alla luce di quanto chiarito da questa
Corte con la sentenza
n. 106 del 2009, nonché di quanto stabilito dalla vigente normativa, e
segnatamente dal d.P.C.m. 8 aprile 2008 –
rientrerebbero tra quelli suscettibili di protezione a mezzo del segreto di
Stato.
Ad avviso del giudice
ricorrente, gli atti impugnati – da reputare rilevanti ai fini dei
provvedimenti che egli è chiamato ad adottare a conclusione dell’udienza
preliminare – sarebbero illegittimi sotto più profili e, di conseguenza, lesivi
delle proprie attribuzioni giurisdizionali, costituzionalmente garantite.
3.– Va confermata,
anzitutto, l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in
sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 376
del 2010 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
Quanto ai primi,
sussiste la legittimazione attiva del ricorrente Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Perugia, a fronte della costante giurisprudenza
della Corte, che riconosce ai singoli organi giurisdizionali la legittimazione
a essere parti nei giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato, in quanto competenti, in posizione di piena indipendenza garantita dalla
Costituzione, a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle relative
funzioni, la volontà del potere cui appartengono (con specifico riferimento ai
conflitti concernenti il segreto di Stato, sentenza n. 106 del
2009; con riguardo alla legittimazione passiva, sentenze n. 487 del 2000
e n. 410 del
1998).
Sussiste, del pari,
la legittimazione passiva del Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto
organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui
appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del
segreto di Stato, non solo in base alla legge n. 124 del 2007, ma – come questa
Corte ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 86 del
1977) – anche alla stregua delle norme costituzionali che ne determinano le
attribuzioni (sentenza
n. 106 del 2009; con riferimento alla legittimazione attiva, altresì,
sentenze n. 487
del 2000, n.
410 e n. 110
del 1998).
Quanto, poi, al
profilo oggettivo, il conflitto riguarda attribuzioni costituzionalmente
garantite inerenti, da un lato, all’esercizio della funzione giurisdizionale da
parte del giudice dell’udienza preliminare e, dall’altro, alla salvaguardia
della sicurezza dello Stato attraverso lo strumento del segreto, la cui tutela,
mediante la sua opposizione e conferma, è attribuita alla responsabilità del
Presidente del Consiglio dei ministri, sotto il controllo del Parlamento (sentenza n. 487 del
2000). La possibilità che gli atti di conferma del segreto di Stato formino
oggetto di conflitto di attribuzione è, d’altra parte, espressamente prevista
dalla normativa in vigore (art. 202, comma 7, cod. proc. pen.
e, per quanto qui interessa, art. 41, comma 7, della legge n. 124 del 2007).
4.– Nel merito, il
ricorso non è fondato.
5.– Questa Corte ha
già avuto modo di rimarcare la perdurante attualità, anche dopo le innovazioni
introdotte dalla legge n. 124 del 2007, dei principi enunciati dalla propria
pregressa giurisprudenza in ordine al fondamento costituzionale dell’istituto
del segreto di Stato: principi che – nel dare ragione e nel segnare, al tempo
stesso, i limiti della sua prevalenza rispetto alle contrapposte esigenze
dell’accertamento giurisdizionale – si presentano, «all’evidenza, non cedevoli
né manipolabili alla luce dei possibili mutamenti di fatto indotti dal passare
del tempo» (sentenza
n. 106 del 2009). Si tratta, d’altra parte, di principi ai quali il
legislatore ha inteso concretamente uniformare la disciplina della materia,
recata dapprima dalla legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento
dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di
Stato) e, attualmente, dalla citata legge n. 124 del 2007.
Secondo quanto
chiarito dalla Corte, l’istituto in questione può rinvenire la sua base di
legittimazione esclusivamente nell’esigenza di salvaguardare supremi interessi
riferibili allo Stato-comunità, ponendosi quale «strumento necessario per
raggiungere il fine della sicurezza», esterna e interna, «dello Stato e per
garantirne l’esistenza, l’integrità, nonché l’assetto democratico»: valori che
trovano espressione in un complesso di norme costituzionali, e particolarmente
in quelle degli artt. 1, 5 e 52 Cost. (sentenza n. 110 del
1998; in prospettiva analoga, sentenze n. 106 del
2009, n. 86
del 1977 e n.
82 del 1976). A tali indicazioni intende rispondere la definizione del
profilo oggettivo del segreto di Stato, offerta dall’art. 39, comma 1, della
legge n. 124 del 2007 (che sostituisce in ciò, con limitate modifiche, il
previgente art. 12 della legge n. 801 del 1977), ove si prevede che sono
coperti dal segreto «gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni
altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della
Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle
istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello
Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e
alla difesa militare dello Stato».
Rispetto ai valori
considerati, altri valori – pure di rango costituzionale primario – sono
"fisiologicamente” destinati a rimanere recessivi. La caratterizzazione come
strumento di salvaguardia della salus rei publicae rende ragione, in particolare, del fatto che
il segreto di Stato si presti a fungere da «sbarramento» all’esercizio della
funzione giurisdizionale, e segnatamente di quella volta all’accertamento delle
responsabilità individuali per fatti previsti dalla legge come reato. La sicurezza
dello Stato costituisce, infatti, un «interesse essenziale, insopprimibile
della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro,
in quanto tocca […] la esistenza stessa dello Stato», del quale la
giurisdizione costituisce soltanto «un aspetto» (sentenze n. 106 del 2009,
n. 110 del 1998
e n. 86 del 1977).
In un equilibrato
bilanciamento dei valori coinvolti, il segreto di Stato può valere, peraltro,
esclusivamente a «inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e
conseguentemente utilizzare» – tanto in via diretta che indiretta – «gli
elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto». Non è, di contro,
preclusa all’autorità giudiziaria la possibilità di procedere per i fatti
oggetto della notitia criminis in suo
possesso, qualora «disponga o possa acquisire per altra via elementi […] del
tutto autonomi e indipendenti dagli atti e documenti coperti da segreto»
(sentenze n. 106
del 2009, n.
410 e n. 110
del 1998). Si tratta di enunciati, anche in questo caso, puntualmente
recepiti nell’ambito della vigente disciplina processuale (art. 202, commi 5 e
6, cod. proc. pen. e art. 41, commi 5 e 6, della
legge n. 124 del 2007).
Questa Corte ha
ribadito, per altro verso, il carattere ampiamente discrezionale e la natura
squisitamente politica della valutazione – spettante al Presidente del
Consiglio dei ministri – in ordine ai mezzi idonei e necessari per garantire la
sicurezza dello Stato, sulla cui base ha luogo l’individuazione delle notizie
che, nel supremo interesse alla salus rei publicae, sono destinate a rimanere segrete.
Conseguenza ne è che – ferme restando le competenze della Corte in sede di
conflitto di attribuzione – il sindacato sulle modalità di esercizio del potere
di segretazione resta affidato in via esclusiva al Parlamento, essendo, quella
parlamentare, «la sede normale di controllo nel merito delle più alte e più
gravi decisioni dell’Esecutivo», con esclusione di qualsiasi sindacato
giurisdizionale al riguardo (sentenze n. 106 del 2009
e n. 86 del 1977).
6.– Il tratto
peculiare della vicenda che ha dato luogo al conflitto di attribuzione oggi in
esame risiede, peraltro, nel fatto che il segreto di Stato è stato opposto da
due persone sottoposte alle indagini, in occasione dell’interrogatorio da esse
stesse richiesto ai sensi dell’art. 415-bis,
comma 3, cod. proc. pen. In particolare, come già
ricordato, gli indagati – facenti parte del personale del SISMI all’epoca dei
fatti loro contestati, l’uno quale direttore, l’altro quale collaboratore e poi
come dipendente – hanno sostenuto che, per potersi difendere in modo compiuto,
dimostrando inconfutabilmente l’insussistenza dei fatti loro contestati,
avrebbero dovuto esporre circostanze non suscettibili di rivelazione, in quanto
coperte dal segreto di Stato.
6.1.– Nel sollevare
il conflitto, il giudice ricorrente muove dal presupposto interpretativo –
condiviso dal pubblico ministero, allorché ha richiesto al Presidente del
Consiglio dei ministri la conferma del segreto – che la situazione di fatto
considerata ricada nella previsione dell’art. 41 della legge n. 124 del 2007,
alla luce della quale anche l’imputato e la persona sottoposta alle indagini
dovrebbero ritenersi attualmente compresi nel novero dei soggetti abilitati a
opporre il segreto di Stato.
Tale postulato
ermeneutico – sulla cui base il ricorrente reputa rilevanti l’opposizione e la
conferma del segreto già nella fase processuale in corso (quella dell’udienza
preliminare) – appare, in sé, corretto.
6.2.– La tematica involge
evidentemente il problema delle interferenze fra il segreto di Stato e un
ulteriore valore costituzionale primario, rientrante tra i diritti fondamentali
dell’individuo: ossia il diritto di difesa. Gli interrogativi che, al riguardo,
tradizionalmente si pongono sono di duplice ordine: da un lato, se l’imputato
sia abilitato a rivelare all’autorità giudiziaria circostanze coperte da
segreto di Stato, ove ciò appaia necessario al fine di evitare una condanna
ingiusta; dall’altro, quali siano gli effetti della eventuale opposizione del
segreto.
Anteriormente alla
riforma operata dalla legge n. 124 del 2007, era opinione largamente
maggioritaria che al primo quesito – la cui risoluzione condiziona evidentemente
quella del secondo – dovesse rispondersi in senso affermativo.
Nel vigore del codice
di procedura penale del 1930,
6.3.– Secondo
l’orientamento dominante, la situazione non sarebbe mutata con l’entrata in
vigore del codice di procedura penale del 1988, alla luce del quale la
conclusione dianzi ricordata si sarebbe, anzi, imposta con ancora maggiore
evidenza: ciò, pur dopo la caduta del riferimento alla testimonianza nella
rubrica dell’originario art. 202 – in cui le statuizioni dell’art. 352 del
codice abrogato erano refluite – e la scomparsa, nel testo della norma, della
previsione dell’improcedibilità dell’azione penale per il delitto di falsa
testimonianza. Se per un verso, infatti, la disposizione risultava collocata
nel Capo I del Titolo II del Libro III del codice, relativo alla prova
testimoniale, ben distinto dal Capo II, dedicato all’«Esame delle parti»; per
altro verso, sul piano letterale, il comma 1 dell’art. 202 enunciava, a carico
dei pubblici funzionari, il solo «obbligo di astenersi dal deporre», senza il
concorrente ambiguo richiamo al divieto di interrogarli, mentre i successivi
commi 2 e 4 recavano espressi ed esclusivi riferimenti al «testimone».
Significativa appariva, inoltre, la circostanza che l’art. 209 del nuovo
codice, nell’estendere all’esame dell’imputato talune regole proprie della
testimonianza, non operasse alcun rinvio all’art. 202.
A fronte di tale dato
normativo, il divieto di rendere dichiarazioni su fatti coperti da segreto di
Stato – e la speciale ipotesi di chiusura del processo ad esso eventualmente
connessa, ai sensi dell’art. 202, comma 3 – non avrebbero potuto essere,
dunque, invocati dall’imputato (o dalla persona sottoposta alle indagini).
Questi ultimi avrebbero continuato, di contro, a godere della più ampia libertà
di manovra, in ossequio al precetto di cui all’art. 24, secondo comma, Cost.
(e, indi, anche a quello di cui al novellato art. 111, terzo comma, Cost.,
nella parte in cui riconosce all’imputato il diritto di difendersi provando),
potendo scegliere se tacere o rendere dichiarazioni, anche sui fatti coperti da
segreto di Stato, o persino di produrre prove a loro sostegno. La rivelazione –
ove necessaria a fini difensivi – non sarebbe risultata in ogni caso punibile,
operando la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, di rango
primario.
6.4.– La disciplina
della materia è stata, tuttavia, significativamente innovata, sotto il profilo
che interessa, dalla legge n. 124 del 2007. Se pure, infatti, l’avvenuta
riscrittura dell’art. 202 cod. proc. pen. non ha
inciso sull’esclusiva riferibilità della norma codicistica al testimone, questa
viene ad essere però affiancata da una disposizione parallela, collocata al di
fuori del codice (l’art. 41 della stessa legge n. 124 del 2007), che, nel
ricalcarne in larga misura le cadenze, non incontra – né sul piano sistematico,
né su quello letterale – limiti applicativi correlati alla veste processuale
del dichiarante.
La nuova disposizione
– scaturita da un ampio dibattito parlamentare, il quale attesta come il tema
che qui interessa sia stato ben presente al legislatore – stabilisce, infatti,
in termini indistinti, che «ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli
incaricati di pubblico servizio è fatto divieto di riferire riguardo a fatti
coperti da segreto di Stato» (comma 1, primo periodo). Tale statuizione – che,
come precetto sostanziale, risulterebbe superflua, posto che la rivelazione di
un segreto di Stato, da chiunque effettuata, integra un illecito penale (art.
261 cod. pen.), costituendo, perciò stesso, una
condotta vietata – è destinata in realtà ad assumere, negli intenti del
legislatore, una valenza precipuamente processuale, come emerge dalla
successiva previsione del secondo periodo del comma 1, ove è stabilito che in
ogni stato e grado del procedimento penale «salvo quanto disposto dall’art. 202
del codice di procedura penale, […] se è stato opposto il segreto di Stato,
l’autorità giudiziaria ne informa il Presidente del Consiglio dei ministri,
nella sua qualità di Autorità nazionale per la sicurezza, per le eventuali
deliberazioni di sua competenza».
Lo stesso art. 41
replica indi i contenuti del novellato art. 202 cod. proc. pen.,
in ordine alla procedura di interpello del Presidente del Consiglio dei
ministri e ai relativi effetti (commi da
Come già
incidentalmente rilevato da questa Corte (sentenza n. 106 del
2009), mediante la disposizione considerata il legislatore è venuto a
conferire portata generale al vincolo di riserbo, in sede processuale, dei
pubblici funzionari riguardo alle notizie coperte da segreto di Stato, con
previsione che – estrapolata da una specifica sedes materiae – si presta a ricomprendere,
nella sua genericità, anche l’imputato e la persona sottoposta alle indagini,
pure in assenza di espliciti riferimenti a tali figure. Non appare in effetti
significativa, in senso contrario, la circostanza che la norma faccia uso del
verbo «riferire» («è fatto divieto di riferire»), generalmente impiegato dal
codice di rito con riguardo agli apporti conoscitivi offerti da soggetti
diversi dall’imputato (quali, in specie, i testimoni, i periti, i consulenti
tecnici o la polizia giudiziaria, laddove, invece, nel lessico codicistico, l’imputato «dichiara», «espone» o «risponde»).
A fronte dell’ampia portata del precetto in questione – rivolto all’intera
platea dei soggetti sentiti in qualità diversa da quella di testimone – è,
infatti, plausibile che il legislatore si sia avvalso del termine «riferire»
nella sua accezione comune e corrente, espressiva di ogni forma di esposizione
di fatti, da chiunque effettuata.
Sul piano
teleologico, d’altra parte, occorre osservare come la normativa anteriore alla
legge n. 124 del 2007 – nella lettura datane dall’orientamento interpretativo
maggioritario – rimettesse, in pratica, all’imputato il bilanciamento tra il
diritto individuale di difesa e il supremo interesse alla sicurezza della
Repubblica, conferendogli una facoltà di scelta che poneva, peraltro, a suo
esclusivo carico i "costi” dell’eventuale opzione per il secondo dei due
valori. Rivelando il segreto, l’imputato avrebbe potuto, infatti, ottenere una
pronuncia assolutoria a detrimento della sicurezza nazionale; scegliendo invece
di tacere, avrebbe preservato quest’ultima, esponendosi però al rischio di una
condanna ingiusta.
L’assetto considerato
– nel quale era comunque insita la preminenza delle esigenze difensive
individuali rispetto a quelle di protezione della sicurezza dello Stato, quante
volte l’imputato non ritenesse di dover affrontare il predetto rischio – non
valeva, peraltro, neppure ad assicurare una tutela indefettibile dell’altro
interesse pubblico in gioco, rappresentato dal regolare esercizio della
giurisdizione penale. Depositario della prova di innocenza avrebbe potuto
essere, infatti, non già direttamente l’imputato, ma un testimone qualificato
addotto dalla difesa, rispetto al quale avrebbe comunque operato l’obbligo di
astensione dal deporre: con la conseguenza che, in tale evenienza, la notizia
segreta avrebbe potuto essere svelata dall’imputato nell’esporre la sua tesi
difensiva e nell’articolare le relative prove, senza tuttavia che la giustizia
penale potesse seguire il suo ordinario corso, dovendosi comunque adottare una
pronuncia di non liquet,
ai sensi dell’art. 202, comma 3, cod. proc. pen., di fronte alla conferma del segreto sulle
prove decisive richieste a sostegno di detta tesi.
Il nuovo art. 41
della legge n. 124 del 2007 muta i termini del bilanciamento. L’imputato viene
a essere, infatti, per un verso, incluso tra i titolari del potere-dovere di
opporre il segreto di Stato, ma, al tempo stesso, sottratto – ove tenga la
condotta conforme all’esigenza di protezione della sicurezza nazionale – al
rischio di una indebita affermazione di responsabilità penale. Lo Stato –
mirando all’"autoconservazione” – richiede, cioè, anche alla persona sottoposta
a processo il silenzio sulla notizia coperta da segreto, esigendo dalla
giurisdizione un possibile esito processuale scevro da connotati negativi nei
confronti del giudicabile (la dichiarazione di non doversi procedere), fermo
restando il vaglio di "essenzialità” rimesso all’autorità giudiziaria.
7.– Appurato, dunque,
che anche l’imputato e l’indagato sono attualmente abilitati a opporre il
segreto di Stato, non occorre affrontare in questa sede l’ulteriore
problematica evocata dal giudice ricorrente nella memoria: stabilire, cioè, se
– e in quali termini – la nuova disciplina resti comunque "permeabile”
all’operatività della scriminante prevista dall’art. 51 cod. pen., nel caso in cui i soggetti in questione violino il
divieto di rivelazione del segreto nell’esercizio del proprio diritto di difesa
(soluzione a sostegno della quale militano, in effetti, anche talune
indicazioni ricavabili dai lavori parlamentari relativi alla legge n. 124 del
2007). L’evenienza dianzi indicata non risulta essersi, infatti, verificata nel
caso in esame e non viene, perciò, in alcun modo in rilievo ai fini della
decisione dell’odierno conflitto.
Non conferente, ai
presenti fini, risulta anche l’altro rilievo del ricorrente, per cui, alla
stregua del disposto dell’art. 41 della legge n. 124 del 2007, non sarebbe
comunque sufficiente che l’imputato alleghi l’esistenza di imprecisate prove a
discolpa, non acquisibili in quanto segrete – opponendo, come nel caso di
specie, il segreto di Stato sull’intero capo di imputazione – per obbligare
l’autorità giudiziaria a pronunciare una sentenza di non doversi procedere:
giacché, se così fosse, l’opposizione del segreto finirebbe per trasformarsi,
inammissibilmente, «in una sorta di esimente "in bianco” sempre a disposizione
del personale dei Servizi». La declaratoria di improcedibilità presupporrebbe,
di contro – sempre secondo quanto sostenuto dal ricorrente – «quanto meno un
"principio di prova”, ovvero la delimitazione dell’ambito del segreto in un
contesto difensivo univoco e non contraddittorio»: condizioni – in assunto –
non riscontrabili nel caso di specie, stante la sostanziale inconciliabilità
dell’opposizione del segreto di Stato rispetto alla tesi difensiva prospettata
in via "principale” dagli imputati e l’impossibilità, sul piano logico, che le
circostanze che si deducono segrete risultino idonee a scriminarli entrambi.
Al riguardo, si deve
peraltro osservare che, nella presente sede,
Come già rimarcato, l’art.
41, comma 2, della legge n. 124 del 2007 prevede che, di fronte all’opposizione
del segreto, l’autorità giudiziaria debba procedere all’interpello del
Presidente del Consiglio dei ministri solo se – e nei limiti in cui – la
conoscenza delle circostanze sulle quali il segreto è stato allegato appaia
«essenziale» per la definizione del processo. La previsione di tale vaglio
selettivo preliminare – non richiesto dall’art. 202 cod. proc. pen. per l’ipotesi in cui a opporre il segreto sia un
testimone – appare giustificabile, sul piano logico, anche e proprio in
considerazione della particolare posizione dell’imputato o dell’indagato, il
quale, diversamente dal testimone, ha un interesse personale diretto nel
procedimento, che potrebbe risultare eventualmente di pungolo all’allegazione
pretestuosa del segreto al fine di sottrarsi all’accertamento delle proprie
responsabilità, o anche solo di rallentarne il corso.
Nel caso di specie, è
in fatto avvenuto che – a fronte di una opposizione del segreto di Stato in
termini particolarmente ampi da parte degli indagati – il pubblico ministero,
procedendo al suddetto vaglio preliminare, abbia chiesto al Presidente del
Consiglio dei ministri di confermare l’esistenza del segreto limitatamente a
quattro specifiche circostanze, reputate per l’appunto «essenziali» nell’ottica
della definizione del processo. Ed è in rapporto alla risposta offerta a tale
interpello – non già ai termini originari dell’opposizione del segreto da parte
degli indagati – che lo scrutinio di questa Corte deve esplicarsi.
Risulta in pari tempo
evidente come la valutazione di «essenzialità», effettuata in via preliminare
dal rappresentante della pubblica accusa, non vincoli il giudice chiamato a
verificare – "a valle” della conferma del segreto – se sussistano i presupposti
per la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere, ai sensi dell’art.
41, comma 3, della legge n. 124 del
Altrettanto evidente,
d’altra parte, è che il vaglio di «essenzialità», prodromico all’adozione della
pronuncia di non liquet,
assuma connotazioni differenziate a seconda delle singole figure di dichiaranti
nel processo, attualmente abilitate a opporre il segreto di Stato. Ove si
tratti di testimone, tenuto a rispondere secondo verità alle specifiche domande
che gli sono rivolte, occorre valutare direttamente quale contributo la
conoscenza delle circostanze dedotte nei capitoli di prova potrebbe portare
all’accertamento dei fatti e delle responsabilità; ove si tratti, invece, dell’imputato – che non ha obbligo di verità
e che, come nel caso di specie, potrebbe opporre il segreto a prescindere da
specifiche domande postegli in sede di interrogatorio o di esame – la verifica
in questione, da condurre nella prospettiva dell’esercizio del diritto di difesa,
assume inevitabilmente caratteristiche diverse. Al riguardo, non vi è dubbio
che il riconoscimento dell’incidenza del segreto sul diritto di difesa non
possa rimanere affidato alla mera attestazione del soggetto sottoposto a
processo – che a quel riconoscimento ha interesse – ma debba poggiare su una
prospettazione dotata di adeguato tasso di persuasività. L’inerenza del segreto
al diritto di difesa si traduce in un fatto da cui dipende l’applicazione di
norme processuali, anch’esso oggetto di prova ai sensi dell’art. 187, comma 2,
cod. proc. pen., nel contraddittorio con le parti controinteressate, sia pure con le limitazioni
necessariamente connesse all’esigenza di non rivelare indirettamente le notizie
segrete, che imprimono alla relativa verifica i tratti di un giudizio di tipo
eminentemente presuntivo. In tale appropriata cornice potrà tenersi, quindi,
conto anche di elementi quali la coerenza e la plausibilità della
prospettazione dell’imputato, in rapporto al complesso delle sue deduzioni
difensive e di quelle dei coimputati che versino in posizione analoga.
Ma tutto ciò rientra
nell’ambito di una indagine rimessa alla stessa autorità giudiziaria, senza
investire la legittimità dell’atto di conferma del segreto. Nell’adottare
quest’ultimo, il Presidente del Consiglio dei ministri non si pronuncia affatto
sulla reale idoneità delle informazioni segretate a fornire prove decisive
della non colpevolezza di chi ha opposto il segreto – apprezzamento che non gli
compete – ma solo sull’attitudine di quelle informazioni a ledere, se
divulgate, la sicurezza nazionale. Non si può pertanto parlare, sotto questo
profilo – come fa il ricorrente – di illegittimo "avallo”, da parte del
Presidente del Consiglio dei ministri, di una strategia difensiva basata su un presupposto,
in assunto, distonico rispetto all’esigenza di non creare una "via di fuga”
dalla responsabilità penale, fruibile ad
libitum dal personale dei servizi informativi. La pertinenza del segreto al
fatto oggetto di giudizio è affermata dall’imputato, non dal Presidente del
Consiglio (fuori del caso previsto dall’art. 66, comma 2, disp.
att. cod. proc. pen., che qui non viene in rilievo),
e spetta esclusivamente al giudice valutarla.
8.– Fermi questi
punti, occorre prendere anzitutto in esame, per ragioni di priorità logica, la
censura sviluppata dal ricorrente nella memoria, secondo la quale – con
riferimento ai primi tre punti della richiesta del pubblico ministero – la
conferma del segreto da parte del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe
illegittima «in quanto frutto dell’errata individuazione dell’oggetto della
richiesta».
Le circostanze in
discussione – sulle quali il pubblico ministero aveva chiesto la conferma del
segreto con note del 27 ottobre e 19 novembre 2009 – riguardavano segnatamente
il fatto che il SISMI, durante il periodo in cui era stato diretto dal generale
Pollari: a) avesse «finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che
indirettamente, la sede di Roma, via Nazionale, gestita da Pio Pompa»; b)
avesse «retribuito economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o
indirettamente» il Pompa o
Secondo il
ricorrente, il Presidente del Consiglio dei ministri, travisando il contenuto
della richiesta, avrebbe confermato il segreto su circostanze diverse da quelle
indicate e non rilevanti ai fini del procedimento penale. Quanto ai primi due
punti, il Presidente del Consiglio ha dichiarato, infatti, di confermare il
segreto sui «modi» e sulle «forme» dei finanziamenti della sede di via
Nazionale e delle retribuzioni del Pompa e della Tontodimamma,
quando invece la richiesta atteneva unicamente alla loro esistenza (al «se»,
non al «come»). Analogamente, quanto al terzo punto, dalla motivazione degli
atti di conferma si desumerebbe che il Presidente del Consiglio ha inteso
segretare le direttive e gli ordini impartiti dal SISMI in rapporto al loro
contenuto, trascurando il fatto che la richiesta aveva ad oggetto, anche in
questo caso, solo il «se» il Pompa e
Al riguardo, occorre
peraltro rilevare, in termini generali, che qualora il Presidente del
Consiglio, richiesto di confermare il segreto di Stato su una determinata
notizia, lo confermi su una notizia diversa, non essenziale ai fini del
procedimento in corso, ciò non si traduce automaticamente in un motivo di
illegittimità dell’atto di conferma, censurabile dall’autorità giudiziaria con
lo strumento del conflitto di attribuzione. Nel caso considerato, infatti, non
si assiste ad alcuna lesione delle attribuzioni costituzionali dell’autorità
giudiziaria, giacché la conferma del segreto su una notizia diversa da quella
cui atteneva la richiesta equivale, nei fatti, a mancata conferma del segreto
su tale informazione, atta a rendere operante la previsione dell’art. 41, comma
4, della legge n. 124 del 2007 (in forza della quale «se entro trenta giorni
dalla notificazione della richiesta il Presidente del Consiglio dei Ministri
non dà conferma del segreto, l’autorità giudiziaria acquisisce la notizia e
provvede per l’ulteriore corso del procedimento»).
Nel caso di specie,
la richiesta del pubblico ministero di conferma del segreto – per i termini in
cui era formulata – appariva, in realtà, suscettibile di venire riferita,
riguardo ai primi due punti, tanto all’esistenza dei finanziamenti e delle
retribuzioni in questione, quanto alle loro modalità (evocate, in specie, dalla
formula «in qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente»). La
circostanza che il Presidente del Consiglio abbia confermato il segreto sul quomodo, e non
anche sull’an,
comporterà che solo in rapporto al primo operi lo «sbarramento» all’esercizio
dei poteri dell’autorità giudiziaria conseguente alla conferma.
Analoga conclusione
si impone in rapporto al terzo punto, laddove a fronte di una richiesta
genericamente riferita al fatto che il SISMI abbia impartito ordini o direttive
al Pompa e alla Tontodimamma, il Presidente del
Consiglio ha confermato il segreto sulla scorta di una motivazione tale da
rendere palese che l’esigenza di riserbo attiene al contenuto degli ordini e
delle direttive («anche le direttive e gli ordini impartiti all’interno del
Servizio possono costituire interna corporis da tutelare, se dalla loro divulgazione
vengono in evidenza, come nel caso in esame, profili attinenti alle modalità
organizzative ed a quelle tecnico-operative che è opportuno non disvelare»).
9.– Le considerazioni
che precedono valgono anche a escludere l’ulteriore profilo di illegittimità, in parte qua, degli atti impugnati,
connesso, in assunto, al fatto che – con riferimento ai tre punti considerati –
la richiesta di conferma del segreto avrebbe avuto ad oggetto circostanze
notorie e, perciò, insuscettibili di segretazione. Di pubblico dominio sarebbe,
in specie – secondo il ricorrente – la circostanza che l’appartamento di via
Nazionale, presso il quale è stato effettuato il sequestro di documenti che ha
dato origine al processo, fosse una sede del SISMI (e, dunque, da esso
finanziata), come pure notorio sarebbe il fatto che il Pompa e
A prescindere da ogni
altra considerazione, è assorbente, al riguardo, il rilievo che la legittimità
degli atti impugnati va valutata, non in base al tenore della richiesta di
conferma del segreto, ma a quello della risposta. Nella specie – secondo la
stessa prospettazione del ricorrente – la conferma del segreto, da parte del
Presidente del Consiglio dei ministri, non ha avuto ad oggetto i fatti che si
assumono notori (la generica esistenza dei finanziamenti, delle retribuzioni e
delle direttive: vale a dire, l’an), ma altri fatti (le modalità degli uni e i contenuti
delle altre) che non risultano essere tali.
10.– Quanto agli
altri motivi di ricorso – che investono gli atti di conferma del segreto nella
loro interezza (anche, dunque, per la parte rapportabile al quarto punto della
richiesta, che il ricorrente reputa nodale ai fini del giudizio in corso,
inerente al se il Pompa e
La tesi del
ricorrente poggia, peraltro, su un presupposto inesatto: e, cioè, che il
segreto di Stato, confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri con gli atti
impugnati, concerna direttamente le attività illegali ascritte agli imputati,
quando, invece, esso si riferisce a notizie – pur se in qualche modo
ricollegabili ai fatti per cui si procede – la cui propalazione è stata
reputata suscettibile di esporre a indebita pubblicità le modalità
organizzative e operative dei servizi.
La circostanza è di
tutta evidenza con riguardo alla conferma del segreto sulle forme e modalità di
finanziamento della sede di via Nazionale e di retribuzione del Pompa e della Tontodimamma: notizie che lo stesso ricorrente – come già
segnalato – non reputa, peraltro, neppure essenziali per la definizione del
processo.
Ma il rilievo vale
anche in rapporto al contenuto degli ordini e delle direttive impartite ai
sunnominati Pompa e Tontodimamma, sia nella loro
generalità che con specifico riguardo a eventuali ordini o direttive «di
raccolta di informazioni su magistrati, italiani o stranieri». A quest’ultimo
proposito, occorre, in effetti, rimarcare come le richieste di conferma del segreto
– e, parallelamente a esse, gli atti di conferma – risultino formulati in
termini generici e indifferenziati, senza alcun riferimento né ai soggetti
interessati (o ai criteri per la loro individuazione), né, soprattutto, alle
finalità della raccolta di informazioni considerata. Non è consentito,
pertanto, "interpretare” gli atti impugnati, nel senso di attribuire al
Presidente del Consiglio dei ministri l’intento di imporre, omisso medio, il vincolo del segreto su quanto costituisce il thema demonstrandum
nel processo da cui il conflitto origina: e, cioè, sull’avvenuta formazione –
nell’ambito del SISMI e con impiego delle relative risorse materiali e umane –
di dossier su magistrati e altri
soggetti, reputati «di parte politica avversa» rispetto alla maggioranza
governativa, con lo specifico obiettivo di servirsi del materiale raccolto per
"delegittimare” detti soggetti a mezzo di diffamazioni, calunnie e abusi di
ufficio.
Cade, con ciò,
l’argomento del ricorrente, per cui delle due l’una: o una direttiva nei
termini appena ora indicati non esiste, e allora non vi sarebbe alcun segreto
da tutelare; oppure esiste, ma allora non essa sarebbe "per definizione”
tutelabile a mezzo del segreto di Stato, in quanto avente ad oggetto una
attività «deviata» dei servizi. L’argomento non è, infatti, pertinente in
rapporto al tenore degli atti di conferma del segreto di cui si discute, i
quali – anche per quanto concerne la risposta fornita sul quarto punto della
richiesta – non attengono all’esistenza o meno di una direttiva di tal fatta,
ma hanno un oggetto più generico, non qualificato da riferimenti che evochino
il carattere "non istituzionale” dell’attività in questione (e, anzi,
presuppongono il contrario).
Per il resto, questa
Corte ha già avuto modo di affermare che tra le notizie tutelabili a mezzo del
segreto di Stato possono essere fatte rientrare anche quelle inerenti agli
ordini e alle direttive impartiti dal direttore del servizio informativo (e, in
specie, del SISMI, ora AISI) agli appartenenti al medesimo organismo: e ciò,
non soltanto – come si sostiene nel ricorso – allorché emerga la necessità di
«preservare la credibilità del Servizio nell’ambito dei suoi rapporti
internazionali con gli organismi collegati» (ipotesi estranea al caso di
specie), ma anche (e più in generale) in relazione all’«esigenza di riserbo» –
addotta negli atti oggi impugnati – «che deve tutelare gli interna corporis di ogni Servizio, ponendo al riparo da
indebita pubblicità le sue modalità organizzative ed operative» (sentenza n. 106 del
2009). Tale esigenza può profilarsi anche in rapporto ad altre procedure
interne – quali, nella specie, quelle di finanziamento delle sedi operative e
di corresponsione dei compensi a collaboratori esterni e dipendenti – la cui
divulgazione si presti a pregiudicare la funzionalità dei servizi. Le modalità
operative e organizzative dei servizi risultano d’altronde evocate – come lo
stesso giudice ricorrente riconosce – in più punti dell’elenco delle «materie
di riferimento» delle informazioni suscettibili di costituire oggetto di
segreto di Stato, allegato al d.P.C.m. 8 aprile 2008
(in particolare, punti 6, 7 e 8): elenco peraltro solo esemplificativo (art. 5
del citato decreto).
11.– Contrariamente a
quanto afferma il ricorrente, nessuna contraddizione è, per altro verso,
ravvisabile tra la previsione, da parte dell’ordinamento, della punibilità di
taluni fatti – e, segnatamente, di determinate condotte poste in essere dal
personale dei servizi per finalità estranee a quelle istituzionali – e il
riconoscimento della possibilità che, a seguito dell’opposizione e della
conferma del segreto di Stato sugli «interna
corporis» dei servizi stessi, l’accertamento dei
predetti fatti in sede giurisdizionale rimanga inibito (in senso analogo, sentenza n. 106 del
2009).
Come già ricordato,
infatti, l’opposizione del segreto di Stato, confermata dal Presidente del
Consiglio dei ministri, inibisce all’autorità giudiziaria di acquisire e di
utilizzare, anche in via indiretta, le notizie coperte dal segreto, ma non le
impedisce di procedere in base a elementi autonomi e indipendenti da esse.
Peraltro quando pure
la fonte di prova segretata risultasse essenziale e mancassero altre fonti di
prova – con conseguente applicabilità delle disposizioni che impongono la
pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per l’esistenza del segreto
di Stato (artt. 202, comma 3, cod. proc. pen. e 41,
comma 3, della legge n. 124 del 2007) – non potrebbe scorgersi in ciò alcuna
antinomia. Tale esito – espressamente previsto dalla legge – non è, infatti,
che il portato della evidenziata preminenza dell’interesse della sicurezza
nazionale, alla cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato, rispetto
alle esigenze dell’accertamento giurisdizionale.
12.– Nella memoria,
il ricorrente sostiene a più riprese – senza, peraltro, sviluppare
ulteriormente l’argomento – che l’illegale attività di raccolta e trattamento
di informazioni contestata agli imputati si porrebbe «ai confini con
l’eversione costituzionale».
Deve tuttavia
escludersi che, nella fattispecie in esame, possa venire in rilievo la regola
secondo la quale «in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato
notizie, documenti o cose relativi a fatti […] eversivi dell’ordine
costituzionale»: regola enunciata dall’art. 39, comma 11, della legge n. 124
del 2007, ma che – come ripetutamente sottolineato da questa Corte (sentenza n. 86 del
1977, nonché sentenze n. 106 del 2009
e n. 110 del
1998) – esprime un limite immanente in materia, non potendo il segreto di
Stato fungere da ostacolo all’accertamento di fatti volti a minare quegli
stessi valori che è destinato a preservare.
Affinché divenga
operante tale limite non basta, in effetti, che il fatto oggetto di giudizio si
ponga «ai confini» dell’eversione costituzionale, ma occorre che li superi. Nel
caso di specie, tale evenienza non trova alcun riscontro nella formulazione del
capo di imputazione. Posto che il delitto di cui all’art. 26, comma 3, della
legge n. 124 del 2007 non può venire in rilievo, trattandosi di norma entrata
in vigore successivamente ai fatti per cui si procede, agli imputati è
contestato – con riguardo all’attività in questione – un reato contro la
pubblica amministrazione legato all’indebito utilizzo di risorse pubbliche (il
peculato), aggravato unicamente dalla finalità di eseguire altri reati (art.
61, numero 2, cod. pen.) e non anche dalla finalità
di eversione dell’ordine democratico (art. 1, comma 1, del decreto-legge 15
dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine
democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, dalla
legge 6 febbraio 1980, n. 15). Questa Corte ha già avuto modo, d’altra parte,
di rimarcare come connotato imprescindibile del fatto eversivo – in linea con
quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità – sia la sua
preordinazione «a sovvertire, disarticolandolo, l’assetto complessivo delle
Istituzioni democratiche» (sentenza n. 106 del
2009): caratteristica che non appare riscontrabile nell’attività criminosa
– per quanto grave – oggetto del giudizio in corso.
13.– Nelle
considerazioni in precedenza svolte è insita anche l’infondatezza
dell’ulteriore motivo di ricorso, relativo alla pretesa inconciliabilità degli
atti impugnati – segnatamente in rapporto alla predetta imputazione per
peculato – con i principi espressi, in materia di spesa pubblica, da un insieme
di norme costituzionali (artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost.): principi a fronte
dei quali dovrebbe essere sempre garantito il controllo, anche giurisdizionale,
sulla destinazione delle risorse affidate ai funzionari pubblici – compresi
quelli appartenenti ai servizi informativi – e, in particolare, sul loro
impiego per finalità conformi a quelle che detti funzionari sono tenuti a
perseguire.
A prescindere da ogni
rilievo in ordine alla conferenza dei parametri costituzionali evocati –
contestata dal resistente – è dirimente, al riguardo, la considerazione che il
principio di preminenza del supremo interesse alla sicurezza della Repubblica,
protetto dal segreto di Stato, rispetto a quello del regolare esercizio della
funzione giurisdizionale (e, in specie, della giurisdizione penale, che qui
interessa) non viene meno – stante il suo fondamento giustificativo – per il
solo fatto che si discuta dell’accertamento di responsabilità legate alla
irregolare gestione di risorse pubbliche.
L’esigenza di riserbo
sulle modalità di impiego dei fondi destinati ai servizi di informazione –
stante la peculiare natura dei compiti a essi affidati – è tenuta, d’altra
parte, in particolare considerazione dallo stesso art. 29 della legge n. 124
del 2007 – invocato dal ricorrente a conforto della sua tesi – il quale
prevede, proprio per assecondare tale esigenza, forme speciali di controllo
sulla gestione delle spese dei servizi, derogatorie rispetto a quelle
ordinarie. In particolare, è previsto che le «spese riservate», diversamente da
quelle «ordinarie», vengano inserite esclusivamente nel bilancio preventivo, ma
non in quello consuntivo (comma 3, lettera a),
dovendo essere presentato, riguardo a esse, un rendiconto a parte, trimestrale,
e una relazione finale, annuale, entrambi al Presidente del Consiglio dei
ministri (comma 3, lettera f), nonché
una informativa semestrale sulle «linee essenziali della gestione» al COPASIR
(comma 3, lettera g), così da
prefigurare un controllo di tipo precipuamente politico. Ciò dimostra come, nel
contesto della disciplina che regola il funzionamento dei servizi, non possa
ritenersi affatto anomala l’eventualità che il segreto di Stato risulti idoneo
a incidere sul controllo giurisdizionale relativo alla destinazione delle
dotazioni finanziarie.
14.– Il ricorrente
censura, da ultimo, il fatto che, negli atti di conferma del segreto, il
Presidente del Consiglio dei ministri non abbia comunque chiarito, «a mezzo di
opportuna motivazione», le «ragioni della prevalenza della tutela degli "interna corporis”
su ogni altro interesse tutelato da norme costituzionali»: indicazione che si
dovrebbe ritenere, per contro, indispensabile alla luce dell’attuale quadro
normativo – ispirato, in assunto, a un «sempre maggiore contemperamento tra le
finalità del segreto di Stato e [gli] altri fondamentali interessi tutelati
dalla Costituzione» – nonché del «principio di proporzionalità», affermato da
questa Corte già nella sentenza n. 86 del
1977, a fronte del quale occorrerebbe sempre assicurare, in materia, «un
ragionevole rapporto di mezzo a fine». In questa prospettiva, la tutela delle
esigenze di riserbo sulle modalità organizzative e operative dei servizi non
potrebbe essere indiscriminata – specie quando vengano in considerazione
condotte del personale dei medesimi servizi costituenti reato – ma rimarrebbe
subordinata alla effettiva preminenza, nel caso concreto, degli interessi alla
cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato rispetto agli altri beni costituzionalmente
protetti, tra cui quello della corretta amministrazione della giustizia. Su
tali premesse, il ricorrente invita, quindi,
L’eccezione di
inammissibilità della censura per «genericità», formulata dall’Avvocatura dello
Stato sul rilievo che non si comprenderebbe in base a quale parametro
costituzionale
Nel merito, tuttavia,
la tesi del ricorrente non può essere recepita.
Come già rimarcato,
infatti, deve tenersi fermo – anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 124
del 2007 – quanto chiarito, a tale proposito, dalla pregressa giurisprudenza di
questa Corte (sentenza
n. 86 del 1977): e, cioè, che il giudizio del Presidente del Consiglio dei
ministri in ordine ai mezzi necessari o utili al fine di garantire la sicurezza
della Repubblica, per il suo carattere squisitamente politico e ampiamente
discrezionale, resta soggetto a un sindacato di tipo esclusivamente
parlamentare, essendo quella parlamentare la sede istituzionale «di controllo
nel merito delle più alte e gravi decisioni dell’Esecutivo» (sentenza n. 106 del
2009). Proprio a questo scopo, è previsto che il Presidente del Consiglio
dei ministri debba dare comunicazione al COPASIR di ogni caso di conferma del
segreto, «indicandone le ragioni essenziali», e che detto Comitato
parlamentare, ove ritenga infondata l’opposizione del segreto, debba riferirne
a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni (artt. 40, comma 5, e
41, comma 9, della legge n. 124 del 2007).
Nel conflitto di
attribuzione che, in base alle espresse previsioni degli artt. 202, comma 7,
cod. proc. pen. e 41, comma 7, della legge n. 124 del
2007, l’autorità giudiziaria può proporre nei confronti del Presidente del
Consiglio dei ministri,
Ciò non toglie che la
motivazione della conferma del segreto, anche nei confronti dell’autorità
giudiziaria, sia comunque necessaria (sentenza n. 86 del
1977): essa è, del resto, espressamente richiesta dalla normativa in vigore
(artt. 202, comma 5, cod. proc. pen., 66, comma 2, disp. att. cod. proc. pen. e, per
quanto qui interessa, art. 41, comma, 5, della legge n. 124 del 2007). Ma lo è
in una prospettiva diversa da quella ipotizzata dal giudice ricorrente e, al
tempo stesso, distinta da quella della motivazione al Parlamento, come rivela
anche la circostanza che il legislatore abbia disciplinato in modo autonomo e
separato l’esposizione delle ragioni della segretazione nelle due sedi,
giudiziaria e parlamentare (mentre, diversamente opinando, sarebbe bastato
prescrivere la trasmissione al Comitato parlamentare di una copia del
provvedimento già inviato al giudice all’esito della procedura di interpello). L’obbligo
di motivazione, nel senso precisato, verso l’autorità giudiziaria non mira a
permettere un sindacato sulle modalità di esercizio in concreto del potere di
segretazione (precluso, come detto, in sede giurisdizionale), quanto piuttosto
a giustificare, in termini congruenti e plausibili – nei rapporti tra poteri –
lo «sbarramento» all’esercizio della funzione giurisdizionale conseguente alla
conferma del segreto, dando atto delle considerazioni che consentono di
ricondurre le notizie segretate agli interessi fondamentali riassumibili nella
formula della sicurezza nazionale. Ed è solo quando la motivazione non risponda
a tale scopo – denotando, con ciò, un possibile "sviamento” del potere di
segretazione dai suoi fini istituzionali – che può ravvisarsi un vizio
dell’atto suscettibile di denuncia davanti a questa Corte con lo strumento del
conflitto di attribuzione.
La portata
dell’obbligo motivazionale nei confronti dell’autorità giudiziaria risente
naturalmente dell’esigenza di non vanificare lo stesso provvedimento cui
accede, come avverrebbe se, con una descrizione particolareggiata, si
lasciassero trapelare le informazioni su cui si intende mantenere il riserbo.
Ma, fermo restando ciò, e per quanto qui più interessa, l’adeguatezza della
motivazione all’autorità giudiziaria va rapportata anche alle caratteristiche
della notizia sulla quale viene confermato il segreto, riflettendone il livello
di specificità. Altro è che la conferma riguardi circostanze puntualmente
circoscritte, altro che – in correlazione al tenore della richiesta – essa
investa, invece, notizie più generiche o, addirittura, di tipo "categoriale”.
Nella specie, la richiesta di conferma del segreto atteneva – per limitarsi
all’unico profilo che il ricorrente reputa realmente significativo nel giudizio
di cui è investito – al fatto che, nell’arco di un quinquennio, il SISMI avesse
impartito ordini o direttive al Pompa o alla Tontodimamma
per la «raccolta di informazioni su magistrati, italiani o stranieri», senza
specificazione – come già rimarcato – né di nomi (o di criteri di "selezione”
degli interessati), né di finalità. Di fronte a una richiesta di tale ampiezza
può ritenersi, dunque, sufficiente a giustificare la conferma del segreto il
richiamo, altrettanto generale, del Presidente del Consiglio dei ministri
all’esigenza di non palesare indirettamente, tramite la rivelazione
dell’esistenza e dei contenuti di detti ordini e direttive, le modalità e le
tecniche operative dei servizi medesimi
(comprensive anche dei relativi obiettivi generali). Al riguardo, si
coglie, del resto, con immediatezza la sproporzione tra la specificità del tema
di prova nel giudizio da cui trae origine il conflitto e l’ampiezza dell’area
che, mediante il conflitto stesso, si vorrebbe sottrarre alla tutela apprestata
dallo strumento del segreto.
15.– Neppure, poi,
può essere accolta la diversa richiesta formulata dal giudice ricorrente nella
parte conclusiva della memoria, laddove si sollecita questa Corte ad appurare –
tramite opportuna indagine istruttoria – se, nell’ambito del materiale
segretato, esistano realmente le asserite prove della non colpevolezza degli
imputati e se le stesse «siano legittimamente coperte da segreto»: indagine, in
assunto, pienamente praticabile – giacché, per espressa previsione dell’art.
41, comma 8, della legge n. 124 del 2007, «in nessun caso il segreto di Stato è
opponibile alla Corte costituzionale» – e che non comporterebbe, altresì,
secondo il ricorrente, un sindacato di merito sull’esercizio del potere
discrezionale, ma solo la verifica, in fatto, che «non vi sia stato un palese
abuso dell’istituto del segreto di Stato e che la sua opposizione non sia stato
un mero escamotage degli indagati per
sottrarsi ad un giudizio penale».
La richiesta in questione
poggia, in effetti, su una non consentita sovrapposizione tra l’oggetto del
processo penale, da cui il conflitto di attribuzione trae origine, e l’oggetto
di quest’ultimo, mirando nuovamente a rimettere a questa Corte valutazioni che
– in chiave prognostica – restano invece affidate all’autorità giudiziaria.
Come
già sottolineato, nel momento in cui è chiamato a confermare il segreto di
Stato da altri opposto nell’ambito di un procedimento penale, il Presidente del
Consiglio dei ministri non si esprime in alcun modo sull’attitudine delle
notizie in discussione a incidere sugli esiti del procedimento in corso –
valutazione che non gli compete, essendo rimessa istituzionalmente al giudice
di detto procedimento – ma solo sulla loro idoneità a compromettere, se
propalate, la sicurezza nazionale. Correlativamente, l’atto di conferma del
segreto non potrebbe essere ritenuto illegittimo da questa Corte, in sede di
conflitto di attribuzione, sulla base di una considerazione "eccentrica”
rispetto ai suoi contenuti: e, cioè, a seguito dell’ipotetica verifica che il
materiale segretato non fornisce, in realtà, elementi utili per la definizione
del giudizio, siano essi a sostegno delle tesi dell’accusa, ovvero – come nel
caso qui in esame – a supporto di quelle della difesa.
per
questi motivi
dichiara
che spettava al Presidente del Consiglio dei ministri emettere le note del 3
dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n. 52285/181.6/2/07.IX.I,
con le quali è stata confermata, nei termini ivi indicati, l’esistenza del
segreto di Stato opposto da Nicolò Pollari e da Pio Pompa nel corso di un
procedimento penale a loro carico.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 febbraio 2012.