Sentenza n. 242 del 2009

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SENTENZA N. 242

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Francesco                    AMIRANTE                                    Presidente

-           Ugo                             DE SIERVO                                       Giudice

-           Paolo                           MADDALENA                                       "

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     "

-           Franco                         GALLO                                                    "

-           Luigi                            MAZZELLA                                            "

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             "

-           Sabino                         CASSESE                                                "

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  "

-           Giuseppe                     TESAURO                                               "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          "

-           Paolo                           GROSSI                                                   "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale   come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento),   promossi dalla Corte d’appello di Brescia con ordinanza del 25 marzo 2008, dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, con ordinanza del 21 maggio 2008, dalla Corte d’appello di Brescia, con ordinanza del 9 aprile 2008 e dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, con due ordinanze del 21 maggio 2008,         ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 187, 274 e 375 del registro ordinanze 2008 e ai nn. 32 e 33 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della     Repubblica nn. 26, 39 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2008 e n. 7, prima serie   speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

            1.1. – Con ordinanza emessa il 25 marzo 2008 (r.o. n. 187 del 2008), la Corte d’appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di non luogo a procedere.

            La Corte rimettente riferisce di essere investita dell’appello proposto dal Procuratore generale della Repubblica avverso la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia che aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di una persona imputata di tentata concussione, trattandosi di ipotesi di reato impossibile. Con l’atto di appello, il pubblico ministero aveva contestato la correttezza della decisione impugnata alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione in ordine al concetto di «inidoneità dell’azione», eccependo, in via preliminare, l’illegittimità costituzionale dell’art. 428 cod. proc. pen., come novellato dalla legge n. 46 del 2006, nella parte in cui preclude alla pubblica accusa l’appello contro le sentenze di non luogo a procedere.

            Ad avviso del giudice a quo, la questione deve ritenersi rilevante, in quanto dal suo accoglimento o meno dipende la prosecuzione del giudizio di appello, ovvero la sua cessazione per inammissibilità dell’impugnazione.

            Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 26 e n. 320 del 2007, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, rispettivamente, degli artt. 593 e 443, comma 1, cod. proc. pen., come modificati dalla legge n. 46 del 2006, per contrasto con il principio di parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost.): e ciò – prosegue il giudice a quo – sul rilievo che l’esclusione della facoltà del pubblico ministero di appellare le sentenze «di assoluzione e di proscioglimento», disposta da dette norme, genera una dissimmetria tra le parti processuali non sorretta da una ratio giustificatrice connessa ad esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, ed esorbita dai limiti della ragionevolezza.

            Analogo contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. sarebbe ravvisabile – a parere del rimettente – anche in rapporto all’art. 428 cod. proc. pen., che nell’attuale formulazione impedisce al pubblico ministero di appellare le sentenze di non luogo a procedere pronunciate dal giudice dell’udienza preliminare: sentenze non assimilabili – secondo la giurisprudenza di legittimità – alle sentenze di assoluzione e di proscioglimento, e sulle quali la Corte costituzionale non si è ancora pronunciata.

            La norma denunciata violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevolezza, non essendo ravvisabili, anche nell’ipotesi in esame, motivi atti a giustificare la soppressione della facoltà di appello del pubblico ministero: e ciò specie ove si consideri che il novellato art. 428 cod. proc. pen. esclude il potere di appello in situazione nella quale la parte pubblica è totalmente soccombente, quando invece la medesima parte è ammessa ad appellare in situazioni di soccombenza parziale, come quella indicata dall’art. 443, comma 3, cod. proc. pen.

            1.2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

            Ad avviso della difesa erariale, non potrebbero essere utilmente invocate, a sostegno delle censure, le sentenze n. 26 e n. 320 del 2007, trattandosi di declaratorie di incostituzionalità che investono disposizioni regolative dell’appello contro sentenze – quali quelle di proscioglimento pronunciate a seguito del dibattimento e del giudizio abbreviato – che implicano un compiuto esame nel merito dell’ipotesi accusatoria.

            Di contro, la sentenza di non luogo a procedere, emessa a conclusione dell’udienza preliminare, avrebbe natura di pronuncia processuale, basata esclusivamente sull’evidenza probatoria. Essa, inoltre, a differenza della sentenza di assoluzione emessa a seguito di giudizio, non è destinata a divenire definitiva, essendo suscettibile di revoca, ai sensi dell’art. 434 cod. proc. pen., qualora sopravvengano o si scoprano nuove fonti di prova atte a determinare – da sole, o unitamente a quelle già acquisite – il rinvio a giudizio.

            Priva di consistenza risulterebbe altresì la censura di violazione dell’art. 3 Cost., formulata dal giudice a quo allegando, quale tertium comparationis, l’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., a norma del quale il pubblico ministero può appellare la sentenza di condanna emessa all’esito del giudizio abbreviato solo qualora essa abbia modificato il titolo del reato: e ciò, stante l’evidenziata, peculiare natura della sentenza di non luogo a procedere.

            2. – La medesima questione di costituzionalità è sollevata, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost., dalla Corte d’appello di Brescia con ordinanza del 9 aprile 2008 (r.o. n. 375 del 2008), nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto gli appelli riuniti proposti dal pubblico ministero avverso le sentenze di non luogo a procedere emesse il 26 gennaio e il 9 ottobre 2006 nei confronti di persone imputate di associazione per delinquere.

            La questione – secondo il giudice a quo – sarebbe rilevante, giacché dalla sua risoluzione dipenderebbe l’ammissibilità o meno del gravame contro la sentenza del 9 ottobre 2006, proposto dopo l’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006.

            Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente formula, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., censure del tutto analoghe a quelle svolte con l’ordinanza r.o. n. 187 del 2008.

Il giudice a quo ritiene leso, altresì, l’art. 112 Cost., sul rilievo che la norma censurata comprimerebbe ingiustificatamente «la funzione inerente alla titolarità dell’azione penale», garantita dalla citata norma costituzionale.

3.1. – Con tre ordinanze di analogo tenore, emesse nell’ambito di distinti processi il 21 maggio 2008 (r.o. n. 274 del 2008, n. 32 e n. 33 del 2009), la Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 112 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 428 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui ha soppresso la facoltà del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere.

            La Corte rimettente riferisce di essere investita di appelli proposti dal pubblico ministero, in date successive all’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, avverso sentenze di non luogo a procedere per insussistenza del fatto, emesse da giudici dell’udienza preliminare di tribunali militari nei confronti di persone imputate, a seconda dei casi, di diserzione aggravata e di truffa militare pluriaggravata. Con l’atto di impugnazione, l’appellante aveva preliminarmente eccepito l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 112 Cost., del nuovo testo dell’art. 428 cod. proc. pen., che ha previsto come unico rimedio contro la sentenza di non luogo a procedere il ricorso per cassazione.

            Ad avviso del rimettente, la rilevanza della questione risulterebbe evidente, giacché, ove la stessa non fosse accolta, il gravame andrebbe dichiarato inammissibile, ovvero convertito in ricorso per cassazione.

            Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo reputa leso, anzitutto, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), osservando come la norma censurata si innesti su un quadro normativo che, per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 26 e n. 320 del 2007, garantisce al pubblico ministero il potere di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione pronunciate sia in esito al dibattimento che a conclusione del giudizio abbreviato. Di conseguenza, la preclusione stabilita dall’art. 428 cod. proc. pen. resterebbe priva di giustificazione, sottraendo alla pubblica accusa, nella «fondamentale fase» in cui viene formulata la domanda di giudizio, quel potere di richiedere un completo riesame di merito che le viene invece riconosciuto nelle ulteriori fasi del processo.

Detta preclusione risulterebbe inoltre incoerente, giacché il pubblico ministero, per correggere gli eventuali vizi della sentenza di non luogo a procedere, disporrebbe esclusivamente di un mezzo di impugnazione – il ricorso per cassazione – inadeguato, per i suoi peculiari caratteri, rispetto al tipo di valutazione che sovrintende alla sentenza di non luogo procedere (l’insostenibilità dell’accusa in giudizio): col risultato di trasformare quest’ultima «in una sostanziale pietra tombale».

            Ne deriverebbe, in pari tempo, una irragionevole discriminazione tra i procedimenti che richiedono l’udienza preliminare ed i procedimenti a citazione diretta: procedimenti, questi ultimi, nei quali, da un lato, la domanda di giudizio del pubblico ministero determina l’immediata fissazione dell’udienza dibattimentale, senza correre il rischio di venir «prematuramente bloccata»; e, dall’altro lato, la parte pubblica si vede assicurata – dopo le citate sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 – la possibilità di appellare contro la decisione conclusiva del giudizio di primo grado. L’irragionevolezza denunciata risulterebbe tanto più evidente ove si consideri che i procedimenti che richiedono l’udienza preliminare concernono i reati più gravi, rispetto ai quali è più acuta e pressante l’esigenza di un riesame del merito, per evitare che gli errori compiuti in sede di verifica della domanda di giudizio producano conseguenze irreversibili, in rapporto agli interessi della comunità e della persona offesa.

            Nei procedimenti in cui è prevista l’udienza preliminare – ossia nella totalità dei casi, quanto alla giurisdizione penale militare (innanzi alla quale non trovano applicazione le disposizioni del Libro VIII del codice di rito, sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica) – si verificherebbe, altresì, un irragionevole «sbilanciamento» delle posizioni delle parti, lesivo del principio di parità enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost. Infatti, mentre per l’imputato il più sfavorevole degli esiti di detta udienza è rappresentato dal rinvio a giudizio davanti al suo giudice naturale, ossia da un provvedimento «meramente interlocutorio», che non preclude in alcun modo all’interessato la possibilità di far valere in seguito le opportune doglianze sul merito della decisione conclusiva del processo di primo grado; per l’accusa, la sentenza di non luogo a procedere comporterebbe, viceversa, il pressoché definitivo «affossamento» delle ragioni pubblicistiche sottese all’esercizio dell’azione penale.

            Il giudice a quo rileva, «per inciso», come l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere incida negativamente anche sulla sfera giuridica dell’imputato, posto che nell’attuale sistema normativo non è consentito al pubblico ministero di appellare le suddette sentenze neanche nell’interesse del soggetto sottoposto a processo penale. Ciò determinerebbe una ulteriore incongruenza, alla luce di quanto statuito dalla sentenza n. 85 del 2008 della Corte costituzionale, che ha ripristinato la facoltà dell’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento dibattimentali le quali, pur non applicando una pena, comportino un sostanziale riconoscimento di responsabilità o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo. L’«anomalia» eliminata dalla citata sentenza continuerebbe, difatti, a contrassegnare le sentenze di non luogo a procedere, che rimarrebbero assoggettate ad un indifferenziato regime di inappellabilità, pur potendo essere emesse anche per la sussistenza di cause sopravvenute di non punibilità o di cause di estinzione del reato.

            Altrettanto evidente risulterebbe, poi, il pregiudizio recato al principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, seconda parte, Cost. Come evidenziato, infatti, nel messaggio del 20 gennaio 2006, con cui il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere l’originario testo della legge n. 46 del 2006, il trasferimento dalla corte d’appello alla Corte di cassazione dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere determinerebbe «non soltanto un ulteriore aumento di lavoro per la Corte di cassazione, ma anche, in caso di mancata conferma della sentenza …, una regressione del procedimento, che ne allungherà inevitabilmente i tempi di definizione». In effetti, ove ritenesse fondate le ragioni dell’impugnazione del pubblico ministero, il giudice di legittimità non potrebbe comunque emettere il decreto che dispone il giudizio (art. 429 cod. proc. pen.), ma dovrebbe annullare la sentenza impugnata con rinvio «al giudice a quo»: il quale, pur cambiato nella persona, potrebbe adottare una diversa «decisione liberatoria», a sua volta ricorribile per cassazione, in una sequenza suscettibile teoricamente di protrarsi «quasi all’infinito». Donde il vulnus al parametro evocato, con il quale debbono ritenersi incompatibili «le norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica».

            Da ultimo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.). Al riguardo, il rimettente ricorda come la giurisprudenza costituzionale abbia ravvisato nel potere di impugnazione del pubblico ministero una delle espressioni dell’anzidetto principio, puntualizzando, altresì, che la disciplina processuale non può essere congegnata in modo tale da vanificare il complessivo assolvimento delle funzioni dell’accusa (vengono citate, in specie, le sentenze n. 98 del 1994 e n. 177 del 1971). Tale affermazione – ad avviso del giudice a quo – non sarebbe stata «completamente neutralizzat[a]» dalle successive decisioni, nelle quali la Corte costituzionale ha escluso una diretta e generale correlazione tra potere di impugnazione della parte pubblica e obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (vengono citate le ordinanze n. 421 del 2001, n. 347 del 2002 e n. 165 del 2003). Siffatte decisioni riguarderebbero, infatti, un’ipotesi ben diversa da quella oggi in esame, essendo riferite alla norma che impediva al pubblico ministero di proporre appello, principale e incidentale, contro le sentenze di condanna emesse a conclusione del giudizio abbreviato: vale a dire nel contesto di un rito che – dopo il positivo esercizio dell’azione penale – persegue obiettivi di semplificazione processuale, in relazione ai quali può considerarsi «appagante» un epilogo «comunque coincidente con le essenziali finalità perseguite dall’accusa».

            Nel caso di specie, per contro, verrebbe in rilievo un limite direttamente incidente sull’atto di esercizio dell’azione penale, che non ha realizzato il proprio obiettivo del giudizio dibattimentale: onde non si comprenderebbe «con quale coerenza “costituzionale”» la legge ordinaria possa interdire al pubblico ministero di chiedere al giudice di merito superiore una diversa valutazione circa la non superfluità del dibattimento. E ciò soprattutto ove si consideri che la preclusione all’appello concerne una sentenza di carattere processuale, emessa nell’ambito di un giudizio «essenzialmente cartolare», nel quale non trova esplicazione il principio del contraddittorio nella formazione della prova.

            3.2. – Nei giudizi relativi alle ordinanze r.o. n. 32 e n. 33 del 2009 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

            L’Avvocatura generale dello Stato ribadisce l’impossibilità di far leva, onde ravvisare una violazione dell’art. 3 Cost., sulle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007, stante l’eterogeneità delle pronunce cui le stesse si riferiscono: rilievo, questo, che renderebbe altresì palese l’insussistenza del ventilato contrasto con l’art. 111 Cost.

            Quanto, poi, alla supposta lesione dell’art. 112 Cost., la difesa erariale osserva come la possibilità, garantita al pubblico ministero dall’art. 434 cod. proc. pen., di sollecitare la revoca della sentenza di non luogo a procedere sia preordinata proprio a garantire efficacemente l’esercizio dell’azione penale.

Considerato in diritto

1.1. – La Corte d’appello di Brescia, con due ordinanze di rimessione, sottopone a scrutinio di legittimità costituzionale l’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere.

Ad avviso della Corte rimettente, varrebbero, in rapporto alla norma censurata, le medesime considerazioni poste a base delle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 di questa Corte: sentenze che hanno dichiarato costituzionalmente illegittime, per contrasto con il principio di parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, della Costituzione), le limitazioni introdotte dalla citata legge n. 46 del 2006 al potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento emesse all’esito del dibattimento (art. 593 cod. proc. pen.) e del giudizio abbreviato (art. 443, comma 1, cod. proc. pen.). La sottrazione al pubblico ministero del potere di appello contro le sentenze di non luogo a procedere genererebbe, difatti, anch’essa una asimmetria tra le parti processuali non sorretta da adeguata ratio giustificatrice connessa ad esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale.

Risulterebbe leso, altresì, l’art. 3 Cost., in rapporto al principio di ragionevolezza, non essendo ravvisabili motivi atti a spiegare la soppressione di detto potere, disposta dalla norma denunciata in una situazione nella quale la parte pubblica è «totalmente soccombente», quando invece la medesima parte è ammessa, ai sensi dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., ad appellare in situazioni di «soccombenza parziale».

Il giudice a quo rappresenta, infine, nella sola ordinanza r.o. n. 375 del 2008, la violazione dell’art. 112 Cost., assumendo che la norma censurata comprimerebbe ingiustificatamente «la funzione inerente alla titolarità dell’azione penale».

1.2. – La legittimità costituzionale del nuovo testo dell’art. 428 cod. proc. pen., nella parte in cui preclude l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di non luogo a procedere, è posta in dubbio anche dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, con tre ordinanze di rimessione di analogo tenore.

Secondo la Corte rimettente, la disposizione censurata lederebbe l’art. 3, primo comma, Cost. sotto un triplice profilo. In primo luogo, perché priverebbe ingiustificatamente la pubblica accusa, nella «fondamentale fase» in cui viene formulata la domanda di giudizio, del potere di richiedere un completo riesame di merito della decisione a sé sfavorevole: potere che – a seguito delle sentenze della Corte n. 26 e n. 320 del 2007 – le viene invece riconosciuto nelle ulteriori fasi del processo. In secondo luogo, perché accorderebbe al pubblico ministero un mezzo di impugnazione – il ricorso per cassazione – inadeguato rispetto al tipo di valutazione che sovrintende alla sentenza di non luogo a procedere (l’insostenibilità dell’accusa in giudizio), trasformando, di fatto, quest’ultima in una «pietra tombale». In terzo luogo e da ultimo, perché determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento fra i procedimenti con udienza preliminare e i procedimenti a citazione diretta, nei quali, da un lato, la domanda di giudizio del pubblico ministero determina senz’altro la fissazione dell’udienza dibattimentale; e, dall’altro, la parte pubblica – dopo le citate sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 – resta abilitata ad appellare la decisione conclusiva del giudizio di primo grado.

La norma denunciata si porrebbe, altresì, in contrasto con il principio di parità delle parti (art. 111, secondo comma, primo periodo, Cost.), giacché mentre per l’imputato il più sfavorevole degli esiti dell’udienza preliminare è rappresentato dal rinvio a giudizio, ossia da un provvedimento «meramente interlocutorio», che non pregiudica la possibilità di far valere le opportune doglianze di merito contro il provvedimento conclusivo del giudizio di primo grado; per l’accusa, invece, la sentenza di non luogo a procedere comporterebbe la pressoché definitiva negazione delle ragioni pubblicistiche sottese all’esercizio dell’azione penale.

Verrebbe leso, ancora, il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, secondo periodo, Cost.), in quanto il trasferimento alla Corte di cassazione dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere determinerebbe, nel caso di mancata conferma della sentenza stessa, la regressione del procedimento, con illogico allungamento dei relativi tempi di definizione.

La nuova formulazione dell’art. 428 cod. proc. pen. violerebbe, da ultimo, il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), ponendo un limite che incide sull’atto di esercizio di tale azione, che non ha raggiunto l’obiettivo di accedere al giudizio dibattimentale.

2. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche od analoghe, relative alla medesima norma, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3. – La questione non è fondata.

4. – Va escluso, in primo luogo, che la norma censurata determini un vulnus al principio di parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost.) analogo a quello riscontrato dalle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 di questa Corte, con riferimento alla soppressione del potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento emesse in esito al giudizio ordinario e al giudizio abbreviato.

Nelle citate sentenze del 2007, questa Corte ha difatti rilevato che le disposizioni allora censurate (i novellati artt. 593 e 443, comma 1, cod. proc. pen.) determinavano una «dissimmetria radicale», facendo sì che una sola delle parti, e non l’altra, fosse abilitata a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole (l’imputato poteva appellare la sentenza di condanna, che disattende la sua “pretesa di innocenza”; il pubblico ministero solo ricorrere per cassazione contro la sentenza di proscioglimento, che respinge integralmente l’istanza punitiva). Dissimmetria che, per i suoi concorrenti caratteri di «generalità» e «unaliteralità», è stata reputata eccedente i margini di tollerabilità connaturali al principio di parità tra accusa e difesa, il quale pure non può obliterare le «fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici» (così, in specie, la sentenza n. 26 del 2007).

Diversamente dalla sentenza di proscioglimento, la sentenza di non luogo a procedere, emessa all’esito dell’udienza preliminare, non rappresenta l’alternativa alla condanna, ma al rinvio a giudizio: nell’udienza preliminare non si procede ad un giudizio pieno sul merito dell’imputazione, accertando la responsabilità dell’imputato, ma si verifica l’utilità o meno del dibattimento alla stregua di una prognosi sulla sostenibilità dell’accusa in giudizio. Anche dopo il significativo accrescimento dei poteri del giudice dell’udienza preliminare, operato dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, la decisione di detto giudice resta difatti fondamentalmente calibrata in quella chiave prognostica (sentenza n. 384 del 2006).

 Ciò posto, vale osservare che se, con la novella del 2006, il potere di appello contro la sentenza di non luogo a procedere è stato sottratto ad entrambe le parti; per altro verso, l’epilogo alternativo dell’udienza preliminare, sfavorevole all’imputato – ossia il decreto di rinvio a giudizio – non è impugnabile da parte di alcuno.

Né è dirimente l’obiezione che i due provvedimenti hanno una diversa portata sostanziale: giacché mentre la sentenza di non luogo a procedere paralizza la pretesa punitiva avanzata dal pubblico ministero, il decreto di rinvio a giudizio si limita a determinare il passaggio alla fase dibattimentale, contro il cui epilogo – ove a sé sfavorevole – l’imputato potrà comunque proporre appello.

A prescindere, infatti, da ogni rilievo circa la possibilità di porre a raffronto, ai presenti fini, esiti alternativi, non della stessa fase, ma di fasi processuali successive ed eterogenee, quanto ad oggetto dell’accertamento e base decisionale (udienza preliminare e dibattimento), si deve osservare che la “paralisi” della domanda di giudizio del pubblico ministero, conseguente alla sentenza di non luogo a procedere, non è comunque definitiva. A differenza della sentenza di proscioglimento, la sentenza di non luogo a procedere non è idonea a dispiegare effetti preclusivi irremovibili, anche dopo lo spirare dei termini di impugnazione: in aggiunta al potere di ricorrere per cassazione, il pubblico ministero resta difatti abilitato ad ottenerne in ogni tempo la revoca (salvi solo i limiti di prescrizione del reato), quando sopravvengano o si scoprano nuove prove che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possano determinare il rinvio a giudizio (art. 434 cod. proc. pen.), così mutando il giudizio prognostico negativo implicato dalla sentenza medesima.

In tale cornice, si deve dunque concludere che la scelta operata con la norma denunciata rappresenta esercizio di discrezionalità legislativa, non esorbitante dai confini di compatibilità con il parametro costituzionale evocato. Allo stesso modo in cui non contrastava con il principio di parità delle parti la disciplina previgente, laddove attribuiva al pubblico ministero un’ampia gamma di strumenti per rimuovere la sentenza di non luogo a procedere, cumulando alla facoltà di appello la possibilità di chiederne sine die la revoca; così pure non confligge con detto parametro quella attuale, che ha escluso, in via generale, un controllo di merito sulla delibazione operata dal giudice dell’udienza preliminare. Si tratta di scelta – condivisibile o meno, sul piano dell’opportunità – comunque rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario.

5. – E’ già insita, per altro verso, in quanto precede l’insussistenza della violazione dell’art. 3 Cost., dedotta dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento, quanto al regime di impugnazione, tra la sentenza di non luogo a procedere e le sentenze di proscioglimento pronunciate a seguito del dibattimento e del giudizio abbreviato (decisioni, queste ultime, che il pubblico ministero è abilitato ad appellare per effetto delle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007).

La sentenza di non luogo a procedere è, difatti, eterogenea sotto plurimi aspetti – oggetto dell’accertamento, base decisionale, regime di stabilità e carenza di efficacia extrapenale – rispetto ai tertia comparationis: circostanza sulla quale questa Corte ha già avuto modo di porre l’accento in rapporto a questioni di costituzionalità analoghe a quella in esame, rispetto alle quali assumeva rilievo pregiudiziale (diversamente che nel caso odierno) il problema dell’applicabilità o meno alle sentenze di non luogo a procedere della disciplina transitoria dettata dall’art. 10 della legge n. 46 del 2006 con riguardo alle sentenze di «proscioglimento» (ordinanze n. 156 e n. 4 del 2008).

6. – Neppure è estensibile al nuovo art. 428 cod. proc. pen. – contrariamente a quanto assume la Corte d’appello di Brescia, che ne fa oggetto di autonoma censura in rapporto all’art. 3 Cost. – l’altro argomento posto a fondamento delle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007: ossia l’incoerenza connessa al fatto che i novellati artt. 593 e 443, comma 1, cod. proc. pen. privassero il pubblico ministero del potere di proporre appello contro la pronuncia totalmente sfavorevole (il proscioglimento), quando invece la parte pubblica restava legittimata ad appellare contro sentenze che disattendono solo in parte le istanze dell’accusa (quale la condanna a pena ritenuta non congrua o con mutamento del titolo del reato).

L’ipotesi di un accoglimento solo parziale delle istanze dell’accusa non è, infatti, configurabile nell’udienza preliminare, all’esito della quale il pubblico ministero o vede accogliere la propria richiesta di giudizio o la vede respingere. Né il vulnus costituzionale può essere desunto – come pretende la Corte rimettente (la quale evoca, in specie, l’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., in tema di appellabilità da parte del pubblico ministero della sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato, qualora abbia modificato il titolo del reato) – ponendo a raffronto il regime di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere con quello della sentenza di condanna: essendo quest’ultima una sentenza che pronuncia in modo pieno sul merito dell’imputazione e che, pertanto, rappresenta nuovamente un tertium comparationis eterogeneo (la sentenza n. 206 del 1997).

7. – Del tutto inconferente risulta poi il richiamo, operato dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, alla sentenza n. 85 del 2008 di questa Corte, che ha ripristinato il potere di appello dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento dibattimentali con formula non ampiamente liberatoria, nell’ottica di rimuovere una riscontrata posizione di svantaggio, in parte qua, dell’imputato rispetto al pubblico ministero e alla parte civile. Posizione di svantaggio che nella specie non ricorre e che non si vede, in ogni caso, come potrebbe rilevare rispetto al petitum del giudice rimettente, che è di ripristino del potere di appello della parte contrapposta (il pubblico ministero).

8. – Insussistente è, ancora, la violazione dell’art. 3 Cost., ipotizzata dalla medesima Corte militare di appello sotto l’ulteriore profilo della inadeguatezza dell’unico rimedio accordato al pubblico ministero – il ricorso per cassazione – rispetto al tipo di valutazione sotteso alla sentenza di non luogo a procedere (l’insostenibilità dell’accusa in giudizio), in quanto apprezzamento di ordine prettamente fattuale: inadeguatezza che trasformerebbe detta sentenza in un disconoscimento definitivo delle ragioni dell’accusa.

Anche a prescindere dalla perdurante possibilità di revoca della sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 434 cod. proc. pen., è assorbente il rilievo che la censura in esame resta sul piano della mera critica di opportunità. Critica che, peraltro – almeno nei termini perentori in cui è formulata dal rimettente – non appare confortata dall’esperienza giurisprudenziale, nella quale non possono dirsi assenti, né assolutamente eccezionali, le ipotesi di accoglimento del ricorso per cassazione del pubblico ministero contro le sentenze in questione (e ciò anche in correlazione all’ampliamento della griglia dei motivi di ricorso operato dalla stessa legge n. 46 del 2006, che in particolare ha esteso, con il nuovo art. 606, comma 1, lettera e, cod. proc. pen., il vaglio della Cassazione al vizio di «contraddittorietà» della motivazione emergente non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche «da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame»).

È sintomatica, d’altronde, la circostanza che, nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 187 del 2008, il pubblico ministero abbia dedotto, con l’atto di appello, motivi che appaiono di mera legittimità (il richiamo agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di cassazione sul concetto di «inidoneità dell’azione») e che, come tali, risulterebbero deducibili anche con il ricorso per cassazione.

9. – Infondata è, parimenti, la censura di violazione dell’art. 3 Cost. – formulata anch’essa dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona – sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra procedimenti con udienza preliminare (sempre prevista nel processo penale militare, stante la necessaria collegialità del giudice) e procedimenti a citazione diretta, nei quali ultimi, per un verso, la domanda di giudizio del pubblico ministero sfocia nell’immediata fissazione dell’udienza dibattimentale, senza correre il rischio di un «blocco prematuro», non censurabile dalla pubblica accusa quanto ai profili di merito; e, per altro verso, la parte pubblica – dopo le sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 – resta comunque abilitata ad appellare la sentenza di proscioglimento emessa a conclusione del giudizio di primo grado.

La denunciata disparità di regime non può essere considerata, infatti – secondo quanto opina il rimettente – come una irrazionale limitazione della tutela della pubblica accusa nei procedimenti per i reati più gravi e di maggiore allarme sociale (quali quelli per cui è prevista l’udienza preliminare), ma rappresenta solo una conseguenza del diverso modulo processuale: modulo che, per i procedimenti a citazione diretta, disegnati con maggior snellezza di forme in considerazione sia del numero che della qualità non grave dei reati, consente l’apertura della fase dibattimentale senza passare attraverso il filtro dell’udienza preliminare (in termini analoghi, si veda la sentenza n. 381 del 1992, chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale dello stesso art. 428 cod. proc. pen., nel testo originario, con riferimento alla disparità di trattamento della persona offesa dal reato di diffamazione, a seconda che si trattasse di diffamazione semplice o a mezzo stampa).

10. – Quanto alla censura della stessa Corte militare d’appello, di contrarietà del nuovo disposto dell’art. 428 cod. proc. pen. al principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), è dirimente il rilievo che – secondo quanto già affermato in più occasioni da questa Corte – una lesione del predetto principio non è comunque configurabile ove l’allungamento dei tempi del procedimento, eventualmente indotto dalla norma denunciata, risulti compensato dal possibile risparmio di attività processuali su altri versanti: rimanendo, in tal caso, affidata alla discrezionalità legislativa la valutazione comparativa tra «costi» e «benefici» della scelta operata (sentenze n. 64 del 2009 e n. 298 del 2008, quest’ultima con riferimento alla soppressione del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze del giudice di pace).

Nel caso in esame, a prescindere da ogni apprezzamento di merito, l’effetto negativo indotto dalla eventuale regressione del procedimento – conseguente al fatto che, nel caso di accoglimento del gravame del pubblico ministero, la Corte di cassazione (a differenza della corte d’appello) non può direttamente emettere il decreto di citazione a giudizio, ma deve annullare con rinvio la sentenza impugnata – appare comunque compensato, in termini di riduzione complessiva dei tempi necessari alla celebrazione del processo, dalla eliminazione del secondo grado di giudizio (che vale a comprimere tali tempi, specie nel caso in cui le doglianze del pubblico ministero risultassero infondate).

11. – Vanno disattese, infine, le censure di violazione del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), formulate da entrambi i giudici rimettenti, stante l’inconferenza del parametro evocato.

La giurisprudenza di questa Corte è da tempo consolidata nel senso che il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale (sentenza n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e n. 426 del 1998; si vedano, altresì, con riferimento a disposizioni della legge n. 46 del 2006, le sentenze n. 298 del 2008 e n. 26 del 2007). Principio, questo, che – contrariamente a quanto mostra di ritenere la Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona – non è stato affatto affermato con esclusivo riferimento alle sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato, ma in termini generali, e dunque, anche – e prima di tutto – con riguardo all’impugnazione delle sentenze dibattimentali (sentenza n. 280 del 1995; si veda pure la sentenza n. 26 del 2007), nonché – per quanto al presente specificamente interessa – delle stesse sentenze di non luogo a procedere (sentenza n. 206 del 1997). A corroborare l’assunto in parola giova ricordare la discrezionalità riconosciuta al pubblico ministero nella scelta se proporre o meno impugnazione.

Tutto ciò a prescindere dal rilievo che la norma censurata si limita ad eliminare il doppio grado di giurisdizione di merito – privo, di per sé, di riconoscimento costituzionale – permettendo comunque al pubblico ministero di attivare il controllo di legittimità, con i più ampi margini di verifica prefigurati dall’attuale testo dell’art. 606 cod. proc. pen., e salva sempre la possibilità di revoca della sentenza di non luogo a procedere nel caso di novum probatorio, ai sensi dell’art. 434 cod. proc. pen. Situazione nella quale non potrebbe comunque parlarsi di compromissione definitiva della pretesa fatta valere dalla pubblica accusa, come conseguenza della norma denunciata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Brescia e dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2009.