ORDINANZA N. 146
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come
modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Tribunale di Torino, sezione per il
riesame, nel procedimento penale a carico di A.D., con ordinanza del 23
novembre 2009, iscritta al n. 329 del registro ordinanze 2010 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale,
dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 marzo
2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto
che, con ordinanza depositata il 23
novembre 2009 (r.o. n. 329 del 2010), il Tribunale di
Torino, sezione per il riesame, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13,
27 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come
modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente «la sostituzione della
misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari
in relazione al reato di cui all’art. 600-bis
[recte: 600-bis, primo comma,] del codice penale»;
che il Tribunale rimettente è investito
dell’appello avverso l’ordinanza dell’11 agosto 2009, con cui il Giudice per le
indagini preliminari del medesimo Tribunale ha respinto la richiesta di revoca
o di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, applicata
ad una persona imputata, tra l’altro, del delitto di favoreggiamento e
sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.), aggravato dall’uso della violenza;
che, in punto di rilevanza della
questione, il rimettente osserva che, alla luce di una consolidata
interpretazione giurisprudenziale, la disposizione impugnata, in quanto norma
processuale, deve ritenersi applicabile – in base al principio tempus regit actum – anche alle misure
cautelari da adottare per fatti delittuosi commessi, come nel caso di specie,
anteriormente all’entrata in vigore della legge novellatrice;
che non potrebbe, pertanto, essere
accolta la richiesta di revoca della misura cautelare formulata dal difensore,
non sussistendo elementi in grado di superare la presunzione relativa di
sussistenza delle esigenze cautelari introdotta dal novellato art. 275, comma
3, cod. proc. pen. in rapporto al delitto in questione;
che, anche a prescindere da tale
presunzione, peraltro, le modalità del fatto – per il quale era già stata
pronunciata condanna in primo grado, a seguito di giudizio abbreviato – e la
personalità dell’imputato, quale emergerebbe dalle risultanze investigative,
evidenzierebbero comunque la sussistenza delle esigenze cautelari di cui
all’art. 274, comma 1, lettera c),
cod. proc. pen.;
che, nondimeno, il pericolo della
commissione di delitti della stessa specie potrebbe essere adeguatamente
fronteggiato con la misura degli arresti domiciliari, accompagnata dal divieto
di comunicare con soggetti diversi dai familiari conviventi, la quale non
consentirebbe comunque all’imputato la libertà di movimento necessaria per
poter svolgere l’attività di reclutamento e sfruttamento della prostituzione;
che l’applicazione di detta misura
risulterebbe, tuttavia, preclusa dalla norma censurata, la quale, a seguito
della modifica apportata dall’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009,
stabilisce una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare
della custodia in carcere in caso di sussistenza di gravi indizi di
colpevolezza per il reato (tra gli altri) di induzione e sfruttamento della
prostituzione minorile, di cui all’art. 600-bis,
primo comma, cod. pen.;
che, con riguardo alla non manifesta
infondatezza, il Tribunale rimettente rileva come la disciplina delle misure
cautelari personali sia ispirata ai principi di proporzione, adeguatezza e
graduazione, espressamente enunciati dall’art. 2, numero 59, della legge delega
16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per
l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), la quale prevede, altresì,
l’adeguamento del nuovo codice di rito ai principi della Costituzione e alla
normativa convenzionale internazionale: normativa nell’ambito della quale
verrebbe in particolare rilievo il disposto dall’art. 5, paragrafi 1, lettera c), e 4, della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848;
che, in applicazione dei ricordati
principi di proporzionalità, adeguatezza e graduazione, nel sistema del codice
di procedura penale, una volta accertata l’esistenza di gravi indizi di
colpevolezza e la sussistenza di esigenze cautelari, il giudice è chiamato ad
operare la scelta della misura, esponendo specificamente, a pena di nullità –
ove venga applicata la misura «massima» della custodia cautelare in carcere –
le ragioni per le quali le esigenze cautelari non possono essere soddisfatte
con altre misure (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.);
che la norma impugnata derogherebbe
chiaramente a tali principi, che pure trovano riconoscimento negli artt. 13 e
27 Cost., discendendo – secondo quanto affermato da questa Corte –
«direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla
carcerazione preventiva rispetto alle finalità del processo, da un lato, ed
alle esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare,
nel bilanciamento tra interessi, il temporaneo sacrificio della libertà
personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva» (sentenza n. 299 del
2005); con la conseguenza che – per costante orientamento della
giurisprudenza costituzionale – deve essere comunque prescelta, in ossequio al favor libertatis che ispira l’art. 13
Cost., la soluzione che comporta il minore sacrificio possibile della libertà
personale;
che è ben vero che, secondo un
orientamento altrettanto costante della giurisprudenza costituzionale, «mentre
la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate
dalla legge (l’an della cautela)
comporta […] l’accertamento, di volta in volta, della loro effettiva
ricorrenza, non può invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata
quella di affidare sempre e comunque al giudice l’apprezzamento del tipo di
misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo della cautela), ben potendo tale scelta essere effettuata
in termini generali dal legislatore»;
che, tuttavia, la scelta legislativa
dovrebbe essere operata pur sempre nel rispetto del limite della ragionevolezza
e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti;
che nell’ipotesi in esame, di contro,
risulterebbe leso proprio il canone della ragionevolezza, sotto il duplice
profilo della disparità di trattamento rispetto agli altri casi di sussistenza
di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari, nonché della disparità
di trattamento «interna» tra le varie forme di manifestazione concreta della
fattispecie criminosa considerata;
che le ipotesi nelle quali la Corte
costituzionale ha ritenuto non irragionevole l’imposizione da parte del
legislatore della misura cautelare più rigorosa presenterebbero, infatti,
particolarità atte a rendere chiara e ben delimitata la ragione della
prevalenza sui principi di graduazione e di adeguatezza: tali, in specie, i
casi della pregressa evasione, che impedisce l’applicazione della misura degli
arresti domiciliari (artt. 276, comma 1-ter,
e 284, comma 5-bis, cod. proc. pen.,
vagliati, rispettivamente, dalle ordinanze n. 130 del 2003
e n. 40 del 2002
), o dell’essere il soggetto gravemente indiziato di un reato aggravato dalle
finalità di associazioni di tipo mafioso (art. 275, comma 3, cod. proc. pen., scrutinato,
in parte qua, dall’ordinanza n. 450 del
1995);
che altrettanto non potrebbe dirsi per
la fattispecie criminosa in esame, essendo evidenti le differenze tra il reato
punito dall’art. 600-bis, primo comma, cod. pen. e quello di cui all’art.
416-bis cod. pen.;
che l’associazione per delinquere di
stampo mafioso è, infatti, un delitto di pericolo a carattere permanente, che
implica un vincolo «di appartenenza totalizzante» ad un sodalizio
caratterizzato da una particolare forza intimidatrice e da un elevato grado di
«diffusività» nel contesto ambientale, tali da porre a rischio, per comune
sentire, primari beni individuali e collettivi: circostanze, queste, che
renderebbero pienamente giustificabile la presunzione legislativa di
adeguatezza della sola misura cautelare carceraria, in quanto indispensabile
per neutralizzare la pericolosità del soggetto, provocandone il forzoso
distacco dal sodalizio;
che, di contro, il reato di induzione
alla prostituzione di soggetto minorenne abbraccerebbe un’ampia gamma di
condotte, tra loro estremamente diversificate, in quanto frutto di vari
contesti ambientali e relazioni personali, spesso meramente contingenti;
che, in particolare, detto reato può
essere consumato nell’ambito di un ristretto spazio temporale e senza uso di
violenza, e, al tempo stesso, non è necessariamente collegato alla criminalità
organizzata, risultando quindi espressivo di un livello di pericolosità non
paragonabile a quello insito nell’associazione di stampo mafioso;
che, impedendo di tenere conto delle
possibili varianti, la norma censurata determinerebbe, dunque, la equiparazione
nel trattamento cautelare di situazioni diverse sul piano oggettivo e
soggettivo, in violazione del principio di eguaglianza;
che la norma genererebbe, altresì,
rischi di confusione fra trattamento cautelare, improntato al principio del
sacrificio minimo della libertà personale, e trattamento punitivo, avente connotazioni
più propriamente retributive, con possibile attribuzione alla cautela di una
funzione di anticipazione della pena, in contrasto con l’art. 27 Cost.;
che, sotto altro profilo, poi, la Corte
europea dei diritti dell’uomo – pronunciando anteriormente alla novella
legislativa del 2009, allorquando la speciale disciplina dettata dall’art. 275,
comma 3, cod. proc. pen. risultava circoscritta ai soli delitti di tipo mafioso
– ha avuto modo di affermare che detta disciplina costituisce una deroga ai principi
dettati dall’art. 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali: deroga da ritenere giustificata alla luce delle
particolari esigenze legate alla lotta contro i crimini di mafia, valendo la
detenzione del soggetto accusato a interrompere i suoi legami con l’ambiente
criminale (sentenza
6 novembre 2003, Pantano contro Italia);
che analoghi argomenti non potrebbero
essere estesi, per le ragioni già indicate, al reato di induzione alla
prostituzione di un soggetto minorenne;
che ne deriverebbe, dunque, la lesione
anche dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui sancisce l’obbligo
del legislatore di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi
internazionali: parametro rispetto al quale le norme della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, nel significato loro attribuito dalla Corte di
Strasburgo, costituiscono «norme interposte»;
che è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile,
perché avente ad oggetto una norma già dichiarata incostituzionale da questa
Corte con la sentenza
n. 265 del 2010.
Considerato che il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 13, 27 e 117, primo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio
2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con
modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non
consente «la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con
quella degli arresti domiciliari» per la persona raggiunta da gravi indizi di
colpevolezza in ordine al delitto di induzione o sfruttamento della prostituzione
minorile (art. 600-bis, primo comma,
del codice penale);
che, successivamente all’ordinanza di
rimessione, con la sentenza n. 265 del
2010, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma
censurata, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi
indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere,
salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono
esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure;
che la declaratoria di illegittimità
costituzionale è stata pronunciata per l’incompatibilità della disposizione
censurata con l’art. 3 Cost., a causa dell’ingiustificata parificazione dei
procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di
mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare
delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati;
con l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime
ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; e, infine,
con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione
processuale tratti funzionali tipici della pena;
che la richiamata decisione –
nell’escludere che potesse conciliarsi con i parametri ora indicati la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, sancita dal
novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. in rapporto ai delitti cui si
riferiva lo scrutinio – ha ritenuto, per contro, compatibile con detti
parametri la previsione di una presunzione solo relativa, superabile da
specifici elementi da cui desumere la sufficienza di misure diverse e meno
gravose della custodia in carcere: procedendo, pertanto, alla dichiarazione di
incostituzionalità in tali termini della norma denunciata;
che la citata sentenza, dunque, se per
un verso si riferisce anche al delitto di induzione o sfruttamento della
prostituzione minorile, per altro verso, anziché rimuovere sic et simpliciter l’anzidetta
presunzione assoluta – così come richiesto, nella sostanza, dall’odierno
rimettente – la trasforma in relativa;
che si impone, pertanto, la restituzione
degli atti al Tribunale rimettente, perché proceda, alla luce della sopravvenuta
dichiarazione di illegittimità costituzionale e del conseguente mutamento del
quadro normativo, ad una nuova valutazione circa la rilevanza e la non
manifesta infondatezza della questione sollevata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Torino,
sezione per il riesame.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile
2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 aprile 2011.