Sentenza n. 64 del 2009

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SENTENZA N. 64

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Francesco                  AMIRANTE                         Presidente

-    Ugo                          DE SIERVO                          Giudice

-    Paolo                        MADDALENA                           "

-    Alfio                        FINOCCHIARO                         "

-    Alfonso                    QUARANTA                              "

-    Franco                      GALLO                                      "

-    Luigi                        MAZZELLA                               "

-    Gaetano                    SILVESTRI                                "

-    Sabino                      CASSESE                                   "

-    Maria Rita                 SAULLE                                    "

-    Giuseppe                   TESAURO                                  "

-    Paolo Maria               NAPOLITANO                           "

-    Giuseppe                   FRIGO                                       "

-    Alessandro                CRISCUOLO                              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, e 7 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promossi con ordinanze del 19 ottobre 2006 dal Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, e del 14 dicembre 2006 dal Tribunale di Montepulciano nei procedimenti penali a carico di G.S. e di R.M. ed altro iscritte ai nn. 339 e 486 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 26, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti l’atto di costituzione di R.M. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 febbraio 2009 e nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi  l’avvocato Renato Borzone per R.M. e l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

         1.1. – Con ordinanza emessa il 14 dicembre 2006, nel corso di un processo penale nei confronti di due persone imputate di reati di lesioni personali e di minaccia commessi in danno reciproco, il Tribunale di Montepulciano in composizione monocratica ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 6, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevede che tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice si abbia connessione anche quando una persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso;

b) dell’art. 7 del medesimo d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non prevede che, davanti al giudice di pace, si abbia connessione di procedimenti anche quando una persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso.

Il giudice a quo osserva come, in deroga alla disciplina generale dettata dall’art. 12 del codice di procedura penale, le norme impugnate regolino in senso fortemente limitativo la competenza per connessione: stabilendo, in specie – quanto all’art. 6 del d.lgs. n. 274 del 2000 – che tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice si ha connessione solo se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (ossia unicamente nell’ipotesi di concorso formale); e – quanto al successivo art. 7 – che davanti al giudice di pace si ha connessione solo in caso di concorso formale di reati o quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro.

Recependo l’eccezione formulata dal difensore di uno degli imputati, il rimettente assume che dette disposizioni si porrebbero in contrasto con plurimi precetti costituzionali, nella parte in cui non prevedono – diversamente dall’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. – che la connessione operi anche quando una persona sia imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, vale a dire, nel caso di reato continuato.

Le norme denunciate violerebbero, in specie, i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), giacché la distinzione – pur esistente sul piano naturalistico – tra le fattispecie del concorso formale di reati e della continuazione non giustificherebbe un loro diverso trattamento sotto il profilo considerato, tenuto conto delle identiche conseguenze giuridiche previste per entrambe dall’art. 81 del codice penale sul piano sanzionatorio con il cosiddetto cumulo giuridico delle pene. Questa unitarietà di effetti – implicante, secondo il rimettente, una uguale disciplina quanto alla connessione dei procedimenti – risulterebbe confermata dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), la quale, aggiungendo un comma all’art. 81 cod. pen., l’attuale quarto comma, ha previsto un uguale aumento minimo di pena per i recidivi reiterati, tanto in rapporto ai reati in concorso formale quanto a quelli in continuazione.

La disparità di trattamento censurata si risolverebbe, d’altronde, in un «danno sostanziale» per l’imputato, il quale, nel caso in cui la continuazione includa anche reati di competenza del giudice di pace, si troverebbe costretto ad affrontare plurimi processi di fronte a giudici diversi, con conseguenti rischi di giudicati contrastanti e di applicazione di pene più severe; mentre, ove la continuazione stessa attenga a reati tutti di competenza del tribunale, o addirittura del tribunale e della corte d’assise, egli avrebbe «diritto ad un unico giudizio».

Le norme impugnate violerebbero, inoltre, l’art. 24 Cost., giacché la moltiplicazione dei processi implicherebbe un «aggravio ingiustificato nell’esercizio del diritto di difesa», con maggiorazione dei costi per colui che è costretto ad affrontare plurimi giudizi; nonché l’art. 97 Cost., per l’«evidente sperpero delle già scarse risorse collettive disponibili», in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

Risulterebbe compromesso, da ultimo, l’art. 111 Cost., in quanto lo svolgimento separato di procedimenti suscettibili di trattazione unitaria non contribuirebbe alla realizzazione del «giusto processo», secondo quanto stabilito da tale norma costituzionale.

A parere del giudice a quo, l’aggiunta del reato continuato alle ipotesi di connessione tra reati di competenza del giudice di pace e reati di competenza di altro giudice non troverebbe ostacolo nella circostanza che per i primi il d.lgs. n. 274 del 2000 preveda pene di tipo diverso da quelle contemplate nel codice penale. Da un lato, infatti, alla luce dell’attuale dato normativo, l’«esclusione pratica» della continuazione tra le due categorie di reati risulterebbe circoscritta alla fase della cognizione, potendo l’istituto essere comunque applicato in sede esecutiva. Dall’altro lato, la giurisprudenza sarebbe in grado di elaborare criteri di ragguaglio al fine di determinare la pena applicabile ai «reati satellite» puniti con pene di specie o genere diverso da quella del reato principale, come è già avvenuto per le ipotesi di continuazione tra delitti e contravvenzioni o tra delitti puniti con sola pena detentiva e delitti puniti con sola pena pecuniaria.

La questione risulterebbe altresì rilevante nel processo a quo, giacché il pubblico ministero ha tratto a giudizio davanti al rimettente due persone, contestando ad una di esse due reati uniti dal vincolo della continuazione: il primo (delitto di lesioni, con malattia di durata superiore ai venti giorni) di competenza del tribunale; l’altro (delitto di minaccia semplice) di competenza del giudice di pace. Situazione, questa, nella quale il giudice a quo si troverebbe costretto, alla stregua della disciplina vigente, a dichiarare anche ex officio la propria incompetenza in ordine al secondo reato.

1.2. – Si è costituito nel giudizio di costituzionalità M. R., imputato e persona offesa nel processo a quo, il quale ha svolto argomenti adesivi alle prospettazioni del giudice rimettente, chiedendo l’accoglimento delle questioni di costituzionalità sollevate.

Nell’udienza pubblica la parte privata ha ricordato che la scelta normativa censurata, relativa al trattamento differente, ai fini della connessione, tra procedimenti per reati in concorso formale e procedimenti per reati in continuazione, è stata compiuta in sede di elaborazione della legge delegata (e in attuazione della direttiva espressa dall’art. 17, comma 1, lettera i), della legge di delegazione 24 novembre 1999 n. 468), dopo che in un primo tempo per entrambe le fattispecie era stata esclusa l’operatività della connessione, così riconoscendo la necessità di un identico trattamento.

La stessa parte privata ha chiesto, inoltre, che la Corte, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiari in via consequenziale l’illegittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 6, 7 e 9 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non consente la riunione dei processi, pendenti nella stessa fase, davanti al giudice superiore, nel caso di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, allorché taluno dei reati sia di competenza del giudice di pace; nonché dell’art. 4 del medesimo decreto legislativo, nella parte in cui attribuisce al giudice di pace una limitata competenza per i reati di lesioni personali dolose e colpose (artt. 582 e 590 cod. pen.), basata su elemento incerto, quale la durata della malattia, anziché lasciare per intero la cognizione di tali reati al tribunale.

Ad avviso della parte privata, infatti, le disposizioni ora indicate – rilevanti in rapporto alla vicenda oggetto del giudizio a quo – sarebbero anch’esse idonee a provocare ingiustificate moltiplicazioni di procedimenti, lesive dei parametri costituzionali evocati.

         1.3. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

         In via preliminare, la difesa erariale eccepisce l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del d.lgs. n. 274 del 2000, che regola le ipotesi di connessione dei procedimenti davanti al giudice di pace. Tale disposizione non verrebbe invero in considerazione nel giudizio a quo, in cui si discute della connessione tra procedimenti di competenza di giudici diversi (tribunale e giudice di pace).

         Quanto, poi, alla questione relativa all’art. 6 del d.lgs. n. 274 del 2000, l’Avvocatura generale dello Stato osserva come la disciplina dettata dalla norma impugnata rifletta la volontà del legislatore di attribuire al giudice di pace la cognizione di una categoria di reati di minore rilevanza sociale, al fine di decongestionare i carichi di lavoro dei giudici superiori. In tale prospettiva, si è ritenuto di dare rilievo alla connessione, comportante la competenza del giudice superiore, nella sola ipotesi del concorso formale, caratterizzata dall’unicità dell’azione o dell’omissione, per l’impossibilità di demandare a giudici diversi la cognizione del medesimo fatto riconducibile a plurimi paradigmi punitivi. Per contro, nel caso del concorso materiale, in cui le condotte e gli eventi criminosi restano distinti, pur in presenza del vincolo della continuazione, si è preferito evitare che la competenza del giudice di pace, stabilita per taluna delle fattispecie, possa venir meno in conseguenza della connessione.

         Tale scelta non sarebbe irragionevole, giacché, per un verso, risulterebbe conforme al principio del giudice naturale, stabilito dall’art. 25, primo comma, Cost.; e, per altro verso, sarebbe frutto di valutazioni discrezionali del legislatore in ordine alla distribuzione dei carichi giudiziari, ai fini di una più efficiente amministrazione della giustizia.

         Infondata sarebbe, poi, la denuncia di violazione del principio di eguaglianza, essendo del tutto diverse, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale, le due ipotesi del concorso formale e materiale, poste a confronto dal giudice a quo. Né sussisterebbe alcuna lesione dell’art. 24 Cost., poiché la pendenza di più processi per reati diversi dinanzi a giudici distinti non limita in nessun modo il diritto di difesa, che è egualmente garantito in entrambe le sedi. Analogamente, non potrebbe ritenersi violato l’art. 97 Cost., giacché l’attribuzione di determinati reati di minore gravità al giudice di pace è finalizzata proprio ad accrescere la celerità e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia.

         Quanto, infine, alla censura di violazione dell’art. 111 Cost., la stessa sarebbe inammissibile, risultando fondata su valutazioni soggettive del giudice a quo in ordine alla ragionevolezza delle scelte operate dal legislatore in tema di competenza.

         2.1. – Con ordinanza emessa il 19 ottobre 2006, nell’ambito di un processo penale nei confronti di persona imputata dei delitti di lesioni volontarie, minaccia, danneggiamento e di altro reato, il Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui esclude che si abbia connessione tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice quando una persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso.

         Il rimettente osserva come la norma denunciata limiti la connessione tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice al solo caso del concorso formale di reati, negando, con ciò, rilievo all’ipotesi del reato continuato. Di conseguenza, il giudice a quo dovrebbe dichiarare la propria incompetenza per materia in ordine al contestato reato di «lesioni volontarie lievissime» – devoluto alla cognizione del giudice di pace – dovendosi escludere che tale reato sia stato commesso in concorso formale con alcuno degli altri reati ascritti all’imputato.

Le implicazioni di tale declaratoria di incompetenza risulterebbero, peraltro, irragionevoli, avuto riguardo segnatamente all’ipotesi di consecutive sentenze di condanna, emesse dai due diversi giudici competenti per i due processi. Tanto ove la sentenza di condanna fosse emessa prima dal tribunale e poi dal giudice di pace, quanto nel caso inverso, il giudice che si accingesse a pronunciare la seconda sentenza non potrebbe ignorare che il reato, o i reati, oggetto della prima decisione sono uniti dal vincolo della continuazione con quelli oggetto del proprio giudizio, e non potrebbe dunque astenersi dal determinare la pena in conformità della disciplina relativa. Ma al riguardo si dovrebbe considerare che il giudice di pace non può infliggere le pene della reclusione o dell’arresto, onde sarebbe «sommamente dubbio» che possa applicare un aumento della pena inflitta dal tribunale: e lo stesso rilievo varrebbe, mutatis mutandis, nel caso in cui la sentenza del tribunale intervenisse dopo quella del giudice onorario.

È ben vero che l’ostacolo sarebbe superabile, essendo comunque possibile provvedere in sede di esecuzione ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., ma ciò darebbe luogo ad una «gratuita complicazione», con innegabile ritardo nella definizione del processo.

Di qui la ritenuta non manifesta infondatezza della questione, la quale sarebbe altresì rilevante, in quanto, allo stato, il rimettente dovrebbe dichiararsi incompetente per materia in ordine ad uno dei reati contestati, ancorché esso risulti evidentemente commesso in esecuzione del medesimo criminoso sotteso agli altri reati (o, quantomeno, a quelli di minaccia e danneggiamento).

         2.2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata sulla base di argomenti analoghi a quelli svolti in riferimento alla questione di costituzionalità del medesimo art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, sollevata dal Tribunale di Montepulciano.

Considerato in diritto

         1. – Il Tribunale di Montepulciano dubita della legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, e 7 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevedono, rispettivamente, che tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice, nonché tra procedimenti tutti di competenza del giudice di pace si abbia connessione anche quando una persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso.

         Ad avviso del rimettente, le disposizioni denunciate violerebbero l’art. 3 della Costituzione, determinando una ingiustificata disparità di trattamento fra la fattispecie del concorso formale di reati – che ai sensi delle disposizioni stesse dà luogo a connessione – e quella del reato continuato, quantunque l’art. 81 del codice penale riconnetta ad entrambe identiche conseguenze sul piano sanzionatorio.

         L’art. 3 Cost. risulterebbe compromesso anche sotto l’ulteriore profilo della irragionevole sperequazione tra l’imputato di più reati uniti dal vincolo della continuazione, taluno dei quali di competenza del giudice di pace, che si trova costretto ad affrontare plurimi processi davanti a giudici diversi, col rischio di giudicati contrastanti e di applicazione di pene più severe, e l’imputato di più reati, pure unificati dal vincolo della continuazione, di competenza del tribunale o del tribunale e della corte d’assise, il quale avrebbe invece diritto, ai sensi dall’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, ad un unico giudizio.

         Le norme impugnate violerebbero, altresì, l’art. 24 Cost., giacché la trattazione separata e, quindi, la moltiplicazione dei processi per reati uniti dal vincolo della continuazione determinerebbe un ingiustificato aggravio nell’esercizio del diritto di difesa, con maggiorazione dei relativi costi; nonché l’art. 97 Cost., per lo sperpero di risorse collettive indotto dalla celebrazione di plurimi giudizi, in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

Risulterebbe leso, infine, l’art. 111 Cost., in quanto lo svolgimento in via autonoma di procedimenti che pure sarebbero suscettibili di trattazione unitaria non contribuirebbe alla realizzazione del «giusto processo».

2. – L’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 è sottoposto a scrutinio, nella parte in cui non annovera la continuazione fra le ipotesi di connessione, anche dal Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale.

Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata lederebbe l’art. 3 Cost., in quanto lo svolgimento separato dei processi renderebbe inutilmente più complessa, o addirittura impedirebbe l’applicazione in sede cognitiva del regime della continuazione.

Verrebbe vulnerato, inoltre, l’art. 111, secondo comma, Cost., giacché la conseguente esigenza di far ricorso al giudice dell’esecuzione al fine di ottenere l’applicazione della disciplina recata per la continuazione dall’art. 81 cod. pen. si risolverebbe in una «gratuita complicazione», produttiva di ritardo nella definizione del processo.

3. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, attinenti, in parte, alla medesima norma, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

4. – La questione di costituzionalità dell’art. 7 del d.lgs. n. 274 del 2000, sollevata dal solo Tribunale di Montepulciano, è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.

L’indicata norma regola, infatti, la connessione davanti al giudice di pace: ossia tra procedimenti tutti di competenza, ratione materiae, dello stesso (connessione cosiddetta omogenea). Nel giudizio a quo viene in rilievo, per contro, unicamente la disciplina della connessione eterogenea, dettata dall’art. 6, comma 1, del medesimo decreto legislativo: discutendosi, in specie, della possibilità di ravvisare il rapporto connettivo tra un reato di competenza del tribunale (lesioni volontarie con malattia di durata superiore a venti giorni) e altro reato di competenza del giudice di pace (minaccia semplice), unito al primo dal vincolo della continuazione.

5. – La questione di costituzionalità dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, sollevata da entrambi i giudici a quibus, non è fondata.

5.1. – Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la disciplina della competenza per connessione – e, in particolare, l’identificazione dei casi e dei limiti in cui la connessione stessa opera – appartiene, nell’ambito della ragionevolezza, alla discrezionalità del legislatore, senza che possa ritenersi imposto, a pena di illegittimità costituzionale, alcun criterio prefissato (sentenza n. 73 del 1980). Il principio fu enunciato nella vigenza del codice di procedura penale anteriore, in cui la connessione non era disciplinata, come ora, quale criterio autonomo attributivo di competenza e consentiva maggiori margini di discrezionalità giudiziale. A maggior ragione  esso va riaffermato.

Come attestano le ampie oscillazioni che caratterizzano l’evoluzione storica dell’istituto, la disciplina della competenza per connessione è infatti espressiva del contemperamento di esigenze contrapposte, suscettibili di valutazioni mutevoli nel tempo. Da un lato, essa tende a favorire, creandone uno dei possibili presupposti, un simultaneus processus che consenta – a fronte di imputazioni collegate da vincoli più o meno intensi – di acquisire e valutare unitariamente le prove, di applicare pene proporzionate e di prevenire giudicati contraddittori (sentenza n. 130 del 1963), o comunque, pur nel caso di processi separati, di far permanere la competenza in capo allo stesso giudice. Dall’altro, occorre evitare che l’accumulo delle regiudicande in un’unica sede si ripercuota negativamente sull’efficacia e sulla durata dell’accertamento processuale, ovvero comprometta interessi che l’ordinamento considera preminenti (al riguardo, si vedano le sentenze n. 222 del 1983 e n. 139 del 1971), e segnatamente l’interesse a preservare la competenza del giudice normalmente ritenuto più idoneo a risolvere determinate specie di controversie (sentenza n. 73 del 1980).

Nella specie, la scelta sensibilmente limitativa delle ipotesi di connessione, operata dal legislatore con il d.lgs. n. 274 del 2000, rinviene per l’appunto la propria ratio – come emerge anche dalla relazione governativa al decreto – nell’intento di valorizzare le peculiarità della giurisdizione penale del giudice di pace, la quale si connota – oltre che per la presenza di un autonomo apparato sanzionatorio – anche e soprattutto per le accentuate particolarità del rito, che, nei loro tratti di semplificazione e snellezza, esaltano la funzione conciliativa del giudice onorario tramite strumenti processuali volti a favorire la riparazione del danno e la conciliazione tra autore e vittima del reato. E ciò, in correlazione alla natura delle fattispecie criminose devolute alla cognizione di tale giudice, di ridotta gravità ed espressive, per lo più, di conflitti a carattere interpersonale.

         In questa prospettiva, si è ritenuta preminente l’esigenza di evitare il possibile svuotamento delle funzioni del giudice di pace, che sarebbe potuto derivare dall’attrazione delle competenze presso il giudice superiore per effetto della connessione.

         Nel dare attuazione al criterio di delega legislativa enunciato all’art. 17, lettera i), della citata legge n. 468 del 1999, il legislatore delegato – superando l’impostazione originaria dello schema preliminare del decreto legislativo, che escludeva addirittura in radice l’operatività della connessione eterogenea – ha in particolare valutato che l’interesse a preservare la competenza del giudice non togato debba cedere, di fronte al contrapposto interesse al simultaneus processus, unicamente nel caso di concorso formale di reati. E ciò – come pure si legge nella relazione governativa – perché tale ipotesi «è quella in cui, attesa l’unicità della condotta, è effettivamente più elevato il rischio di giudicati contrastanti in caso di processi separati».

Al tempo stesso, peraltro, si è stabilito – in deroga alla disciplina generale del codice di rito e proprio per preservare le peculiarità del processo avanti al giudice di pace, in linea con le indicazioni della ricordata direttiva della legge delega – che la connessione eterogenea non opera (oltre che in rapporto ai procedimenti di competenza di giudici speciali) qualora non sia comunque possibile la riunione dei processi (art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000): limitando, così, lo spostamento di competenza ai soli casi in cui esso consenta effettivamente di impedire la moltiplicazione dei giudizi e facendo salvo, in caso contrario, il regime di separazione, al quale il legislatore accorda la preferenza.

         5.2. – Scendendo, sulla scorta di tali premesse, all’esame delle singole censure di costituzionalità, si rivela insussistente, anzitutto, la lesione dell’art. 3 Cost., lamentata dal Tribunale di Montepulciano sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra il concorso formale di reati e la continuazione.

         L’identità delle conseguenze giuridiche annesse alle due fattispecie, quanto al trattamento sanzionatorio, dall’art. 81 cod. pen. non esclude, infatti, che – come lo stesso giudice a quo riconosce – esse descrivano fenomeni differenziati sul piano naturalistico. Nel caso della continuazione si è al cospetto di fatti di reato distinti, benché esecutivi del medesimo disegno criminoso, i quali – al di là delle connotazioni contingenti del caso concreto oggetto del giudizio a quo – possono essere realizzati anche in ambiti spazio-temporali sensibilmente divaricati.

         Il tertium comparationis evocato dal rimettente è, perciò, eterogeneo: quel che giustifica, nella prospettiva del legislatore, la fattispecie di connessione descritta dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 è proprio l’unicità della condotta sotto il profilo naturalistico, tipica del concorso formale di reati, ben diversa dalla unicità del disegno criminoso che connota la continuazione e lascia integri oggettivamente e soggettivamente i singoli fatti. Sul piano della disciplina penale sostanziale – secondo quanto di recente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione – definitivamente superata la concezione dell’unitarietà del reato continuato, questo va considerato, in linea di principio, come una pluralità di illeciti (Cassazione, sezioni unite, 27 novembre 2008, n. 3286).

         Al riguardo, non è del resto priva di significato la circostanza che anche l’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale nella sua formula originaria – in una prospettiva di energico contenimento delle ipotesi di connessione rispetto al regime del codice previgente – la prevedesse solo nel caso del concorso formale di reati e non anche in quello della continuazione: essendo il riferimento alla seconda comparso, nel testo di tale articolo, solo a seguito delle modifiche operate dal decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367 (Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 gennaio 1992, n. 8.

         5.3. – La disposizione impugnata non può ritenersi lesiva dell’art. 3 Cost. neppure sotto l’ulteriore profilo – oggetto di denuncia da parte dallo stesso Tribunale di Montepulciano – della disparità di trattamento fra il soggetto che, imputato di più reati in continuazione, di competenza in parte del giudice di pace e in parte di altro giudice, sarebbe costretto ad affrontare processi separati davanti a giudici diversi; e l’imputato di più reati, egualmente esecutivi del medesimo disegno criminoso, ma di competenza del tribunale, o del tribunale e della corte d’assise, cui sarebbe viceversa garantito – alla luce dell’attuale testo dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. – il «diritto ad un unico giudizio».

         Innanzi tutto, parlare, nel secondo caso, di «diritto ad un unico giudizio» è improprio. La sussistenza di un’ipotesi di connessione non comporta automaticamente il simultaneus processus: la riunione dei processi connessi, persino quando pendano nello stesso stato e grado davanti al medesimo giudice, può essere disposta o meno in base ad una valutazione discrezionale, che tiene conto del possibile pregiudizio che ne potrebbe derivare alla sollecita definizione (art. 17 cod. proc. pen.). Peraltro, resta dirimente la considerazione che la disparità di trattamento censurata non può ritenersi priva di giustificazione. Essa trova, infatti, la sua ratio – secondo quanto in precedenza rilevato – nelle peculiarità della giurisdizione penale del giudice di pace, che il favor separationis mira a preservare e che – per costante giurisprudenza di questa Corte – si esprime in un modulo processuale improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, tali da renderlo non comparabile con il procedimento davanti al tribunale e da giustificare, comunque, sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario (ex plurimis, sentenze n. 426 e n. 298 del 2008; ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 85 del 2005).

         5.4. – Un vulnus dell’art. 3 Cost. non discende neppure dalla circostanza che l’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 possa rendere problematica o addirittura precludere l’applicazione dell’istituto della continuazione in sede cognitiva.

         Il diritto dell’imputato di fruire del più favorevole trattamento previsto dall’art. 81 cod. pen. resta, infatti, salvaguardato dalla possibilità di richiedere l’applicazione della disciplina della continuazione al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., con conseguente assenza di ogni pregiudizio sostanziale (sentenza n. 52 del 1995, con riferimento alla fattispecie di esclusione della connessione prevista dall’art. 14, comma 2, cod. proc. pen.).

Né si può definire detto intervento in sede di esecuzione – come opina il Tribunale di Velletri – una complicazione «gratuita», ossia priva di logica: trattandosi del naturale riflesso del favor separationis che ispira la norma impugnata, ed in rapporto al quale valgono, dunque, le medesime ragioni che sorreggono detto favor. Del resto, su un piano generale e di equilibrio del sistema processuale a tendenza accusatoria, si deve osservare, da un lato, che la continuazione ben può essere riconosciuta nei congrui casi anche in sede di cognizione a prescindere dalla riunione dei processi e, dall’altro, che proprio le previsioni dell’art. 671 cod. proc. pen. rendono palese e attuano l’intenzione del legislatore di agevolare senza pregiudizio alcuno, specie per le garanzie difensive, processi separati, quando la riunione potrebbe ritardarne la definizione; e ciò, in conformità con il precetto costituzionale di assicurarne la ragionevole durata (art. 111, secondo comma, Cost.).

5.5. – Va escluso, altresì, che – contrariamente a quanto assume il Tribunale di Montepulciano – la norma impugnata si ponga in contrasto con l’art. 24 Cost., avuto riguardo all’«aggravio ingiustificato del diritto di difesa», con maggiorazione dei relativi costi, che deriverebbe dalla celebrazione di processi separati per i reati in continuazione.

         Come questa Corte ha più volte affermato, infatti, una compromissione costituzionalmente rilevante del diritto di difesa è ravvisabile solo quando vengano imposti alla parte oneri o adempimenti tali da renderne impossibile o estremamente difficile l’esercizio, onde non basta, per dimostrare la compromissione stessa, allegare mere difficoltà di fatto o generici incrementi delle spese difensive conseguenti, in assunto, a determinate scelte legislative in tema di disciplina degli istituti processuali (ordinanze n. 386 del 2004 e n. 193 del 2003).

         Nella specie, il diritto di difesa non appare compromesso, potendo l’imputato esplicarlo, con pienezza di garanzie, in tutte le diverse sedi processuali nelle quali vengono esaminati i reati esecutivi del medesimo disegno criminoso (in senso analogo, con riferimento alla disciplina della connessione, si veda già la sentenza n. 198 del 1972).

         5.6. – Quanto, poi, alla lesione dell’art. 97 Cost., dedotta dal medesimo Tribunale, il parametro evocato è inconferente.

         Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il principio di buon andamento dei pubblici uffici è riferibile all’amministrazione della giustizia solo per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, ma non anche in rapporto all’attività giurisdizionale in senso stretto (ex plurimis, sentenze n. 272 del 2008 e n. 117 del 2007; ordinanze n. 27 del 2007 e n. 455 del 2006; e, con specifico riferimento alla disciplina della connessione nel processo civile, ordinanza n. 398 del 2000).

         5.7. – La censura relativa all’art. 111 Cost. formulata dal Tribunale di Montepulciano è manifestamente inammissibile, in quanto sostanzialmente priva di motivazione.

         Nel sintetizzare l’eccezione di incostituzionalità sollevata dalla difesa, che dichiara di far propria, il rimettente si limita, difatti, ad affermare apoditticamente che la moltiplicazione dei procedimenti suscettibili di trattazione unitaria non contribuirebbe alla realizzazione dei principi del «giusto processo»: ma non spiega affatto sotto quale specifico profilo né per quale ragione.

         È pacifico, nella giurisprudenza costituzionale, che l’ordinanza di rimessione non possa essere motivata tramite il mero riferimento per relationem ad atti di parte, dovendo il giudice a quo esporre compiutamente i motivi del proprio convincimento circa l’incostituzionalità della norma denunciata (ex plurimis, ordinanze n. 423 e n. 125 del 2005). In questa prospettiva, deve altresì escludersi che l’originario difetto di motivazione, in parte qua, dell’ordinanza del Tribunale di Montepulciano possa essere sanato, a posteriori, dalle deduzioni svolte, con riferimento al parametro costituzionale in discorso, dalla parte privata costituita.

         5.8. – Non ravvisabile è, infine, la violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), denunciata dal Tribunale di Velletri sul rilievo che l’esigenza di far ricorso al giudice dell’esecuzione, al fine di ottenere l’applicazione della disciplina della continuazione – quale conseguenza dell’impossibilità di provvedervi in sede di cognizione, stante il regime di separazione prefigurato dalla norma impugnata – procrastinerebbe la definizione del processo.

È ben vero che l’opzione normativa censurata incrementa la possibilità di innesto di un segmento procedimentale successivo alla formazione dei giudicati sui reati in continuazione (quello affidato, appunto, al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.). È altrettanto vero, tuttavia, che ciò consegue ad una valutazione comparativa – di per sé, non irragionevole – compiuta dal legislatore tra i costi, indotti dalla ampliata esigenza di far ricorso al procedimento in sede esecutiva previsto dal citato art. 671 cod. proc. pen., e i benefici connessi alla esclusione del cumulo delle imputazioni davanti al giudice professionale.

Da un lato, questa esclusione riduce tendenzialmente i tempi di definizione del processo davanti a tale giudice, deflazionando, altresì, in una prospettiva d’assieme, i carichi di lavoro dei giudici togati. Dall’altro, per le imputazioni di competenza del giudice di pace, è mantenuta la speciale procedura, improntata a marcata snellezza e semplicità di forme, prefigurata dal d.lgs. n. 274 del 2000. Questa Corte ha già rilevato (sentenza n. 298 del 2008) che non è configurabile violazione del principio di ragionevole durata del processo ove l’allungamento dei tempi processuali, eventualmente indotto dalla norma sottoposta a scrutinio, sia compensato dal risparmio di attività processuali su altri versanti.

         6. – Quanto precede non esclude, naturalmente, che la soluzione adottata dal legislatore del d.lgs. n. 274 del 2000 e innescata dalla citata direttiva della legge delega (peraltro, non evocata dalle ordinanze di rimessione), nel segno di una riduzione delle ipotesi di connessione nel procedimento avanti il giudice di pace e del favor separationis, possa presentare margini di opinabilità, in quanto idonea a dar luogo in qualche caso a moltiplicazioni di procedimenti presso giudici diversi tali, specie in rapporto a determinate vicende, da apparire discutibili nella prospettiva di un eventuale diverso equilibrio degli interessi in gioco.

Tuttavia, simili valutazioni – che i rimettenti pongono, nella sostanza, alla base delle loro denunce – restano sul piano delle critiche di politica criminale e giudiziaria, estranee all’area del sindacato della Corte, senza poter debordare in autentici vizi di costituzionalità.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

         riuniti i giudizi,

         1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Montepulciano, e in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, con le ordinanze indicate in epigrafe;

         2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, del decreto legislativo n. 274 del 2000, sollevata, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dal Tribunale di Montepulciano con l’ordinanza indicata in epigrafe;

         3) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del decreto legislativo n. 274 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Montepulciano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2009.