Sentenza n. 58 del 2010

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SENTENZA N. 58

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-          Ugo                              DE SIERVO                                      Presidente

-          Alfio                             FINOCCHIARO                                 Giudice

-          Alfonso                         QUARANTA                                            ''

-          Franco                          GALLO                                                     ''

-          Luigi                             MAZZELLA                                              ''

-          Gaetano                        SILVESTRI                                               ''

-          Sabino                          CASSESE                                                 ''

-          Maria Rita                    SAULLE                                                   ''

-          Giuseppe                      TESAURO                                                ''

-          Paolo Maria                  NAPOLITANO                                        ''

-          Giuseppe                      FRIGO                                                      ''

-          Alessandro                   CRISCUOLO                                           ''

-          Paolo                            GROSSI                                                    ''

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), della legge 17 gennaio 1994, n. 47 (Delega al Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di comunicazioni e certificazioni di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575), dell’art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata) e dell’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania nel procedimento vertente tra la Tecnital s.p.a. e l’Ufficio territoriale del Governo di Catania, con ordinanza del 29 aprile 2009, iscritta al n. 210 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 29 aprile 2009 (reg. ord. n. 210 del 2009), il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione, dell’art. 10 della legge 31 maggio 1965 n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), della legge 17 gennaio 1994, n. 47 (Delega al Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di comunicazioni e certificazioni di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575), dell’art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata) e dell’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), nella parte in cui tali disposizioni non prevedono l’obbligo di un appropriato indennizzo a favore di quelle imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso ex art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata) e art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia) e adottati i necessari provvedimenti interdittivi, risultino poi del tutto assenti tali rischi, in base all’accertamento contenuto in sentenze passate in giudicato.

1.1. – Il collegio rimettente riferisce che la società ricorrente nel giudizio principale ha impugnato gli atti con i quali la Prefettura di Catania ha attestato nei suoi confronti la sussistenza del pericolo di condizionamento mafioso, domandandone l’annullamento, previa sospensione degli effetti, e chiedendo altresì il risarcimento del danno. Il giudice a quo espone che la Prefettura di Catania ha adottato i provvedimenti impugnati in quanto il socio di maggioranza della società ricorrente «era stato tratto in arresto per reati ex art. 416-bis c.p.» e che, essendosi poi concluso il relativo procedimento penale con sentenza di proscioglimento passata in giudicato, la stessa Prefettura ha successivamente «attestato che non sussistevano più i pericoli di condizionamento mafioso». Ciò premesso, il collegio rimettente, dopo aver rigettato con sentenza la domanda di annullamento degli atti impugnati ed essersi riservato, nella medesima sentenza, di pronunciarsi su parte della domanda di risarcimento, ha sollevato a questo fine, con separata e contestuale ordinanza, la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata.

1.2. – In ordine alla rilevanza, il giudice a quo riconosce che «nell’attuale assetto normativo la domanda di risarcimento danni andrebbe sicuramente respinta», poiché «nel contesto della situazione personale del principale socio della società ricorrente, che è stato sottoposto ad una misura cautelare restrittiva della libertà personale, le informazioni antimafia che sono state rilasciate dalla Prefettura di Catania […] non avrebbero potuto avere se non il contenuto di cui la parte ricorrente si duole». Nondimeno, il collegio rimettente osserva che «se la normativa di cui si sospetta l’incostituzionalità non ostasse all’accoglimento di un qualsiasi tipo di risarcimento nei confronti della società ricorrente, si potrebbe disporre nei suoi confronti il pagamento di una indennità».

1.3. – Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente «sospetta di incostituzionalità» la disciplina impugnata «laddove consente, di fatto, l’applicazione di misure interdittive alla partecipazione a gare e all’affidamento di appalti della pubblica amministrazione in maniera provvisoria (ossia fino all’accertamento dei fatti in sede penale) senza però prevedere alcuna forma di indennizzo per le imprese che risultino poi estranee a tali accertamenti, e quindi provocando una perdita definitiva patrimoniale e di valori aziendali».

Tale assetto normativo contrasterebbe, secondo il tribunale rimettente, con diversi parametri costituzionali. Esso lederebbe, in primo luogo, i «principi costituzionali di tutela della libertà di impresa (art. 41) [e] di tutela del diritto di proprietà che il precedente presuppone ed al quale è quindi connesso (art. 42)». Al riguardo, il giudice a quo rileva un «evidente parallelismo» con la fattispecie dell’espropriazione per fini di pubblica utilità e, in particolare, con quella dei vincoli urbanistici preordinati all’espropriazione. In ordine a questi ultimi, la giurisprudenza costituzionale, come richiamata dal giudice a quo, ha imposto l’obbligo di indennizzo nel caso di permanenza dei predetti vincoli «una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea, quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli». Il collegio rimettente ritiene che a «conclusioni non dissimili» debba pervenirsi anche nel caso delle informative antimafia, per le quali pure dovrebbe affermarsi la «necessità che l’ordinamento appresti forme anche indennitarie di ristoro delle posizioni di coloro che subiscono incolpevolmente una compressione temporanea dei propri diritti di iniziativa economica e di proprietà privata per effetto della legittima attività di prevenzione della pubblica amministrazione, una volta accertata, nelle competenti sedi penali, la loro completa estraneità ai fatti che, a suo tempo, giustificarono l’adozione dei provvedimenti interdittivi».

In secondo luogo, la disciplina impugnata sarebbe in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., in ragione del danno che essa arrecherebbe all’impresa e, di conseguenza, ai posti di lavoro che quest’ultima garantisce ai dipendenti, i quali «sono a loro volta del tutto estranei alla vicenda del datore di lavoro e dunque risentono in maniera del tutto incolpevole delle conseguenze dirette dell’attività della pubblica autorità».

In terzo luogo, il giudice a quo rileva una violazione dell’art. 97 Cost., dal momento che «una volta che l’imprenditore dimostra in giudizio la propria estraneità ai fatti contestatigli, avendo però definitivamente perso occasioni di lavoro e di produzione, si produrrà evidentemente disaffezione e caduta di fiducia del privato e dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni e dell’autorità».

Secondo il collegio rimettente, infine, la disciplina impugnata violerebbe l’art. 3 Cost. Per un verso, vi sarebbe una «manifesta disparità di trattamento» fra la situazione dell’imprenditore destinatario dell’informativa antimafia sulla base di presupposti rivelatisi successivamente inesistenti, la cui libertà di iniziativa economica può essere temporaneamente limitata senza indennizzo, e quella, individuata quale tertium comparationis, del titolare di diritto di proprietà su cui gravano vincoli sostanzialmente espropriativi. Per altro verso, la normativa censurata lederebbe il principio di ragionevolezza, sotto il profilo della «congruità dei mezzi (misure interdittive e perdita definitiva delle opportunità aziendali) rispetto ai fini (tutela della pubblica amministrazione e delle imprese dai tentativi di infiltrazioni mafiose)».

1.4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata.

Ad avviso della difesa erariale, non sarebbe innanzitutto corretta l’individuazione delle norme censurate «poiché non discende certamente dalle stesse la (asserita) impossibilità di liquidare un indennizzo a favore dell’impresa», con la conseguenza che la caducazione delle disposizioni impugnate non comporterebbe in alcun modo il diritto all’indennizzo. Né potrebbe ritenersi consentita la pronuncia additiva richiesta dal giudice rimettente, atteso che rimane aperta una astratta molteplicità di scelte, relative ai casi in cui l’indennizzo può essere corrisposto e alla misura dello stesso, la cui valutazione non può che essere rimessa alla prudente scelta del legislatore.

Nel merito, la difesa erariale sostiene che il regime dettato dalla normativa censurata appare «un ragionevole contemperamento tra esigenze di tutela di posizioni giuridiche in gioco, la libertà dell’imprenditore da un lato e, dall’altro, la tutela dell’interesse della collettività a che comportamenti caratterizzati da particolare disvalore siano non solo oggetto di repressione, ma anche e soprattutto di prevenzione». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, infatti, «la circostanza che un operatore economico incolpevole venga sottoposto ad accertamenti per reati associativi di stampo mafioso e che, durante tale periodo, gli vengano interdette determinate attività economiche, è conforme allo spirito e alla lettera dell’art. 41 della Costituzione, che tutela la libertà di iniziativa economica»: da un lato, tale previsione costituzionale tutela anche la posizione degli altri imprenditori concorrenti alla gara; dall’altro lato, essa comunque subordina la libertà di iniziativa economica alle esigenze di sicurezza della collettività.

Non può dirsi violato, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, l’art. 97 Cost., poiché l’esclusione del contraente dalla gara pubblica in presenza di indici di infiltrazione mafiosa è posta anzi a tutela del buon andamento, in quanto atto funzionale alla miglior scelta del contraente. Né vi sarebbe l’asserita lesione dell’art 2 Cost., «richiamato solo genericamente e senza concreti riferimenti ai profili di contrasto». Neppure, infine, sarebbe violato l’art. 3 Cost., con riguardo all’ipotizzata discriminazione con i proprietari espropriati che beneficiano dell’indennizzo, in quanto, nella fattispecie considerata, «non solo la norma costituzionale non prevede alcun indennizzo, ma […] è piuttosto propriamente conforme a Costituzione l’esistenza di situazioni (ben diverse da quelle cui l’ordinanza fa riferimento) nelle quali, in presenza di interessi contrastanti tutti parimenti provvisti di tutela costituzionale, taluno possa essere recessivo, senza dare di per sé diritto ad un automatico ristoro».

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania, con ordinanza del 29 aprile 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione, dell’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), della legge 17 gennaio 1994, n. 47 (Delega al Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di comunicazioni e certificazioni di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575), dell’art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata) e dell’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), nella parte in cui tali disposizioni non prevedono l’obbligo di un appropriato indennizzo a favore di quelle imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso ex art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata) e art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia) e adottati i necessari provvedimenti interdittivi, risultino poi del tutto assenti tali rischi, in base all’accertamento contenuto in sentenze passate in giudicato.

Ad avviso del collegio rimettente la normativa censurata, nella parte in cui non prevede il predetto indennizzo, lederebbe i principi costituzionali di tutela della libertà di impresa e di tutela del diritto di proprietà. Essa determinerebbe, inoltre, una «manifesta disparità di trattamento» fra la situazione dell’imprenditore destinatario dell’informativa antimafia sulla base di presupposti rivelatisi successivamente inesistenti e quella, individuata quale tertium comparationis, del titolare di diritto di proprietà su cui gravano vincoli sostanzialmente espropriativi. Infine, la disciplina impugnata contrasterebbe anche con gli artt. 2 e 3 Cost. (in ragione del danno che essa arrecherebbe all’impresa e ai suoi dipendenti), nonché con l’art. 97 Cost., in quanto determinerebbe «disaffezione e caduta di fiducia del privato e dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni e dell’autorità».

2. – La questione è inammissibile sotto diversi profili.

2.1. – Il giudice a quo ha censurato l’intero complesso delle disposizioni in materia di certificazioni e informative antimafia. La questione sollevata riguarda principalmente un provvedimento che, seppur di delegificazione, è comunque atto di natura regolamentare (ordinanza n. 48 del 2008). Inoltre, tra le norme impugnate vi è un intero testo legislativo, la cui illegittimità costituzionale è prospettata indistintamente in ordine a tutte le sue disposizioni.

Il collegio rimettente, quindi, non individua la norma censurata, ma si riferisce genericamente all’intera disciplina delle certificazioni e delle informative anti-mafia. Come già affermato da questa Corte, «non può il giudice rimettente indicare tutte le disposizioni del sistema o un grande settore dell’ordinamento giuridico, ma è tenuto a precisare le disposizioni che abbiano un effettivo e notevole grado di pertinenza con la norma sospettata di illegittimità. Ne deriva che l’indicazione di ampi settori normativi, senza detta precisazione, risulta inficiata da genericità ed eterogeneità tali da determinare l’inammissibilità della questione così sollevata» (sentenza n. 178 del 1995).

2.2. – In secondo luogo, il giudice a quo chiede di aggiungere, nel complesso delle disposizioni in materia di certificazioni e informative antimafia, ma senza individuare la sedes materiae, la previsione di «un appropriato indennizzo a favore di quelle imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso [...] e adottati i necessari provvedimenti interdittivi, risultino poi del tutto assenti tali rischi, in base all’accertamento contenuto in sentenze passate in giudicato». Questa decisione, tuttavia, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, implica valutazioni riservate al legislatore nell’ambito dei generali indirizzi di politica criminale (ordinanze n. 268, n. 267, n. 193 e n. 135 del 2009, e, con riferimento a fattispecie analoghe a quella del presente giudizio, nonché alla normativa censurata, ordinanze n. 1076 e n. 675 del 1988 e n. 450 del 1987).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), della legge 17 gennaio 1994, n. 47 (Delega al Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di comunicazioni e certificazioni di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575), dell’art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia nonché disposizioni concernenti i poteri del prefetto in materia di contrasto alla criminalità organizzata), e dell’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 febbraio 2010.