Sentenza n. 324 del 2010

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SENTENZA N. 324

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Francesco                    AMIRANTE                                    Presidente

-           Ugo                             DE SIERVO                                     Giudice

-           Paolo                           MADDALENA                                      “

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                    “

-           Alfonso                       QUARANTA                                          “

-           Franco                         GALLO                                                   “

-           Luigi                            MAZZELLA                                           “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                            “

-           Sabino                         CASSESE                                               “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                 “

-           Giuseppe                     TESAURO                                              “

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                      “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                    “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                         “

-           Paolo                           GROSSI                                                  “

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 40, comma 1, lettera f), e 49, comma 1, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), promossi dalle Regioni Piemonte, Toscana e Marche con ricorsi notificati il 29 dicembre 2009, 4 gennaio 2010 e il 29 dicembre 2009, depositati in cancelleria il 30 e il 31 dicembre 2009 e il 4 gennaio 2010 e rispettivamente iscritti ai nn. 108 e 110 del registro ricorsi 2009 ed al n. 1 del registro ricorsi 2010.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; 

udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi gli avvocati Mario Eugenio Comba per la Regione Piemonte, Lucia Bora per la Regione Toscana, Stefano Grassi per la Regione Marche e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Regione Piemonte ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), «secondo capoverso», del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni).

La ricorrente premette che la disposizione impugnata modifica l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), introducendo, dopo il comma 6, i commi 6-bis e 6-ter, il quale ultimo recita: «il comma 6 ed il comma 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2», tra le quali rientrano anche le Regioni.

L’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione può essere effettuato entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia; non può prevedere una durata superiore ai tre anni per gli incarichi di segretario generale e di funzione dirigenziale di livello generale e di cinque anni per gli altri incarichi dirigenziali; deve avvenire, dietro specifica motivazione, a favore di persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che possano dimostrare il possesso di specifiche esperienze; può prevedere l’integrazione del trattamento economico tramite un’indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Il successivo comma 6-bis dispone che, per il calcolo delle percentuali di cui sopra, si deve operare un arrotondamento all’unità inferiore, se il primo decimale è inferiore a cinque, o all’unità superiore, se esso è uguale o superiore a cinque.

Ad avviso della Regione Piemonte, quelle appena richiamate sono disposizioni che attengono esclusivamente alle modalità di accesso all’impiego pubblico, disciplinando, tra l’altro con norme di estremo dettaglio, la particolare fattispecie dell’affidamento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione. La norma statale impugnata, estendendo tali disposizioni alle Regioni, violerebbe pertanto l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché la materia delle modalità di accesso all’impiego pubblico regionale rientra in quella dell’autonomia dell’organizzazione amministrativa regionale la quale appartiene alla competenza residuale esclusiva regionale.

La ricorrente aggiunge che lo stesso d.lgs. n. 150 del 2009 riconosce che la materia dell’attribuzione degli incarichi di funzioni dirigenziali non è compresa tra quelle di competenza legislativa statale, né tra quelle ripartite. Il censurato art. 40, infatti, non è incluso dall’art. 74, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 150 del 2009 tra quelli riconducibili alla potestà legislativa statale di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere l) e m), della Costituzione.

La Regione Piemonte sostiene, in via subordinata, che la norma impugnata sarebbe illegittima anche se si dovesse ritenere che essa rientri nelle competenze legislative concorrenti di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Essa, infatti, non detta principi fondamentali, ma scende nel dettaglio, fissando la percentuale di incarichi dirigenziali esterni attribuibili dalle amministrazioni regionali nonché la loro durata massima, senza lasciare alle Regioni alcuno spazio di autonoma scelta e dettando direttamente la regola applicativa.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito e ha chiesto che il ricorso sia respinto.

La difesa erariale sostiene che l’art. 19, comma 6-ter, del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009, non regolando l’accesso agli incarichi dirigenziali, non attiene all’organizzazione amministrativa delle Regioni, bensì alla materia dell’ordinamento civile, poiché esso disciplina gli aspetti fondamentali del rapporto costituito con il soggetto esterno all’amministrazione (durata, qualificazione, corrispettivo economico). In quanto tale, esso rientra nella competenza esclusiva dello Stato.

3. – La Regione Toscana ha promosso, in riferimento agli artt. 76, 97, 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009, nella parte in cui introduce il comma 6-ter nell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, e dell’art. 49, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 150 del 2009, nella parte in cui, modificando l’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, dispone che le amministrazioni, prima di bandire un concorso pubblico, debbano «rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta. Il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato sulla base della professionalità in possesso del dipendente in relazione al posto ricoperto o da ricoprire».

3.1. – Rispetto all’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009, la ricorrente lamenta che esso, introducendo nell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 il comma 6-ter, estende alle Regioni la disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali di cui al comma 6 del predetto art. 19 e, in particolare, la previsione per cui detti incarichi possono essere conferiti a tempo determinato solo entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia e dell’8 per cento a quelli della seconda fascia dei ruoli dirigenziali.

Così disponendo, la norma contrasterebbe con l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché essa atterrebbe alla materia dell’ordinamento del personale e dell’organizzazione amministrativa regionale riservata alla competenza esclusiva delle Regioni.

Ad avviso della difesa regionale, la norma impugnata non è giustificata da alcun titolo di competenza statale. In particolare, non potrebbe sostenersi che essa sia finalizzata a garantire l’osservanza dei principi di trasparenza e di efficacia dell’attività amministrativa: in primo luogo perché il limite del 10 per cento non garantisce di per sé il rispetto dei canoni suddetti; in secondo luogo, perché, laddove si affermasse il potere dello Stato di intervenire direttamente nell’organizzazione interna degli uffici regionali per il buon andamento dell’amministrazione, l’autonomia regionale verrebbe vanificata, poiché ogni disciplina dell’organizzazione amministrativa deve essere diretta attuazione dell’art. 97 della Costituzione.

L’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 non rientrerebbe neppure nella materia del coordinamento della finanza pubblica; infatti il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato non provoca un aumento di spesa, poiché ad esso si ricorre per far fronte ad esigenze straordinarie e temporanee ovvero per garantire la continuità dell’azione amministrativa nel tempo necessario ad espletare i concorsi diretti a colmare i vuoti in organico. Comunque, seppure si ravvisasse nella norma censurata una finalità di contenimento della spesa, la medesima sarebbe comunque incostituzionale, perché non si presta in alcun modo, per il suo livello di dettaglio, ad individuare un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica quale limite complessivo della spesa corrente, ma, in ipotesi, inciderebbe su una voce di spesa, introducendo un vincolo puntuale e specifiche modalità del suo contenimento. Perciò, ove ritenuta giustificata da esigenze finanziarie, la norma determinerebbe un’inammissibile ingerenza nell’autonomia finanziaria regionale, con conseguente sua illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione.

Infine, secondo la Regione Toscana, la norma impugnata lederebbe il principio di leale collaborazione ed i criteri direttivi della legge delega. Infatti, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti), il decreto legislativo avrebbe dovuto essere adottato, per alcuni aspetti (tra i quali anche quello della dirigenza e, quindi, del conferimento degli incarichi dirigenziali), previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni e Autonomie locali o, quanto meno, per gli altri profili, con il parere della suddetta Conferenza. Invece la disposizione impugnata non è stata oggetto né di parere né di intesa con la Conferenza unificata, ma è stata inserita nel decreto dopo il parere espresso dal Senato, senza alcun coinvolgimento regionale. Sussisterebbe, pertanto, violazione (oltre che del principio di leale collaborazione) dell’art. 76 Cost., violazione che può essere fatta valere dalla Regione perché determina una menomazione delle competenze regionali costituzionalmente garantite in materia di organizzazione amministrativa ed ordinamento del personale.

3.2. – Quanto all’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, la Regione Toscana sostiene che esso contrasterebbe con gli artt. 97 e 117, quarto comma, della Costituzione.

La norma censurata sostituisce l’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 in tema di mobilità volontaria tra le pubbliche amministrazioni, imponendo a tutte le amministrazioni, e dunque anche alle Regioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali necessarie per coprire posti vacanti, di «rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta»; la norma aggiunge che «Il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato sulla base della professionalità in possesso del dipendente in relazione al posto ricoperto o da ricoprire».

La difesa regionale nega che sia possibile assimilare tale disposizione all’art. 34-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 che prevede, a carico di tutte le amministrazioni pubbliche, l’onere di comunicare al personale collocato in disponibilità ovvero interessato ai processi di mobilità previsti dalle leggi e dai contratti collettivi l’esigenza di assunzione. Tale norma, infatti, mira a consentire al personale – che rischia di perdere il lavoro in quanto «in disponibilità» per mancanza di posti – di ritrovare una collocazione in altre amministrazioni. In considerazione di tale finalità di tutela del lavoro, la Corte costituzionale (sentenza n. 388 del 2004) ha ritenuto la disposizione non invasiva delle competenze regionali in materia di organizzazione ed ordinamento del personale, essendo piuttosto diretta a promuovere, nel settore del pubblico impiego, condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. e a rimuovere ostacoli all’esercizio di tale diritto in qualunque parte del territorio nazionale (art. 120 Cost.).

La norma impugnata, riferendosi alla mobilità volontaria e prescindendo del tutto da un esubero del personale, inciderebbe fortemente sull’autonomia organizzativa delle amministrazioni regionali sotto due profili.

In primo luogo, perché introduce un impegnativo onere per l’amministrazione che ha necessità di coprire il posto vacante (determinazione dei criteri di valutazione, esame delle domande di mobilità, effettuazione dei colloqui e redazione di una graduatoria). In secondo luogo, perché limita la possibilità per l’amministrazione di ricercare, scegliere ed assumere il personale più preparato, in osservanza dei canoni di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., il quale richiede l’espletamento del concorso pubblico.

A quest’ultimo proposito la ricorrente sostiene che la disposizione impugnata non è conforme ai principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto la deroga al pubblico concorso non è, nel caso in esame, giustificabile in base ad alcuna esigenza di interesse pubblico, posto che l’assunzione con la procedura di mobilità risponde solo all’interesse dell’interessato al trasferimento per motivi personali. Né potrebbe essere sostenuto che la norma abbia una finalità di contenimento della spesa pubblica, poiché all’amministrazione che ha acconsentito al trasferimento del dipendente non è precluso assumere altro personale in sostituzione di quello; in tal modo alcune amministrazioni dovranno coprire i posti vacanti con la procedura di mobilità volontaria ed altre potranno continuare a bandire concorsi e ciò solo per motivi legati alle scelte personali del dipendente.

Ad avviso della Regione Toscana, pertanto, l’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 violerebbe, oltre all’art. 117, quarto comma, della Costituzione, per la lesione dell’autonomia organizzativa regionale, anche l’art. 97 Cost., perché limita il reclutamento del personale mediante il concorso pubblico, e quindi non permette di osservare i criteri di efficienza, imparzialità e buona amministrazione che il predetto precetto costituzionale vuole garantire nell’organizzazione degli uffici. La ricorrente aggiunge di essere legittimata a far valere la violazione del citato art. 97 Cost. perché essa determina una compromissione della propria autonomia organizzativa.

4. – Il Presidente  del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito e ha chiesto che il ricorso sia respinto.

4.1. – In ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009, sollevata in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., la difesa dello Stato svolge argomentazioni analoghe a quelle illustrate nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Regione Piemonte e riportate supra, sub n. 2, aggiungendo che, comunque, essendo indubbio che, almeno in parte, la norma censurata regola una materia di competenza esclusiva statale, lo Stato era abilitato a dettare una normativa di principio incidente su competenze regionali e conforme al dettato costituzionale in tema di accesso e svolgimento del rapporto di impiego pubblico (al riguardo il resistente richiama in particolare l’art. 97 Cost.).

Rispetto alle censure proposte avverso la medesima norma con riferimento al principio di leale collaborazione ed all’art. 76 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce preliminarmente la loro inammissibilità, poiché le Regioni non possono impugnare in via principale norme statali per violazione di precetti costituzionali diversi da quelli direttamente regolanti il riparto di competenze tra Stato e Regioni.

Nel merito, l’Avvocatura dello Stato nega che il Governo abbia ecceduto dai limiti della delega, essendo incontestabile che nella materia  delegata («disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni») rientri anche la regolamentazione dei limiti e delle modalità di accesso alle qualifiche dirigenziali. Il resistente aggiunge che sulla disposizione impugnata è intervenuta intesa in sede di Conferenza unificata Stato-Regioni ed autonomie locali.

4.2. – Per quanto concerne la questione relativa all’art. 49 del d.lgs. n. 150 del 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., deduce che la norma impugnata disciplina un aspetto della mobilità, istituto applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche poiché rientrante nella competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. ovvero, in via subordinata, nelle materie, di competenza concorrente, della tutela del lavoro e della armonizzazione dei bilanci pubblici e della finanza pubblica.

La censura sollevata in riferimento all’art. 97 Cost. sarebbe, invece, in primo luogo inammissibile, perché il parametro costituzionale non rientra tra quelli deducibili dalle Regioni.

In secondo luogo, sarebbe infondata, perché la norma denunciata è diretta a razionalizzare l’utilizzazione dei dipendenti pubblici, prevedendo la copertura di posti vacanti con personale già in forza ad una pubblica amministrazione, evitando una lunga e costosa procedura concorsuale fonte di nuove assunzioni e ulteriori oneri per la finanza pubblica.

5. – La Regione Marche ha promosso, in riferimento agli artt. 76 e 117, quarto comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009.

La ricorrente premette che la norma impugnata incide su una materia già integralmente disciplinata dall’art. 28 della legge della Regione Marche 15 ottobre 2001, n. 20 (Norme in materia di organizzazione e di personale della Regione), il quale detta una normativa che, pur conforme alla ratio di quella statale oggetto di censura, non trova coincidenza con i nuovi vincoli che il legislatore statale ha inteso imporre alle Regioni e, in particolare, con il limite complessivo del 10 per cento dei posti della dotazione organica dirigenziale per l’affidamento di tutti gli incarichi a contratto, con l’annesso limite soggettivo dei possibili affidatari (ormai coincidenti con i soli soggetti estranei all’amministrazione) e, infine, con il criterio di arrotondamento automatico, per il calcolo del suddetto limite percentuale, all’unità inferiore qualora il primo decimale sia inferiore a cinque o all’unità superiore qualora esso sia uguale o superiore a cinque.

La Regione Marche sostiene che l’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009 contrasta, in primo luogo, con l’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potestà legislativa residuale nella materia «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale della Regione». In proposito la ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale è riconducibile alla materia dell’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e rientra nella competenza residuale delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (la difesa regionale menziona le sentenze n. 95 del 2008, n. 233 del 2006, n. 380 e n. 2 del 2004, n. 274 del 2003).

La Regione Marche contesta che l’impugnato art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 possa essere ricondotto alla materia «ordinamento civile», dalla quale sono escluse le norme volte a disciplinare le modalità tramite le quali (o i limiti entro i quali) le pubbliche amministrazioni possono far ricorso agli strumenti riguardanti i rapporti tra privati. E, nella fattispecie, la norma censurata non si risolve nella regolazione dell’esercizio dell’autonomia negoziale; essa, invece, pone dei limiti alle ipotesi in cui la pubblica amministrazione può fare uso di tale autonomia, restando ferma la disciplina del suo esercizio e dei rapporti contrattuali che ne derivano. Anche la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto – ad avviso della ricorrente – che, mentre la regolazione del rapporto di lavoro rientra nell’«ordinamento civile», gli aspetti attinenti alle modalità e ai limiti della instaurazione e della cessazione di tale rapporto ineriscono alla materia della «organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali».

La Regione nega, poi, che l’art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2009 possa essere ricondotto alla materia «coordinamento della finanza pubblica». Infatti esso non avrebbe né la finalità, né l’effetto di determinare il contenimento della spesa pubblica complessiva per la remunerazione delle funzioni dirigenziali, poiché il conferimento di incarichi di dirigente a contratto, se avviene entro i limiti della dotazione organica, non può, per sua stessa natura, determinare alcuna spesa maggiore per l’amministrazione conferente.

La Regione Marche aggiunge che, anche a voler ritenere che la norma impugnata abbia un effetto di contenimento della spesa pubblica, essa sarebbe comunque illegittima, perché, imponendo un vincolo puntuale e specifico che non lascia alcun margine di attuazione al libero apprezzamento del legislatore regionale, non potrebbe essere considerata come un principio fondamentale in materia di «coordinamento della finanza pubblica».

La ricorrente deduce, poi, che, per le ragioni già spiegate, l’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009 vìola l’art. 117, quarto comma, Cost., anche nella parte in cui questo attribuisce alle Regioni la potestà legislativa residuale nella materia «organizzazione amministrativa e ordinamento del personale dei comuni, delle province e delle città metropolitane», il legislatore statale non disponendo di un titolo di potestà legislativa che lo abiliti a disciplinare le modalità di accesso al lavoro presso le amministrazioni degli enti locali territoriali, potendo esclusivamente, in riferimento a tali enti, regolare la materia della «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane» come previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione.  

La difesa regionale afferma, quindi, che nella giurisprudenza costituzionale esisterebbero due differenti indirizzi circa la spettanza della potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali: uno (rappresentato dalle sentenze n. 159 del 2008, n. 377 e n. 48 del 2003) secondo cui essa continuerebbe a spettare, immutata, allo Stato anche dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre del 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione); l’altro (al riguardo la Regione menziona le sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del 2006, n. 456 e n. 244 del 2005, in tema di comunità montane) secondo cui questa potestà legislativa deve ormai ritenersi compresa nell’area della competenza residuale regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione. La ricorrente ritiene che il primo indirizzo non possa essere condiviso, stante la mancanza di un titolo costituzionale che affidi allo Stato la competenza generale in materia di ordinamento degli enti locali, onde non resterebbe che ritenere che siffatta materia ricada nell’ambito disciplinato dall’art. 117, quarto comma, Cost., spettando dunque alla potestà residuale regionale, fatto salvo quanto previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., e da eventuali ulteriori titoli di intervento statale in grado di giustificare «incursioni» nella materia de qua. Ad avviso della ricorrente, tale conclusione sarebbe confermata dalla sentenza n. 326 del 2008, con la quale questa Corte ha ricondotto alla «potestà legislativa regionale in materia di organizzazione degli uffici (...) degli enti locali, fondata sull’art. 117 Cost.», una disposizione che imponeva alcune limitazioni alle società partecipate da enti locali per lo svolgimento di funzioni amministrative o attività strumentali alle stesse.

La Regione Marche deduce, inoltre, che l’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009 violerebbe anche l’art. 76 Cost., sia perché contrasterebbe con l’oggetto della delega legislativa individuato nell’art. 2, comma 1, della legge n. 15 del 2009, sia perché non sarebbe conforme ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nell’art. 2, comma 2, della medesima legge di delegazione.

Sotto il primo profilo, la ricorrente sostiene che la legge di delegazione limitava i poteri normativi del Governo alla sola riforma della «disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di cui all’articolo 2, comma 2», del decreto legislativo n. 165 del 2001, sicché l’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009, recando una disciplina concernente i limiti e le modalità di accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto, esorbiterebbe dall’ambito oggettivo della delega, circoscritto, appunto, alla disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.

Né, in senso contrario, potrebbe essere richiamato l’art. 6, comma 2, lettera h). Infatti la predetta disposizione della legge di delega contemplava il seguente «principio e criterio direttivo»: «Ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, (...), e ridefinire, altresì, la disciplina relativa al conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro cui è possibile il conferimento degli incarichi medesimi». Dunque la delega a prevedere «la riduzione delle quote percentuali di dotazione organica» entro le quali ammettere l’attribuzione di incarichi dirigenziali «a contratto» era espressamente riferita solo al conferimento degli incarichi «ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli» dell’Amministrazione conferente. Il legislatore delegato non era abilitato ad estendere, come invece risulta dal nuovo testo del comma 6 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, il suddetto limite delle quote percentuali di dotazione organica a tutti i conferimenti di incarichi dirigenziali a contratto, comprendendovi, oltre a quelli riguardanti i soggetti espressamente individuati dalla citata norma della legge di delegazione, anche quelli concernenti i soggetti dipendenti della medesima amministrazione conferente, ma non aventi la qualifica di dirigente.

Quanto all’ammissibilità della censura in questione, la ricorrente sostiene che, nella fattispecie, la violazione dell’art. 76 Cost. ridonda in lesione delle sfere di competenza regionale, poiché l’aver il decreto legislativo esteso alle Regioni anche la disciplina in tema di limiti e modalità di accesso al lavoro pubblico, impedisce alla normativa regionale esistente di dispiegare la propria efficacia, e alla Regione di porre in essere nuove norme in un ambito materiale che, attenendo all’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali, è di sua competenza.  

Circa il contrasto dell’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009 con i principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 2, comma 2, della legge n. 15 del 2009, la Regione Marche deduce che questi ultimi imponevano al Governo l’adozione dei decreti legislativi «previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, relativamente all’attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 3, comma 2, lettera a), 4, 5 e 6, nonché previo parere della medesima Conferenza relativamente all’attuazione delle restanti disposizioni della presente legge». Orbene, la disposizione censurata (riconducibile alla materia della «dirigenza pubblica» di cui all’art. 6 della medesima legge n. 15), in particolare nella parte in cui introduce il nuovo comma 6-ter nell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, è stata inserita dal Governo all’interno del d.lgs. n. 150 del 2009 a seguito dei pareri espressi dalle competenti Commissioni parlamentari, senza però essere stata sottoposta alla prescritta intesa in sede di Conferenza unificata (la quale era intervenuta il 29 luglio 2009). Tale vizio si traduce nella violazione dell’art. 76 Cost., alla cui denuncia in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale la Regione vanterebbe uno specifico interesse, come desumibile, ad avviso della ricorrente, anche dalla giurisprudenza di questa Corte (la difesa regionale cita, in proposito, le sentenze n. 206 e n. 110 del 2001).

6. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito e ha chiesto che il ricorso sia respinto, sulla base di considerazioni analoghe a quelle esposte nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Regione Toscana e riportate supra, sub n. 4.1.

In riferimento alla pretesa violazione delle attribuzioni regionali in tema di organizzazione amministrativa e ordinamento del personale degli enti locali, il resistente aggiunge che le Regioni a statuto ordinario, in realtà, non hanno alcuna competenza in materia, rientrando quest’ultima nella competenza esclusiva statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione.

7. – In prossimità dell’udienza pubblica le Regioni Toscana e Marche hanno depositato memorie.

7.1. – La Regione Toscana insiste nell’accoglimento delle conclusioni rassegnate nel proprio ricorso.

In particolare, la ricorrente nega che l’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 possa essere ricondotto alla materia dell’ordinamento civile, regolando esso non già aspetti propri del rapporto di lavoro tra pubblica amministrazione e dirigente, bensì la diversa e preliminare fase dell’accesso all’impiego presso le Regioni, profilo che rientra nella materia dell’ordinamento degli uffici e del personale regionale, oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni.

La norma in questione, ad avviso della difesa regionale, neppure potrebbe essere ricondotta alla materia del coordinamento della finanza pubblica, per le ragioni già indicate nel ricorso.

La Regione Toscana ribadisce, poi, le argomentazioni già svolte nel ricorso e relative alla violazione del principio di leale collaborazione e dell’art. 76 Cost., aggiungendo che la lesione di quest’ultimo precetto costituzionale comporta la compromissione di attribuzioni regionali.

Quanto all’art. 49 del d.lgs. n. 150 del 2009, la ricorrente ripete le censure e le relative motivazioni contenute nel proprio atto introduttivo, aggiungendo che anche la violazione dell’art. 97 Cost. si risolve nella lesione di sfere di competenza regionale.

7.2. – Anche la Regione Marche insiste nell’accoglimento delle richieste formulate nel proprio ricorso.

Alle considerazioni svolte nell’atto introduttivo, la difesa regionale aggiunge che la censura sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. è nella fattispecie ammissibile, sia perché la violazione di quel parametro costituzionale comporta la lesione di competenze costituzionalmente attribuite alle Regioni, sia perché l’obbligo dell’intesa in sede di Conferenza unificata era imposto dalla stessa legge delega n. 15 del 2009.

La ricorrente deduce altresì – a sostegno del proprio assunto secondo il quale l’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009 non può essere ricondotto alla materia dell’ordinamento civile – che lo stesso legislatore delegato, nell’elencare, nell’art. 74 del citato d.lgs. n. 150, le norme che rientravano in quel titolo competenziale, non ha menzionato l’art. 40. In ogni caso, ad avviso della difesa regionale, potrebbero essere considerati attinenti alla materia dell’ordinamento civile solamente gli ultimi due periodi dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 (in tema di indennità integrativa e di collocamento in aspettativa senza assegni dei dipendenti pubblici per il tempo di durata dell’incarico da dirigente), onde la norma impugnata dovrebbe comunque essere dichiarata illegittima nella parte in cui estende alle Regioni tutti gli altri precetti contenuti nell’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165 citato.

Considerato in diritto

1. – Le Regioni Piemonte, Toscana e Marche impugnano l’art. 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui ha introdotto nell’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il comma 6-ter, secondo il quale i precedenti commi 6 (disciplinante le condizioni per l’affidamento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione conferente) e 6-bis (in tema di calcolo delle percentuali di incarichi attribuibili agli esterni) del citato art. 19 si applicano anche alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 e, dunque, anche alle Regioni e agli enti locali, deducendo la violazione degli artt. 76, 117, terzo e quarto comma, e 119 della Costituzione.

Le Regioni Toscana e Marche sostengono che la disposizione impugnata contrasterebbe anche con l’art. 76 Cost., perché non è stata oggetto di intesa o di parere in sede di Conferenza unificata, come richiesto dall’art. 2, comma 2, della legge delega 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e alla Corte dei conti). La Regione Marche aggiunge che la disposizione censurata, recando una disciplina concernente i limiti e le modalità di accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto, esorbiterebbe dall’ambito oggettivo della delega, circoscritto alla disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.

Ad avviso delle ricorrenti, la norma, poi, violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché attiene alla materia, di competenza residuale regionale, dell’organizzazione delle Regioni e degli enti pubblici regionali. La Regione Marche aggiunge che il predetto precetto costituzionale sarebbe leso anche perché la norma, nella parte in cui si riferisce agli enti locali, sarebbe riconducibile alla materia dell’organizzazione amministrativa e ordinamento del personale degli enti locali, anch’essa di competenza residuale delle Regioni.

In via subordinata, ritenendo la norma attinente alla materia del coordinamento della finanza pubblica, le Regioni Toscana e Marche deducono la lesione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., poiché essa pone un vincolo puntuale all’autonomia finanziaria delle Regioni e non è idonea a realizzare l’effetto di contenimento della spesa pubblica.

1.1. – La Regione Toscana impugna anche l’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, il quale sostituisce l’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che ora prevede che tutte le amministrazioni, e dunque anche le Regioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali necessarie per coprire posti vacanti, debbano «rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta» e che «il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato».

Ad avviso della ricorrente, il predetto art. 49 violerebbe l’art. 97 Cost., perché limita il reclutamento del personale mediante il concorso pubblico, nonché l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché incide sull’autonomia organizzativa delle Regioni, introducendo un impegnativo onere per l’amministrazione e limitando la sua possibilità di ricercare, scegliere ed assumere il personale più preparato.

2. – In ragione della parziale connessione oggettiva, i giudizi debbono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. – Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo n. 150 del 2009, sollevate in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., non sono fondate.

3.1. – La norma impugnata dispone l’applicabilità a tutte le amministrazioni pubbliche della disciplina dettata dall’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001 in tema di incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’amministrazione.

Si tratta di una normativa riconducibile alla materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile.

In particolare, l’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 contiene una pluralità di precetti relativi alla qualificazione professionale ed alle precedenti esperienze lavorative del soggetto esterno, alla durata massima dell’incarico (e, dunque, anche del relativo contratto di lavoro), all’indennità che – a integrazione del trattamento economico – può essere attribuita al privato, alle conseguenze del conferimento dell’incarico su un eventuale preesistente rapporto di impiego pubblico e, infine, alla percentuale massima di incarichi conferibili a soggetti esterni (il successivo comma 6-bis contiene semplicemente una prescrizione in tema di modalità di calcolo di quella percentuale).

Tale disciplina non riguarda, pertanto, né procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego, né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto giuridico. Essa, valutata nel suo complesso, attiene ai requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato, alla durata massima del rapporto, ad alcuni aspetti del regime economico e giuridico ed è pertanto riconducibile alla regolamentazione del particolare contratto che l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui conferisce l’incarico dirigenziale.

Non sussiste, dunque, violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., appunto perché la norma impugnata non attiene a materie di competenza concorrente (coordinamento della finanza pubblica) o residuale regionale (organizzazione delle Regioni e degli uffici regionali, organizzazione degli enti locali), bensì alla materia dell’ordinamento civile di competenza esclusiva statale.

3.2. – La stessa questione, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., è, invece, inammissibile.

Dato che nella fattispecie, come si è visto sub 3.1, non si verte in materia di organizzazione degli uffici regionali, bensì in materia di disciplina di contratti di diritto privato, rispetto alla quale sussiste esclusivamente competenza dello Stato, la pretesa violazione del parametro costituzionale invocato non comporterebbe lesione di alcuna attribuzione regionale. Da qui l’inammissibilità della censura.

4. – Passando alle questioni sollevate dalla Regione Toscana sull’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, quella promossa in riferimento all’art. 97 Cost. è inammissibile.

La Regione deduce la violazione di un precetto costituzionale diverso da quelli attinenti al riparto di competenze tra Stato e Regioni e, nella fattispecie, il preteso contrasto con l’art. 97 Cost. non ridonda nella compressione di sfere di attribuzione costituzionalmente garantite alle Regioni.

4.2. – La questione sollevata in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., invece, non è fondata.

La norma impugnata non appartiene ad ambiti materiali di competenza regionale, bensì alla materia dell’ordinamento civile.

L’istituto della mobilità volontaria altro non è che una fattispecie di cessione del contratto; a sua volta, la cessione del contratto è un negozio tipico disciplinato dal codice civile (artt. 1406-1410). Si è, pertanto, in materia di rapporti di diritto privato e gli oneri imposti alla pubblica amministrazione dalle nuove disposizioni introdotte dall’art. 49 del d.lgs. n. 150 del 2009 rispondono semplicemente alla necessità di rispettare l’art. 97 Cost., e, precisamente, i principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), promosse, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2009, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo e terzo comma, e 119 della Costituzione, dalle Regioni Piemonte, Toscana e Marche con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 promossa, in riferimento all’art. 97 della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 promossa, in riferimento all’art. 117, quarto comma, della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2010.