Sentenza n. 186 del 2011

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SENTENZA N. 186

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           MADDALENA                                Presidente

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                Giudice

-           Alfonso                       QUARANTA                                           ”

-           Franco                         GALLO                                                    ”

-           Luigi                            MAZZELLA                                            ”

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             ”

-           Sabino                         CASSESE                                                ”

-           Giuseppe                     TESAURO                                               ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 187 sexies, commi 1 e 2, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico dellle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento vertente tra S. M. ed altra e la C.O.N.S.O.B. con ordinanza del 5 ottobre 2010, iscritta al n. 404 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visti l’atto di costituzione di S. M. ed altra nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nell’udienza pubblica del 10 maggio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi l’avvocato Franco Coppi per S. M. ed altra e l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza depositata il 5 ottobre 2010, la Corte di appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), «nella parte in cui dispone che l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, previste dal medesimo capo del decreto legislativo, importi sempre la confisca del prodotto, del profitto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito e che, ove la confisca non possa essere eseguita direttamente, essa debba avere obbligatoriamente luogo su “denaro, beni o altre utilità di valore equivalente”».

La Corte rimettente premette di essere investita del giudizio di opposizione a una delibera della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), con cui è stata applicata a una persona fisica e a una società per azioni – ai sensi, rispettivamente, dell’art. 187-bis e dell’art. 187-quinquies del d.lgs. n. 58 del 1998 – la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 1.800.000 ciascuna, per abuso di informazioni privilegiate. Con lo stesso provvedimento è stata disposta, altresì, ai sensi dell’art. 187-sexies del medesimo decreto legislativo, la confisca del «valore economico delle azioni costituente il prodotto dell’illecito contestato, equivalente alla somma dei valori dei beni utilizzati e del profitto conseguito». Il relativo importo corrisponde, in specie, tanto alla somma di denaro impiegata per acquistare le azioni cui si riferivano le informazioni privilegiate, pari a euro 19.255.857, quanto al profitto realizzato tramite la loro rivendita, pari a euro 1.467.474.

Il giudice a quo riferisce, altresì, di avere emesso, in pari data, sentenza non definitiva, provvedendo all’ulteriore corso della causa limitatamente al capo relativo alla confisca, con riguardo al quale gli opponenti hanno proposto una specifica censura, eccependo l’illegittimità costituzionale della norma applicata, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.

Ad avviso della Corte torinese, la questione sarebbe rilevante. Essendo ravvisabili, nella specie, gli estremi della violazione contestata – come accertato con la sentenza non definitiva in pari data – dovrebbe, infatti, obbligatoriamente procedersi, a norma del comma 1 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, alla confisca non soltanto del profitto, ma anche del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo.

In forza del comma 2 dello stesso art. 187-sexies, inoltre, ove la misura ablatoria non risulti eseguibile in modo diretto, essa dovrebbe essere obbligatoriamente sostituita dalla confisca di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente. Non sarebbe, infatti, praticabile un’interpretazione restrittiva, che consenta di escludere tale forma di confisca «con particolare riferimento ai beni e comunque ai mezzi economici corrispondenti non già al profitto dell’illecito, ma anche al controvalore dei titoli che sono stati movimentati».

Ciò comporterebbe che, a fronte di una violazione che ha determinato un profitto di euro 1.467.474, dovrebbe essere disposta, nella specie, la confisca di titoli per un valore pari a euro 20.723.331.

Di qui, dunque, la non manifesta infondatezza della questione. Nonostante la sua qualificazione come «confisca», che evoca una funzione in senso lato preventiva, la misura ablativa in discorso avrebbe, in effetti, un carattere sostanzialmente sanzionatorio. In tale ottica, sarebbe tuttavia palese la sproporzione fra l’ammontare, pur rilevante, della sanzione amministrativa pecuniaria edittale e quello della sanzione di cui si discute: sanzione che resta, peraltro, totalmente disancorata dalla concreta gravità della violazione e non consente al giudice alcuna graduazione, analoga a quella praticabile in rapporto alla «sanzione in senso proprio».

In materia, sarebbe, d’altra parte, non infrequente che al conseguimento di un profitto «non particolarmente ingente» faccia riscontro l’utilizzazione di mezzi economici – e, dunque, di valori da confiscare obbligatoriamente – per «importi molto consistenti e, soprattutto, totalmente disancorati dal rapporto proporzionale con il profitto stesso».

La norma censurata verrebbe a porsi, di conseguenza, in contrasto tanto con l’art. 3 Cost., per la palese irragionevolezza della sanzione in tal modo comminata; quanto con l’art. 27 Cost., per violazione del «principio di proporzionalità», da esso enucleabile e da ritenere valevole non soltanto in rapporto alle sanzioni penali, ma a qualsiasi «risposta sanzionatoria» prefigurata dall’ordinamento.

2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile, nella parte in cui investe il comma 2 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 (concernente la confisca per equivalente), in quanto nel giudizio principale si discuterebbe del solo comma 1. In relazione a tale comma, la questione sarebbe del pari inammissibile, per l’incoerenza della relativa motivazione rispetto alla fattispecie concreta: il profitto di 1.467.474 euro, realizzato nella specie grazie all’operazione illecita, sarebbe, infatti, tutt’altro che «non particolarmente ingente», anche nel rapporto proporzionale con l’investimento, tenuto conto del brevissimo lasso temporale entro il quale è stato conseguito.

Nel merito, la questione sarebbe, comunque, infondata.

La confisca obbligatoria prevista dalla norma censurata avrebbe, infatti, non diversamente da quella contemplata dal codice penale, natura di misura di sicurezza patrimoniale. Sarebbe pertanto logico che, al fine di prevenire la commissione degli illeciti, la misura ablativa colpisca un «quid pluris» rispetto al profitto: diversamente, l’autore del fatto non correrebbe alcun rischio nel commetterlo, se non quello di vedersi privato del guadagno (esso pure illecito).

Nella specie, per di più, le violazioni attengono al settore – delicatissimo, per i suoi riflessi sui mercati anche internazionali – dell’intermediazione finanziaria: onde misure anche di particolare rigore risulterebbero ampiamente giustificate alla luce dei principi costituzionali e in particolare delle previsioni degli artt. 41 e 47 Cost.

3. – Si sono costituti, altresì, gli opponenti nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sia accolta.

Secondo le parti private, la norma censurata sarebbe fonte di irragionevoli disparità di trattamento, lesive dell’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo.

Da un lato, perché sottoporrebbe gli illeciti amministrativi di abuso di mercato a un regime più severo di quello stabilito per i corrispondenti delitti: solo nell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, e non anche nel precedente art. 187, concernente le figure delittuose, si prevede, infatti, che la confisca debba essere «sempre» disposta.

Dall’altro lato, perché prevede come obbligatoria la confisca dei beni strumentali in rapporto a semplici illeciti amministrativi, quando invece le cose utilizzate per commettere reati – e, dunque, fatti per definizione più gravi – sono soggette, in via generale, a confisca solo facoltativa, ai sensi dell’art. 240 del codice penale. Neppure la normativa penalistica ispirata ad intenti di maggior rigore – ossia quella del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 – conterrebbe, in effetti, una disposizione analoga a quella denunciata, lasciando perciò la confisca dei beni in parola alla discrezionalità del giudice.

Risulterebbe palese, per altro verso, la violazione del principio di proporzione, ricollegabile anche alla finalità rieducativa della sanzione (art. 27, terzo comma, Cost.): principio a fronte del quale il legislatore non può perseguire finalità preventive con strumenti ispirati esclusivamente al criterio dell’efficienza politico-criminale, ma deve comparare gli effetti positivi prodotti dalla repressione dell’illecito al sacrificio imposto ai diritti fondamentali dell’agente. Nel suo «inequivocabile connotato punitivo», la misura ablativa finirebbe in effetti per essere, nel caso oggetto del giudizio a quo, la sanzione principale, risultando superiore di dieci volte alla sanzione amministrativa pecuniaria.

            Diversamente dalle altre sanzioni, inoltre, la misura prevista dalla norma censurata è configurata in termini di «mero automatismo», con conseguente impossibilità, per il giudice, di adeguarla alla gravità del fatto e alla colpevolezza del suo autore.

Considerato in diritto

            1. – La Corte di appello di Torino dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), «nella parte in cui dispone che l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, previste dal medesimo capo del decreto legislativo, importi sempre la confisca del prodotto, del profitto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito e che, ove la confisca non possa essere eseguita direttamente, essa debba avere obbligatoriamente luogo su “denaro, beni o altre utilità di valore equivalente”».

Rilevato come la misura in questione, benché qualificata come confisca, abbia un carattere eminentemente sanzionatorio, la Corte rimettente denuncia la palese sproporzione fra l’ammontare, pur rilevante, della sanzione amministrativa pecuniaria edittale, prevista per gli abusi di mercato (abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato), e le conseguenze economiche che possono derivare dalla sanzione di cui si discute; rimarcando, altresì, come detta sanzione, nella sua automaticità, resti totalmente disancorata dalla concreta gravità della violazione e non consenta al giudice alcuna graduazione. In materia, sarebbe, in effetti, non infrequente che al conseguimento di un profitto «non particolarmente ingente» si accompagni l’utilizzazione di mezzi economici – e, dunque, di valori da confiscare obbligatoriamente – per «importi molto consistenti e, soprattutto, totalmente disancorati dal rapporto proporzionale con il profitto stesso».

La norma censurata si porrebbe, di conseguenza, in contrasto tanto con l’art. 3 Cost., per la palese irragionevolezza della sanzione in tal modo comminata; quanto con l’art. 27 Cost., per violazione del principio di proporzionalità, da reputare riferibile anche alle sanzioni amministrative.

            2. – Le eccezioni di inammissibilità della questione formulate dall’Avvocatura generale dello Stato non sono fondate.

            2.1. – Contrariamente a quanto assume la difesa dello Stato, nel giudizio a quo viene in rilievo non soltanto la disposizione del comma 1 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 – che rende obbligatoria la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo – ma anche quella del comma 2, in forza della quale detta confisca, ove non eseguibile in modo diretto, può aver luogo per equivalente. Nella specie si discute, infatti – secondo quanto emerge dall’ordinanza di rimessione – di una confisca da eseguire proprio in tale ultima forma.

            2.2. – Egualmente infondata è l’altra eccezione, connessa all’asserita incoerenza della motivazione del dubbio di costituzionalità relativo al comma 1 rispetto alla fattispecie concreta, non potendo il profitto di euro 1.467.474 – scaturito nel frangente dall’operazione illecita – essere reputato «non particolarmente ingente», anche in considerazione del ristretto lasso temporale in cui è stato conseguito.

            In senso contrario, va osservato come, con l’argomentazione cui allude l’Avvocatura dello Stato, il giudice a quo miri, in realtà, essenzialmente a porre in risalto la mancanza di un rapporto predefinito tra il valore dei beni suscettibili di confisca in base alla norma denunciata e il profitto realizzato: circostanza che può rendere le due grandezze largamente sperequate. Nel caso di specie, se pure il profitto di euro 1.467.474 non può considerarsi di per sé esiguo, la confisca “di valore” corrispondente ai beni strumentali (euro 19.255.857) lo supererebbe comunque di oltre tredici volte, così come supererebbe di oltre dieci volte l’ammontare della sanzione pecuniaria inflitta (euro 1.800.000).

            In assenza di limiti prestabiliti, d’altra parte – ed è questo il senso della deduzione del rimettente – il divario fra i due valori potrebbe amplificarsi ulteriormente. Operazioni di abuso di informazioni privilegiate o di manipolazione del mercato produttive di profitti assai ridotti (o – si potrebbe aggiungere – di nessun profitto, se non addirittura risoltesi in perdita a causa di fattori sopravvenuti) e in rapporto alle quali venga inflitta, per queste o altre ragioni, una sanzione amministrativa pecuniaria prossima ai minimi edittali, potrebbero dare luogo alla confisca obbligatoria di beni per un valore elevatissimo – posseduti in modo pienamente legittimo dall’agente (o dall’ente nel cui interesse o a cui vantaggio l’illecito è stato commesso) – solo perché estremamente ingente è stato l’importo dell’“investimento” operato.

            In questa prospettiva – secondo il rimettente – l’ammontare della sanzione di natura patrimoniale di cui si discute finirebbe per dipendere dalle circostanze del caso concreto, senza, peraltro, che dette circostanze riflettano necessariamente il disvalore del fatto. La “rigidità” e l’“automatismo” della misura rischierebbero, conseguentemente, di provocare una rottura del rapporto di equilibrio tra entità della risposta sanzionatoria, da un lato, e offesa, dall’altro.

            Risulta, dunque, conclusivamente evidente come l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato sovrapponga i due piani della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione. La possibilità che la norma censurata imponga la confisca di valori assai elevato a fronte di fatti che hanno determinato un profitto «non particolarmente ingente» è addotta dal giudice a quo a dimostrazione dell’attitudine della norma stessa a produrre risultati contrastanti con i parametri costituzionali evocati: il che non comporta, tuttavia, che, ai fini dell’ammissibilità della questione, la situazione considerata debba risultare riscontrabile anche nella fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo (in senso analogo, sentenza n. 250 del 2010).

            3. – La questione è, tuttavia, inammissibile per una diversa ragione, legata alla mancata formulazione, da parte del rimettente, di un petitum dotato dei necessari requisiti di chiarezza e univocità.

            Alla stregua del dispositivo dell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo sembrerebbe, infatti, richiedere l’integrale ablazione della disciplina denunciata: ciò, malgrado l’uso della locuzione limitativa «nella parte in cui», venendo in pratica riprodotto – dopo detta locuzione – l’intero contenuto precettivo tanto del comma 1 che del comma 2 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.

Di contro, in sede di motivazione sulla rilevanza, il giudice a quo parrebbe annettere il vulnus costituzionale esclusivamente alla previsione della confisca obbligatoria e per equivalente del prodotto e dei beni strumentali alla commissione dell’illecito. La Corte torinese reputa, infatti, rilevante la questione in quanto – essendo ravvisabili nella fattispecie oggetto di giudizio gli estremi della violazione contestata – la misura ablativa risulterebbe applicabile «non solo con riferimento al profitto […], ma anche con riferimento al prodotto ed ai beni utilizzati per commettere l’illecito». Nella medesima ottica, il giudice a quo esclude, altresì – sempre in sede di motivazione sulla rilevanza – la praticabilità di una interpretazione della norma censurata che sottragga all’ambito di operatività della confisca per equivalente i beni «corrispondenti non già al profitto dell’illecito, ma anche al controvalore dei titoli che sono stati movimentati nell’ambito della condotta ritenuta di rilievo»: «controvalore» che, nella circostanza, la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) ha ritenuto di poter qualificare come «prodotto» dell’illecito.

Nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo sembra concentrare, nondimeno, le sue censure – secondo quanto già dianzi accennato – sulla confisca dei soli beni strumentali, dolendosi essenzialmente del sensibile divario che, in materia di abusi di mercato, può non di rado sussistere fra il profitto conseguito e i «mezzi economici» impiegati nell’operazione illecita: divario che farebbe sì che la misura ablatoria – coinvolgendo obbligatoriamente entrambi, anche nella forma per equivalente – rimanga «totalmente disancorata da parametri riferibili alla gravità in concreto della fattispecie» e, «soprattutto, totalmente disancorati dal rapporto proporzionale col profitto stesso». Al contempo, la Corte torinese sembrerebbe addebitare tale risultato – produttivo dell’asserita lesione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità – precipuamente al fatto che la misura sanzionatoria in discussione «non consente al giudice alcuna graduazione, analoga a quella che è invece al medesimo demandata in relazione alla determinazione in concreto della sanzione in senso proprio».

A fronte di quanto precede, l’intervento richiesto dal giudice a quo resta, dunque, oscuro sia quanto all’oggetto che quanto al contenuto. Sotto il primo profilo, non si comprende, cioè, se la declaratoria di illegittimità costituzionale debba concernere – secondo il rimettente – tutte le entità cui si riferisce la norma denunciata, ovvero solo il prodotto e i beni strumentali, ovvero ancora esclusivamente tali ultimi beni. Sotto il secondo profilo, non emerge, del pari, in modo univoco se venga richiesta a questa Corte una pronuncia ablativa, che rimuova puramente e semplicemente la speciale ipotesi di confisca di cui discute (con l’effetto di riportare la fattispecie nell’ambito della disciplina generale della confisca amministrativa di cui all’art. 20, terzo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»); o se si auspichi, invece, una pronuncia a carattere additivo-manipolativo, che attribuisca – all’autorità amministrativa prima e al giudice poi – il potere di “graduare” la misura ablativa contemplata dalla norma censurata, escludendone in tutto o in parte l’applicazione allorché essa appaia, in concreto, sproporzionata rispetto alla gravità dell’illecito.

Per giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 21 del 2011, n. 91 del 2010 e n. 269 del 2009), l’oscurità e l’indeterminatezza del petitum rendono la questione inammissibile, precludendone quindi l’esame nel merito.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

            dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dalla Corte di appello di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.

F.to:

Paolo MADDALENA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2011.