ORDINANZA N. 7
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
-
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- Luigi MAZZELLA "
-
-
-
-
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
ha pronunciato
la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo
263 del codice civile promosso dal Tribunale ordinario di Bolzano nel
procedimento vertente tra K.A e K.D. con ordinanza del 13 maggio 2011, iscritta
al n. 177 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale,
dell’anno 2011.
Visto
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella camera di consiglio del 14 dicembre 2011 il Giudice relatore Paolo
Grossi.
Ritenuto che – nel corso di un giudizio civile promosso (con
citazione notificata il 1° dicembre 2008) da un padre per ottenere la pronuncia
di non veridicità del riconoscimento del figlio naturale dal medesimo
effettuato in data 18 agosto 2003 – il Tribunale ordinario di Bolzano, con
ordinanza emessa il 13 maggio
che
il rimettente censura, innanzitutto, la disparità di trattamento (che sorge
confrontando l’azione de qua con quella di
disconoscimento di paternità ex artt.
244 e segg. cod. civ.) tra i minori nati o meno in costanza di matrimonio,
giacché al padre di figlio legittimo è imposto, a pena di decadenza, di
iniziare l’azione di disconoscimento entro il termine annuale decorrente o
dalla nascita del figlio o dal momento in cui viene a conoscenza dell’adulterio
della moglie, commesso in periodo di presunto concepimento, o ancora dal
momento in cui egli sa della propria impotentia generandi, mentre al padre naturale che ha riconosciuto
il figlio come proprio, con atto ufficiale, non è posta limitazione alcuna per
l’impugnazione della volontaria dichiarazione effettuata;
che invero,
secondo il Tribunale, la situazione del figlio legittimo – il quale, decorso il
termine di decadenza, potrà contare sul persistere del legame (e sui diritti
economici ed ereditari derivanti dal suo status),
a meno che non intenda egli stesso, raggiunta la maggiore età, promuovere il
giudizio di disconoscimento – diverge dalla situazione del figlio naturale, che
continua ad essere esposto «in eterno» al rischio che il dichiarato padre possa
ricredersi e impugnare il riconoscimento in ogni momento; e ciò anche in quei
casi in cui il riconoscimento sia stato effettuato nel dubbio o addirittura
nella piena consapevolezza della non verità della dichiarazione;
che,
pertanto, nel caso dell’impugnazione in esame, il favor minoris rischia di essere sacrificato non
tanto al favor veritatis,
quanto piuttosto a decisioni soggettive del riconoscente, che per motivi di
opportunità riesce a far cessare unilateralmente ogni vincolo costituito ed ogni
responsabilità liberamente assunta in precedenza con il riconoscimento;
che il
giudice a quo, pur consapevole che la
questione è già stata rimessa alla Corte costituzionale e decisa con sentenza n. 158 del
1991, ritiene tuttavia che essa meriti nuovo esame alla luce dei numerosi
interventi legislativi, diretti ad attuare la piena parità dei diritti dei
figli, minori e non, siano essi nati in costanza di matrimonio o da genitori
non sposati;
che, a tale
riguardo, egli cita l’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni
in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), che ha
esteso ai figli nati fuori dal matrimonio la nuova disciplina dell’art. 155
cod. civ. in materia di diritti dei minori in caso di dissolvimento del
matrimonio; gli artt. 250 e 284 cod. civ., che tutelano il preminente interesse
del minore a prescindere da indagini sulla verità biologica della filiazione;
nonché l’art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita), che, in materia
di procreazione assistita, esclude l’esperibilità
dell’azione di disconoscimento della paternità o di impugnazione del
riconoscimento, da parte del genitore informato e consenziente
all’inseminazione;
che, secondo
il rimettente, per giustificare la diversità di trattamento riservata a figli
legittimi e figli naturali, non pare più sostenibile la prevalenza data al favor veritatis,
nel caso di figli nati fuori del matrimonio, e data invece al favor legitimitatis,
in caso di figli legittimi, per i quali non sia tempestivamente esperita
l’azione di disconoscimento entro il termine di decadenza;
che,
inoltre, la diversità di trattamento non appare giustificata neppure se viene
considerata dal lato del padre legittimo o naturale, attore nelle rispettive
cause, entrambe destinate ad interrompere il vincolo tra padre e figlio,
considerato che al padre legittimo è riconosciuto uno spatium deliberandi annuale, entro il quale
decidere se agire per troncare il rapporto genitore-figlio, mentre al secondo è
dato illimitato spazio per fare altrettanto, anche se questi abbia (anche
eventualmente in piena consapevolezza della non verità della sua dichiarazione)
costituito il vincolo con atto formale;
che, infine,
in termini di rilevanza, il rimettente afferma che, solo a causa
dell’imprescrittibilità dell’azione de
qua, a distanza di cinque anni è permesso all’attore (che pure nutriva una
evidente incertezza sulla sua paternità in ragione dei dubbi in merito
immediatamente appalesatigli dalla madre prima ancora del parto) di ritrattare
il riconoscimento e interrompere il vincolo, da lui stesso costituito; mentre
l’azione gli sarebbe preclusa, ove sottoposta al termine annuale di decadenza,
ampiamente decorso dal momento della comunicazione dei menzionati dubbi sulla
paternità del nascituro;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso
per l’inammissibilità della questione (poiché tendente ad
ottenere una pronuncia additiva che venga a sostituirsi alla discrezionalità
del legislatore) e, comunque, per la sua manifesta infondatezza;
che,
nel merito, la difesa erariale rileva che la Corte (pronunciatasi sulla norma
censurata con le sentenze
n. 134 del 1985, n. 158 del 1991
e n. 112 del
1997) ha già affermato che le due situazioni non sono comparabili, in
quanto per il figlio naturale riconosciuto vale il principio che ogni falsa
apparenza di status deve cadere,
donde l’imprescrittibilità dell’azione; e che per il figlio legittimo vale
viceversa la presunzione pater est is quem iustae
nuptiae demonstrans
superabile soltanto con l’azione di disconoscimento da proporre nel breve
termine decadenziale di un anno, in attuazione del
principio del favor legitimitatis;
che,
dunque, l’Avvocatura esclude che la norma censurata si
ponga in contrasto con gli evocati parametri: non con l’art. 3 Cost., in
quanto le due situazioni in esame non possono essere comparate; non con l’art.
2 Cost., perché lo scioglimento dai vincoli assunti dallo pseudo-genitore verso
il preteso figlio è conseguenza della realizzazione dell’interesse oggettivo
dell’ordinamento alla verità dello status
personale di filiazione; non con gli artt. 29 e 30 [recte: artt. 30 e 31] Cost. che
non sono invocabili quando il legame familiare venga meno perché privato del
fondamento della verità della filiazione.
Considerato
che il Tribunale ordinario di Bolzano censura, in riferimento agli
articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, l’articolo
263 del codice civile, «nella parte in cui non sottopone ad un termine annuale
di decadenza il diritto del genitore di esperire l’azione di impugnazione del
riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità»;
che, in particolare, il rimettente ritiene
ingiustificata la disparità del trattamento che (prendendo
quale tertium comparationis il
termine di proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità ex art. 244 cod. civ.) sarebbe riservata
ai
minori in
ragione del fatto dell’essere o meno nati in costanza di matrimonio (giacché la
situazione del figlio legittimo – il quale, decorso il termine di decadenza
sancito da tale ultima disposizione, potrà contare sul persistere del legame e
sui diritti economici ed ereditari derivanti dal suo status – diverge dalla situazione del figlio naturale, che continua
ad essere esposto «in eterno» al rischio che il dichiarato padre possa
ricredersi e impugnare il riconoscimento in ogni momento); e ritiene
altrettanto ingiustificata la analoga disparità riservata al padre legittimo
rispetto a quello naturale (considerato che al padre legittimo è riconosciuto
uno spatium deliberandi
annuale, entro il quale decidere se agire per troncare il rapporto
genitore-figlio, mentre al secondo è dato illimitato spazio per fare
altrettanto); che la norma in esame è già stata oggetto di scrutini di
costituzionalità (in riferimento ad analoghi profili) definiti nel senso della
inammissibilità delle relative questioni dalle sentenze n. 134 del
1985 e n.
158 del 1991;
che, nella
prima decisione (sulla richiesta di sostituire la contestata imprescrittibilità
dell’impugnazione de qua con «termini
brevi di decadenza per l’esercizio dell’azione») questa Corte ha affermato che,
«a
prescindere dalla difficoltà di stabilire un razionale dies a quo per il termine invocato […], sta la decisiva considerazione
che non la Corte, ma solo il legislatore, potrebbe stabilire la durata del
termine da sostituire all’imprescrittibilità disposta dall’art. 263 c.c.» (sentenza n. 134 del
1985);
che, nella
seconda pronuncia (su altra questione sollevata «per disparità di trattamento
rispetto ai termini di proposizione dell’azione di cui all’art. 244 del codice
civile»), questa Corte ha altresì sottolineato che «il
profilo di disparità di trattamento tra il figlio naturale riconosciuto, permanentemente
esposto alla perdita del proprio status,
data la imprescrittibilità dell’azione ex
art. 263 del codice civile, e il figlio legittimo, per il cui disconoscimento
il padre dispone di azione sottoposta a termine di decadenza annuale ex art. 244 del codice civile, non
sussiste», in quanto «le due situazioni non sono comparabili, dato che per la
prima, come s’è detto, vale il principio superiore che ogni falsa apparenza di status deve cadere, da cui la
imprescrittibilità dell’azione; per la seconda vale la presunzione pater est is quem iustae nuptiae
demonstrant superabile solo – per il favor legitimitatis
– con la decadenza nel breve termine di un anno dell’azione di
disconoscimento»;
che
altresì, citando il proprio precedente del 1985, questa Corte ha aggiunto che –
se «non può ignorarsi che alla coscienza collettiva, mutando il rapporto di
valore tra appartenenza familiare e isolata identità individuale, potrebbe
apparire eccessivamente rigorosa la imprescrittibilità dell’azione di
impugnazione del riconoscimento non veridico qualora si volesse bilanciare la
incertezza della durata dello status del
riconosciuto con l’interesse sociale alla sua verità» – tuttavia, «non il
giudice delle leggi, ma “solo il legislatore potrebbe stabilire la durata del
termine da sostituire all’imprescrittibilità disposta dall’art. 263 del codice
civile”» (sentenza
n. 158 del 1991);
che
il rimettente
(ben consapevole che la sollevata questione è già stata esaminata da questa
Corte, di cui peraltro richiama solo la sentenza n. 158
del 1991) ritiene che essa meriti nuovo esame alla luce della adozione di
interventi legislativi diretti ad attuare la piena parità dei diritti dei
figli, minori e non, siano essi nati in costanza di matrimonio o da genitori
non sposati, non essendo a suo dire più sostenibile, per giustificare la
diversità di trattamento riservata a figli legittimi e figli naturali, la
prevalenza data al favor veritatis,
nel caso di figli nati fuori del matrimonio, e data invece al favor legitimitatis,
in caso di figli legittimi, per i quali non sia tempestivamente esperita l’azione
di disconoscimento entro il sopra ricordato termine di decadenza;
che,
tuttavia, i motivi evidenziati nelle citate decisioni – estensibili
anche
all’omologo ulteriore profilo di asserita disparità di trattamento tra padre
naturale e legittimo e sintetizzabili nella non comparabilità delle situazioni
poste a raffronto, nella non configurabilità di una
pronuncia additiva a “rime obbligate” e nella conseguente esclusiva spettanza
al legislatore del potere di stabilire la durata del termine eventualmente da
sostituire all’imprescrittibilità disposta dalla norma censurata – risultano tuttora validi
pur in presenza dei richiamati interventi legislativi;
che,
infatti, tanto la disciplina degli artt. 250 e 284 cod. civ. quanto quella
dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in
materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), operano
(al fine di omologare la condizione e la tutela dei diritti di tutte le
categorie di figli, in particolare se minori) in contesti connotati dalla
presenza di uno status di filiazione
da un determinato genitore, rispetto al quale non si pongono problemi di
contestazione in termini di difetto di veridicità del medesimo status;
che,
d’altra parte, quanto alla impossibilità per il coniuge o il convivente
consenziente di proporre, successivamente al ricorso a (pur vietate) tecniche
di procreazione medicalmente assistita eterologa, il disconoscimento della
paternità ovvero l’impugnazione di cui alla norma censurata, la previsione
dell’art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di
procreazione medicalmente assistita) configura una ipotesi di intangibilità ex lege dello status, la quale (come tale) incide non
già sul profilo della imprescrittibilità dell’azione di cui alla norma
censurata, quanto piuttosto su quello completamente diverso (e qui non
censurato) della legittimazione alla impugnazione medesima;
che
pertanto, da un lato, va ribadita la non comparabilità (sotto il profilo
ontologico e teleologico) delle situazioni poste a raffronto in
rapporto ai limiti temporali di proponibilità dell’impugnazione ex art. 263 cod. civ. e dell’azione di
cui all’art. 244 cod. civ. (limiti
peraltro diversamente ascrivibili, gli uni, alla categoria dei
termini di prescrizione e, gli altri, a quella dei termini di decadenza), giacché
l’imprescrittibilità dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale
per difetto di veridicità trae giustificazione dalla superiore esigenza di far
cadere ogni
falsa apparenza di status, mentre il
breve termine di decorrenza dell’azione di disconoscimento di paternità trova
ragione nel favor legitimitatis
quale espressione della presunzione di paternità rispetto al figlio concepito
durante il matrimonio;
che,
d’altro lato, va affermato che il petitum richiesto mira nuovamente ad ottenere una
pronuncia manipolativa che non si configura affatto “a rime obbligate”, in
quanto la contestata previsione della imprescrittibilità (che dalla norma
impugnata è riferita a tutti i soggetti legittimati all’azione, mentre dal
rimettente è contestata esclusivamente con riferimento al padre) potrebbe
essere sostituita in svariati modi, e quindi non necessariamente prevedendo, al
posto di un altrettanto ipotizzabile ordinario o breve termine di prescrizione,
solo il diverso strumento del termine di decadenza (il quale, a sua volta, non
necessariamente dovrebbe coincidere con quello annuale di cui all’art. 244 cod.
civ.);
che,
parimenti, neppure risulterebbero soluzioni costituzionalmente imposte quella
di eliminare o meno l’imprescrittibilità a seconda dei diversi soggetti che
agiscono per impugnare il riconoscimento, ovvero quella ineludibile (in quanto
diretta ad evitare gli stessi inconvenienti che hanno portato alla declaratoria
di illegittimità costituzionale proprio dell’art. 244 cod. civ.: sentenze n. 170 del
1999 e n.
134 del 1985) di individuare un momento di decorrenza dell’eventuale
termine alla impugnazione che non vulneri il diritto di azione del soggetto,
fintanto che sussista una assenza di consapevolezza in capo ad esso della
esistenza stessa del presupposto della non veridicità del riconoscimento;
laddove – poiché il riconoscimento del figlio naturale è un atto di volontà
corrispondente normalmente, ma non sempre, alla convinzione di chi lo opera di
essere il genitore naturale – il detto dies a quo
potrebbe anche non coincidere con quello della conoscenza di fatti che
escludono la paternità naturale, bensì con quello del pentimento di chi ha
operato il riconoscimento (sentenza n. 134 del
1985);
che,
prospettandosi un così ampio spettro di possibili interventi, va altresì
riaffermato che il potere di stabilire la natura, la durata e la modulazione
del termine per la proposizione dell’impugnazione in esame spetta al
legislatore, al quale solo è consentito di operare, anche in ragione
dell’evolversi della coscienza collettiva, il necessario bilanciamento del
rapporto tra tutela della appartenenza familiare e tutela della identità
individuale; bilanciamento che, peraltro, si è mosso (nella presente realtà sociale)
piuttosto nella direzione (opposta rispetto a quella auspicata dal rimettente)
della tendenziale corrispondenza tra certezza formale e verità naturale;
che,
d’altronde, questa Corte ritiene che la crescente considerazione del favor veritatis (la
cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel
campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati
delle indagini: sentenze
n. 50 e n.
266 del 2006) non si ponga in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica
della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del
medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto
alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di
filiazione veridico (sentenze 322 del
2011, n. 216
e n. 112 del
1997);
che,
pertanto, la questione è manifestamente inammissibile.
Visti gli
artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara
la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 263 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2,
3, 30 e 31 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Bolzano, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2012.
F.to:
Paolo GROSSI, Redattore
Depositata in