Ordinanza n. 223 del 2008

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 223

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                     BILE                                                                Presidente

- Giovanni Maria        FLICK                                                              Giudice

- Francesco                AMIRANTE                                                          

- Ugo                         DE SIERVO                                                          

- Paolo                       MADDALENA                                                     

- Alfio                        FINOCCHIARO                                                   

- Alfonso                    QUARANTA                                                        

- Franco                     GALLO                                                                 

- Luigi                        MAZZELLA                                                          

- Gaetano                   SILVESTRI                                                           

- Sabino                     CASSESE                                                             

- Maria Rita                SAULLE                                                               

- Giuseppe                 TESAURO                                                            

- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo e quinto comma, del codice penale, come sostituiti dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nonché dell’art. 10, comma 3, della stessa legge n. 251 del 2005, promossi con ordinanze del 20 febbraio e del 14 marzo 2006 dal Tribunale di Grosseto, del 20 marzo 2006 dal Tribunale di Perugia, dell’11 aprile 2006 dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi, del 7 novembre 2006 dal Tribunale di Cremona, del 5 giugno 2006 dal Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, del 22 novembre 2006 dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Gubbio, del 18 gennaio 2007 dal Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, del 31 gennaio 2007 dal Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, del 31 gennaio 2007 dal Tribunale di Napoli, del 22 febbraio 2007 dal Giudice di Pace di Bergamo, del 18 dicembre 2006 dal Giudice di Pace di Casalmaggiore, dell’8 marzo 2007 dal Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, del 3 maggio 2007 dal Giudice di Pace di Bergamo, del 4 maggio 2007 dal Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, del 7 e del 15 giugno e del 6 luglio 2007 dal Giudice di Pace di Bergamo, rispettivamente iscritte ai nn. 491, 492, 572 e 573 del registro ordinanze 2006 e ai nn. 281, 359, 409, 419, 421, 451, 530, 541, 643, 741, 746, da 769 a 771 del registro ordinanze 2007, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 46 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 17, 20, 22, 23, 24, 32, 37, 44 e 46, prima serie speciale, dell’anno 2007.

            Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto che il Tribunale di Grosseto in composizione monocratica, con due ordinanze di tenore analogo, deliberate rispettivamente il 20 febbraio 2006 (r.o. n. 491 del 2006) ed il 14 marzo 2006 (r.o. n. 492 del 2006), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria;

che il rimettente procede, nel primo dei giudizi a quibus, per il reato punito dall’art. 636 cod. pen. (introduzione o abbandono di gregge nel fondo altrui e pascolo abusivo), e nel secondo per i delitti di cui al primo comma dell’art. 612 cod. pen. (minaccia) ed all’art. 594 cod. pen. (ingiuria);

che detti reati – secondo il disposto dell’art. 4 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) – sono attribuiti alla competenza del giudice di pace, sebbene si proceda avanti al tribunale per effetto delle disposizioni transitorie concernenti i fatti antecedenti all’entrata in vigore della relativa disciplina (art. 64 dello stesso d.lgs. n. 274 del 2000);

che il giudice a quo rileva come debba quindi applicarsi, ai fatti in questione, il trattamento sanzionatorio prescritto dall’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo il disposto degli artt. 63 e 64 dello stesso decreto;

che l’attuale disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace, a parere del rimettente, sarebbe differenziata a seconda che si tratti di delitti puniti con la sola pena pecuniaria, per i quali il primo comma dell’art. 157 cod. pen. fisserebbe un termine prescrizionale di sei anni, oppure di reati punibili anche mediante la permanenza domiciliare od il lavoro di pubblica utilità, per i quali il termine sarebbe pari a soli tre anni, secondo quanto previsto dal quinto comma dello stesso art. 157 cod. pen.;

che tale ultima norma, riferendosi alle «pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria», avrebbe infatti riguardo alle sanzioni «paradetentive» applicate dal giudice di pace;

che non rileverebbe in senso contrario, a giudizio del rimettente, l’equiparazione istituita dall’art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000, per ogni effetto giuridico, tra le sanzioni «paradetentive» del giudice di pace e le pene detentive comuni, posto che la norma in questione avrebbe natura «generale e suppletiva», e dovrebbe quindi soccombere di fronte alla previsione del nuovo quinto comma dell’art. 157 cod. pen., definito alla stregua di «norma speciale prevalente»;

che del resto, osserva il giudice a quo, la disposizione citata da ultimo resterebbe priva di ogni ambito applicativo, ove si escludesse la sua pertinenza alle pene irrogabili dal giudice di pace;

che inoltre, secondo il Tribunale, la legge differenzia in molti e diversi profili gli «effetti giuridici» delle pene detentive e quelli delle sanzioni «paradetentive», escludendo ad esempio la sussistenza del delitto di evasione in caso di violazione delle prescrizioni inerenti alla permanenza domiciliare (art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000), o precludendo la sospensione condizionale per l’esecuzione delle pene inflitte dal giudice di pace (art. 60 dello stesso decreto);

che l’applicazione del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. e del correlato termine prescrizionale breve, nei confronti dei più gravi tra i reati di competenza del giudice di pace, non potrebbe essere esclusa neppure sul rilievo che le sanzioni «paradetentive» sono sempre irrogabili in alternativa a quelle pecuniarie, per le quali è previsto un termine prescrizionale più elevato;

che infatti, osserva il rimettente, nei casi di contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale sono applicabili le sole pene «paradetentive» (comma 3 dell’art. 52 del d.lgs. n. 274), ed a nulla rileverebbe, per il computo dei termini prescrizionali, l’eventuale concorrenza della stessa recidiva con altre circostanze di segno attenuante (terzo comma dell’art. 157 cod. pen.);

che dunque, ed in definitiva, il sistema della prescrizione sarebbe segnato per i reati di competenza del giudice di pace da una marcata irrazionalità, con un trattamento sensibilmente più favorevole per i fatti più gravi, ed ingiustificatamente più severo per quelli di gravità minore (quelli cioè che non consentono l’irrogazione di pene coercitive della libertà);

che l’aporia andrebbe risolta, secondo il giudice a quo, mediante un allineamento dei termini prescrizionali verso la soglia più bassa, sia perché i reati attribuiti alla cognizione del giudice onorario sono generalmente meno gravi degli altri, sia perché la prescrizione più veloce troverebbe giustificazione nella durata più breve delle indagini preliminari e nella snellezza di forme tipica del procedimento innanzi al giudice di pace;

che l’allineamento auspicato non potrebbe determinarsi, secondo il Tribunale, per il mezzo di una «interpretazione adeguatrice», fondata sull’applicazione analogica del quinto comma dell’art. 157 cod. pen. anche ai reati puniti con sanzione pecuniaria, se attribuiti alla cognizione del giudice di pace;

che l’analogia, infatti, presuppone la carenza di una disciplina specifica per la materia da regolare, mentre il primo comma dell’art. 157 cod. pen. contiene una disposizione riferibile direttamente e chiaramente ai reati in questione;

che dunque, a parere del rimettente, si evidenzia un dubbio di legittimità costituzionale del primo comma dell’art. 157 cod. pen., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che, per i reati di competenza del giudice di pace puniti con sanzione pecuniaria, il termine prescrizionale sia pari a tre anni (cioè, in sostanza, sia identico a quello previsto dal quinto comma per gli ulteriori reati di analoga competenza);

che il giudice a quo riferisce, in punto di rilevanza, come nei casi affidati alla sua cognizione non sia ancora scaduto il termine di sette anni e sei mesi (risultante sia dalla disciplina antecedente alla legge n. 251 del 2005, sia dal nuovo testo degli artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen.), mentre è trascorso, anche in forma prorogata, il più breve termine di prescrizione che sarebbe applicabile in caso di accoglimento della questione sollevata;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nei giudizi con atti depositati, rispettivamente, il 5 dicembre 2006 (r.o. n. 491 del 2006) ed il 7 dicembre 2006 (r.o. n. 492 del 2006);

che, secondo la difesa erariale, la questione proposta sarebbe infondata (ed anche inammissibile, stando all’atto concernente il giudizio r.o. n. 492 del 2006);

che il rimettente, infatti, avrebbe preso le mosse da una soluzione interpretativa non ineluttabile, e cioè che i reati di competenza del giudice di pace, quando puniti con la sola pena pecuniaria, si prescrivono nei termini indicati al primo comma dell’art. 157 cod. pen.;

che invece dovrebbe ritenersi, anche in chiave di «interpretazione adeguatrice», che la norma in questione non riguardi le pene pecuniarie applicate dal giudice onorario, e che anche i reati sanzionati con dette pene ricadano, di conseguenza, nella previsione del quinto comma dello stesso art. 157 cod. pen.;

che in effetti il legislatore, fin dall’approvazione della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell'articolo 593 del codice di procedura penale), avrebbe inteso creare per la giustizia penale di pace un «microsistema sanzionatorio», con caratteristiche di forte peculiarità;

che tale scelta ha implicato, secondo l’Avvocatura generale, un sostanziale superamento della distinzione tra delitti e contravvenzioni, con la previsione di alcune pene principali (pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità) segnate da un autonomo regime di applicazione in fase cognitiva e di esecuzione;

che vi sarebbe stata quindi una novazione delle previsioni sanzionatorie per le fattispecie incriminatrici trasferite alla cognizione del giudice di pace, di talché le relative pene pecuniarie non consisterebbero più di una multa o di un’ammenda, quanto piuttosto di un novum, ancora non collocato come tale in norme di carattere generale, ma non per questo meno originale rispetto alle sanzioni regolate dal codice penale;

che in tal senso deporrebbero dati testuali e sistematici, visto che il secondo comma dell’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 esplicitamente si riferisce ad una «modificazione» delle pene originarie, e che le nuove previsioni sanzionatorie restano applicabili anche nel caso di cognizione del reato ad opera di un giudice superiore o speciale;

che l’originalità della nuova sanzione penale pecuniaria, e la sua estraneità alla previsione «unificante» dell’art. 17 cod. pen., troverebbero conferma nel fatto che, in caso di omissione del pagamento, non si determina una sua conversione nelle pene della libertà controllata o del lavoro sostitutivo – secondo quanto stabilito per la multa e per l’ammenda dal combinato disposto dell’art. 136 cod. pen. e dell’art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – ed opera piuttosto un autonomo meccanismo di conversione, che concerne le sanzioni «paradetentive» applicabili dal giudice di pace (art. 55 del d.lgs. n. 274 del 2000);

che, sempre nella prospettazione dell’Avvocatura generale, sarebbe significativa anche la conservata competenza del giudice professionale per il caso della ricorrenza di determinate aggravanti, che comporta l’applicabilità delle sanzioni «ordinarie» già comminate dalla legge (comma 3 dell’art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000);

che non sussisterebbe, in definitiva, l’aporia prospettata dal rimettente, in quanto il primo comma dell’art. 157 cod. pen. farebbe «riferimento ai soli reati che sono devoluti alla cognizione del giudice ordinario, per i quali rimane ferma la distinzione fra delitti e contravvenzioni e fra pene detentive e pene pecuniarie di cui al combinato disposto degli artt. 17 e 39 cod. pen.»; per converso, riferendosi a reati puniti con pene «diverse» da quella detentiva o pecuniaria, il quinto comma del citato art. 157 comprenderebbe «tutti i reati per i quali il legislatore ha previsto un sistema sanzionatorio del tutto autonomo rispetto a quello previsto dal codice penale, dovendosi ritenere del tutto irrilevante il ricorso, talvolta, ad una terminologia simile, come nel caso della pena pecuniaria»;

che il Tribunale di Perugia in composizione monocratica, con ordinanza del 20 marzo 2006 (r.o. n. 572 del 2006), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace;

che si procede, nel giudizio a quo, per fatti di lesione personale (art. 582 cod. pen.) ed ingiuria (art. 594 cod. pen.), commessi in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000, e dunque affidati alla cognizione del tribunale, sebbene riferibili alla competenza del giudice di pace e sanzionabili, di conseguenza, con le pene previste dall’art. 52 del citato decreto;

che il rimettente ulteriormente precisa come, nel caso di specie, trovino applicazione – ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 – le nuove norme per la determinazione dei termini prescrizionali, in quanto più favorevoli delle precedenti;

che risulta dunque applicabile, per delitti punibili con le sanzioni della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, il nuovo e ristretto termine prescrizionale previsto dal quinto comma dell’art. 157 cod. pen., il quale stabilisce che la prescrizione matura in tre anni «quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria»;

che infatti tale ultima espressione, secondo il giudice a quo, deve essere riferita agli illeciti di competenza del giudice di pace per i quali siano comminate le cosiddette sanzioni «paradetentive», anche perchè, ove «diversamente intesa, la norma risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»;

che la possibilità dell’irrogazione di una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa» non escluderebbe l’applicazione della norma censurata ai reati di competenza del giudice di pace, poiché detta norma si riferisce, in astratto, alle previsioni sanzionatorie edittali;

che dunque, nell’ambito degli illeciti rimessi alla competenza del giudice onorario, il termine di prescrizione per i reati puniti con la sanzione pecuniaria sarebbe pari a quattro o addirittura a sei anni (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), mentre gli illeciti più gravi, per i quali è applicabile anche (o solo) una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva), sarebbero suscettibili di estinzione già nell’arco di un triennio;

che un tale assetto, secondo il Tribunale, sarebbe «platealmente irragionevole», perché contrastante con l’aspettativa di un «oblio sociale dell’illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell’offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità;

che la denunciata irrazionalità risulterebbe particolarmente evidente considerando sequenze criminose di progressione nell’offesa ad un medesimo bene: la prescrizione del reato di percosse (fatto punibile, a norma dell’art. 581 cod. pen., con la sola pena pecuniaria) matura in sei anni, e tuttavia, quando l’agente arriva a provocare lesioni personali lievi (punibili, a norma dell’art. 582 cod. pen., anche con la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo), il termine per l’estinzione del reato scende a tre anni;

che l’aporia dovrebbe essere eliminata, secondo il giudice a quo, estendendo a tutti i reati di competenza del giudice di pace la regola dettata dal quinto comma dell’art. 157 cod. pen., posto che la soluzione d’un allineamento del termine sui valori più lunghi sarebbe preclusa dal divieto di manipolazione in malam partem della disciplina, e considerata, per altro verso, la congruenza d’una prescrizione particolarmente sollecita con quel sistema di «diritto mite» che segnerebbe la giurisdizione penale di pace;

che il rimettente illustra la rilevanza nel giudizio a quo della questione sollevata osservando che la prescrizione sarebbe già maturata per il più grave tra i delitti in contestazione (lesione personale), ed invece non potrebbe essere applicata per il fatto meno grave, cioè quello di ingiuria, che risulterebbe a sua volta prescritto, invece, nel caso di accoglimento delle censure prospettate;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 4 gennaio 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile e infondata», sulla base degli argomenti già illustrati in occasione degli atti di intervento concernenti i giudizi r.o. numeri 491 e 492 del 2006;

che il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi, con ordinanza dell’11 aprile 2006 (r.o. n. 573 del 2006), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, «in relazione» all’art. 10, comma 3, della stessa legge, nella parte in cui dispone che i nuovi termini prescrizionali in esso previsti, sebbene più favorevoli, non siano applicabili nei procedimenti già pervenuti alla dichiarazione di apertura del dibattimento al momento di entrata in vigore della citata legge n. 251 del 2005;

che lo stesso rimettente ha sollevato nel contempo, sempre con riguardo all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace;

che nel giudizio a quo si procede per i reati di ingiuria (art. 594 cod. pen.) e di lesione personale (art. 582 cod. pen.), e il dibattimento è stato dichiarato aperto prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, con la conseguenza, secondo il rimettente, che non potrebbero essere applicati, quand’anche più favorevoli, i nuovi termini prescrizionali fissati all’art. 157 cod. pen.;

che, con riferimento all’effetto preclusivo del terzo comma dell’art. 10 della legge n. 251 del 2005, il Tribunale definisce «irragionevole» l’individuazione delle formalità di apertura del dibattimento quale «disposizione spartiacque» per l’efficacia retroattiva della nuova e più favorevole disciplina;

che il rimettente prospetta, riguardo al quinto comma dell’art. 157 cod. pen., una «seconda eccezione», sul presupposto che la norma darebbe luogo ad una prescrizione in termini particolarmente brevi per i più gravi tra i reati rimessi alla competenza del giudice di pace, a fronte della previsione di termini più elevati, nel primo comma dello stesso art. 157 cod. pen., per i reati puniti con la sola pena pecuniaria;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 9 gennaio 2007, chiedendo che la questione proposta sia dichiarata «inammissibile e infondata»;

che infatti tale questione – individuata nella sola censura concernente la durata diversificata del termine prescrizionale per i reati di competenza del giudice di pace – sarebbe irrilevante nel caso di specie, «posto che il giudizio potrebbe sfociare in una decisione di merito favorevole agli imputati»;

che, in ogni caso, si tratterebbe di questione infondata, per le ragioni già illustrate dalla stessa Avvocatura dello Stato mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati;

che il Tribunale di Cremona in composizione monocratica, con ordinanza del 7 novembre 2006 (r.o. n. 281 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria;

che il rimettente procede in ordine a fatti di minaccia (art. 612 cod. pen.) e di ingiuria (art. 594 cod. pen.), per i quali, trattandosi di reati puniti con sanzione «paradetentiva», dovrebbe applicarsi il termine triennale di prescrizione fissato al quinto comma dell’art. 157 cod. pen., nella specie già scaduto;

che secondo il Tribunale tale effetto estintivo, tipico dei più gravi tra i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, sarebbe frutto di una grave incongruenza del sistema, posto che per i reati meno gravi, puniti con la sola pena pecuniaria, sarebbe applicabile il più lungo termine prescrizionale indicato al primo comma dell’art. 157 cod. pen.;

che, dunque, la disciplina censurata contrasterebbe con l’art. 3 Cost., come già ritenuto dalla Corte di cassazione con l’ordinanza 31 agosto 2006, n. 29786;

che il rimettente osserva, in punto di rilevanza, che i delitti per i quali procede sarebbero estinti ove fosse applicata la disciplina vigente, e che tale evento non avrebbe luogo se, invece, trovassero applicazione i termini previsti per i reati sanzionati con pena pecuniaria e pure rimessi alla cognizione del giudice di pace;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 15 maggio 2007, chiedendo che la questione proposta sia dichiarata «inammissibile e infondata», per le ragioni già illustrate mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati;

che il Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, con ordinanza del 5 giugno 2006 (r.o. n. 359 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace;

che si procede, nel giudizio a quo, per fatti di minaccia (art. 612 cod. pen.), invasione di terreni o edifici (art. 633 cod. pen.), lesione personale (art. 582 cod. pen.) e ingiuria (art. 594 cod. pen.), attribuiti alla competenza del giudice di pace e sanzionabili, di conseguenza, con le pene previste dall’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000;

che il rimettente osserva come, per i delitti punibili con le sanzioni della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, debba applicarsi il nuovo e ristretto termine prescrizionale previsto dal quinto comma dell’art. 157 cod. pen., il quale stabilisce che la prescrizione matura in tre anni «quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria»;

che infatti, se tale espressione non fosse riferita alle sanzioni «paradetentive» irrogabili dal giudice di pace, la norma che la contiene «risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»;

che l’applicabilità della disciplina in questione non sarebbe esclusa dalla possibilità che, nel caso concreto, venga irrogata una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa», poiché tale ultima sanzione è comunque compresa nella previsione edittale, ed a questa si riferisce la norma censurata;

che, secondo il Tribunale, la disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace sarebbe «platealmente irragionevole»;

che infatti, per i reati puniti unicamente con la sanzione pecuniaria, il termine è pari a quattro anni o addirittura a sei (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), mentre gli illeciti più gravi, per i quali è applicabile anche (o solo) una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva), sono suscettibili di estinzione nell’arco di un triennio;

che un tale assetto contrasterebbe con l’aspettativa di un «oblio sociale dell’illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell’offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità;

che la denunciata irrazionalità risulterebbe particolarmente evidente considerando sequenze criminose di progressione nell’offesa ad un medesimo bene: la prescrizione dei reati di minaccia o di percosse (fatti punibili, a norma degli artt. 612 e 581 cod. pen., con la sola pena pecuniaria) matura in sei anni, e tuttavia, se l’azione si sviluppa fino a provocare lesioni personali lievi (punibili, a norma dell’art. 582 cod. pen., anche con la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo), il termine per l’estinzione del reato scende a tre anni:

che l’aporia dovrebbe essere eliminata, secondo il giudice a quo, estendendo a tutti i reati di competenza del giudice di pace la regola dettata dal quinto comma dell’art. 157 cod. pen., posto che la soluzione d’un allineamento del termine sui valori più lunghi sarebbe preclusa dal divieto di manipolazione in malam partem della disciplina, e considerata, per altro verso, la congruenza d’una prescrizione particolarmente sollecita con quel sistema di «diritto mite» che segnerebbe la giurisdizione penale di pace;

che il rimettente, illustrando la rilevanza nel giudizio a quo della questione sollevata, assume che la prescrizione sarebbe già maturata per tutti i reati contestati tranne quello meno grave (minaccia), il quale per altro risulterebbe prescritto, a sua volta, nel caso di accoglimento delle censure prospettate;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 12 giugno 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per le ragioni già illustrate mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati;

che il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Gubbio, con ordinanza del 22 novembre 2006 (r.o. n. 409 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine di prescrizione, per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria, più breve di quello applicabile per reati di minor gravità, punibili con la sola pena pecuniaria;

che nel giudizio a quo si procede per i reati di lesioni personali colpose (art. 590, primo comma, cod. pen.) e di omessa assistenza (art. 180, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante «Nuovo codice della strada»);

che il rimettente, prendendo in considerazione la richiesta difensiva d’una declaratoria di prescrizione con riguardo al reato di lesioni personali, rileva che per detto reato dovrebbe applicarsi il termine prescrizionale previsto dal primo comma dell’art. 157 cod. pen., e dunque un termine più lungo di quello fissato nel successivo quinto comma;

che lo stesso rimettente, posta tale premessa, e rilevato come il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. comporti una prescrizione più rapida per il reato di lesioni personali colpose quando ricorra un’aggravante, ravvisa l’esistenza di «profili di legittimità costituzionale con palese violazione dei principi costituzionali, in particolare dell’art. 3 Costituzione»;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 26 giugno 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per le ragioni già illustrate mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi finora indicati;

che il Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, con due ordinanze di analogo tenore, deliberate rispettivamente il 18 gennaio 2007 (r.o. n. 419 del 2007) e l’8 marzo 2007 (r.o. n. 643 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria;

che si procede, nel primo dei giudizi a quibus, per fatti di minaccia (art. 612 cod. pen.) e danneggiamento (art. 635, comma primo, cod. pen.), e nel secondo per il reato di ingiuria (art. 594 cod. pen.), fatti tutti commessi in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000, e dunque affidati alla cognizione del tribunale, sebbene riferibili alla competenza del giudice di pace e sanzionabili, di conseguenza, con le pene previste dall’art. 52 del citato decreto;

che le ordinanze di rimessione ricalcano, per quanto concerne la non manifesta infondatezza della questione sollevata, la motivazione dei provvedimenti recanti i numeri r.o. 491 e 492 del 2006, sottoscritti dal medesimo giudice e già sopra considerati;

che il rimettente comunque ribadisce, in relazione ad orientamenti sopravvenuti di segno contrario, che l’aporia del sistema non potrebbe essere superata mediante l’eliminazione della norma che prevede un termine minore per i reati puniti con pene diverse da quelle detentive o pecuniarie (quinto comma dell’art. 157 cod. pen.), anzitutto perché si tratterebbe di una manipolazione con effetti peggiorativi, come tale preclusa dalla riserva di legge in materia penale, ed in secondo luogo perché una prescrizione di durata specialmente breve per i reati di competenza del giudice di pace troverebbe corrispondenza nella ridotta gravità dei reati medesimi, e nella speciale brevità e snellezza di forme del relativo procedimento;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi indicati, con atti depositati rispettivamente il 27 giugno 2007 ed il 9 ottobre 2007, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate per le ragioni già illustrate in occasione dell’intervento negli ulteriori giudizi fin qui richiamati;

che il Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, con due ordinanze di tenore analogo, deliberate rispettivamente il 31 gennaio 2007 (r.o. n. 421 del 2007) ed il 4 maggio 2007 (r.o. n. 746 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione si applichi a tutti i reati di competenza del giudice di pace, e non soltanto a quelli puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria;

che il rimettente procede, in ciascuno dei giudizi a quibus, con riguardo ai reati di minaccia (art. 612 cod. pen.) e di ingiuria (art. 594 cod. pen.), per i quali ritiene applicabile il termine di prescrizione indicato nel primo comma dell’art. 157 cod. pen., non ancora scaduto;

che tuttavia il quinto comma del citato art. 157 prevede, per reati più gravi (in quanto puniti con la permanenza domiciliare od il lavoro di pubblica utilità), un termine prescrizionale di soli tre anni (già maturato in entrambi i giudizi a quibus), dando luogo, a parere del Tribunale, ad un regime «del tutto irrazionale e quindi generatore di un’ingiustificata disparità di trattamento»;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi indicati, con atti depositati rispettivamente il 27 giugno ed il 4 dicembre 2007, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate per le ragioni già illustrate negli ulteriori atti di intervento dei quali fin qui si è detto;

che il Tribunale di Napoli in composizione monocratica, con ordinanza del 31 gennaio 2007 (r.o. n. 451 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede termini di prescrizione diversi «a seconda che per il reato siano o meno irrogabili, in alternativa alla pena pecuniaria, la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo»;

che il rimettente procede per i reati di lesione personale (art. 582 cod. pen.), di ingiuria (art. 594 cod. pen.) e di danneggiamento (art. 635 cod. pen.), tutti riferibili alla competenza penale del giudice di pace, e tutti sanzionabili secondo il disposto dell’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000;

che lo stesso rimettente, alla luce della disciplina posta dal primo e dal quinto comma dell’art. 157 cod. pen., rileva che il sistema dei termini prescrizionali per i reati di competenza del giudice di pace sarebbe irrazionale, perché incentrato su tempi più lunghi per i meno gravi tra i reati in questione;

che il giudice a quo, in punto di rilevanza, osserva come, nella specie, il reato di lesione personale debba considerarsi già prescritto alla luce del termine triennale fissato dalla disciplina vigente, e come i reati ulteriori, «per i quali è teoricamente applicabile il termine di prescrizione ordinaria di sei anni», potrebbero «parimenti considerarsi prescritti in caso di ritenuta fondatezza della questione di legittimità costituzionale»;

che il Giudice di pace di Bergamo – con cinque ordinanze di tenore analogo, deliberate rispettivamente il 22 febbraio 2007 (r.o. n. 530 del 2007), il 3 maggio 2007 (r.o. n. 741 del 2007), il 7 giugno 2007 (r.o. n. 769 del 2007), il 15 giugno 2007 (r.o. n. 770 del 2007) ed il 6 luglio 2007 (r.o. n. 771 del 2007 – ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria;

che il rimettente procede, nei cinque giudizi a quibus, per i delitti di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.: r.o. numeri 530 e 771 del 2007), di lesione personale (art. 582 cod. pen.: r.o. numeri 741 e 769 del 2007), e di minaccia (art. 612 cod. pen.: r.o. n. 770 del 2007);

che in tutte le ordinanze di rimessione, riproducendo in parte la motivazione di un provvedimento deliberato nello stesso senso dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 29786 del 2006), il giudice a quo censura la disciplina della prescrizione risultante dal primo e dal quinto comma dell’art. 157 cod. pen.;

che tale disciplina infatti, attribuendo un termine prescrizionale più breve ai reati puniti con «pene diverse» da quella detentiva e da quella pecuniaria, e quindi ai più gravi tra i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, sarebbe priva di razionalità intrinseca e tale da vulnerare, nel contempo, il principio di ragionevolezza ed il canone della uguaglianza, presidiati dall’art. 3 Cost.;

che la denunciata aporia, secondo il rimettente, dovrebbe essere eliminata attraverso l’ablazione della norma contenuta nel quinto comma dell’art. 157 cod. pen., con la conseguente applicazione dei più lunghi termini indicati nel precedente primo comma a tutti i reati di competenza del giudice di pace;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in ciascuno dei cinque giudizi indicati, con atti depositati l’11 settembre 2007 (r.o. n. 530 del 2007), il 4 dicembre 2007 (r.o. n. 741 del 2007) ed il 17 dicembre 2007 (r.o. numeri 769, 770 e 771 del 2007);

che, secondo la difesa erariale, le questioni proposte sono infondate, per le stesse ragioni indicate negli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati;

che il Giudice di pace di Casalmaggiore, con ordinanza del 18 dicembre 2006 (r.o. n. 541 del 2007), ha sollevato – in riferimento all’art. 3 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo e quinto comma, cod. pen., come sostituiti dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevedono «che la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, comunque, un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e di quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria, mentre, qualora per il reato stabilisca pene diverse da quella detentiva e pecuniaria, dispone il termine prescrizionale di tre anni»;

che, secondo quanto riferito dal rimettente, nel giudizio a quo si procede per un reato (non indicato) punibile con la sola pena pecuniaria, e per tale ragione assoggettato ad un termine prescrizionale (sei anni, per il disposto del primo comma della norma censurata) più lungo di quello che la legge stabilisce per i più gravi tra i reati di competenza del giudice di pace (tre anni, a norma del quinto comma del citato art. 157 cod. pen.);

che tale disciplina, a parere del giudice a quo, comporterebbe una violazione dei principi di ragionevolezza e uguaglianza, come sanciti dall’art. 3 Cost.;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato l’11 settembre 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per le ragioni già illustrate negli atti di intervento prodotti nei giudizi finora indicati;

Considerato che, mediante le ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, sono state sollevate varie questioni concernenti la disciplina della prescrizione per i reati attributi alla competenza del giudice di pace;

che uno dei giudici a quibus censura in particolare – con riferimento all’art. 3 della Costituzione – il primo comma dell’art. 157 del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria (r.o. numeri 491 e 492 del 2006, numeri 419 e 643 del 2007);

che altri rimettenti censurano, sempre in riferimento all’art. 3 Cost., il quinto comma dell’art. 157 cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace (r.o. numeri 572 e 573 del 2006, numeri 359, 421, 451 e 746 del 2007);

che in un caso ulteriore l’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, è genericamente censurato per il ritenuto contrasto con l’art. 3 Cost. (r.o. n. 409 del 2007);

che viene sollevata inoltre, sempre con riguardo all’art. 3 Cost., una questione di legittimità riferita tanto al primo che al quinto comma dell’art. 157 cod. pen, come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, denunciando l’irragionevolezza della previsione di termini prescrizionali di durata inversamente proporzionale alla gravità dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace (r.o. n. 541 del 2007);

che una parte ulteriore delle ordinanze di rimessione – sul contrario assunto che l’allineamento dei tempi di prescrizione (asseritamente necessario alla luce dell’art. 3 Cost.) dovrebbe realizzarsi mediante l’applicazione generalizzata dei termini più lunghi – prospetta l’illegittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria (r.o. numeri 281, 530, 741, 769, 770 e 771 del 2007);

che infine il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi, solleva anche una questione concernente la disciplina transitoria della legge di riforma della prescrizione, censurando il «nuovo» quinto comma dell’art. 157 cod. pen., «in relazione» al terzo comma dell’art. 10 della legge n. 251 del 2005, in quanto precluderebbe l’applicazione del termine prescrizionale di tre anni nei procedimenti per i quali già fosse intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento all’epoca di entrata in vigore della stessa legge n. 251 del 2005 (r.o. n. 573 del 2006);

che tutte le questioni sollevate riguardano l’attuale disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace, cosicché appare opportuna la riunione dei relativi giudizi;

che la questione sollevata dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi (r.o. n. 573 del 2006), relativamente al novellato quinto comma dell’art. 156 cod. pen., è manifestamente inammissibile;

che infatti l’ordinanza di rimessione, anche per l’effetto di un probabile errore materiale, risulta priva di un’adeguata descrizione della fattispecie concreta, così da precludere a questa Corte il controllo sulla rilevanza (tanto più necessario considerando che le imputazioni sembrerebbero riguardare reati sanzionabili con pena «paradetentiva», e dunque già suscettibili di prescrizione nel nuovo e più favorevole termine di tre anni);

che il giudice a quo, in ogni caso, non espone le ragioni del ritenuto contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost. (ex multis, ordinanze numeri 426 e 114 del 2007);

che anche l’ulteriore questione sollevata dal medesimo rimettente, relativamente alle condizioni per l’applicazione retroattiva delle nuove disposizioni in materia di prescrizione, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, alla luce di carenze motivazionali che investono, tra l’altro, le ragioni della censura concernente il quinto comma dell’art. 157 cod. pen. (norma che regola la disciplina a regime dei termini prescrizionali) ed i motivi per i quali sarebbe stato irragionevole, nell’ulteriore norma censurata, il riferimento in senso preclusivo alla dichiarazione di apertura del dibattimento (riferimento venuto comunque meno, dopo l’ordinanza di rimessione, per effetto della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 10 della legge n. 251 del 2005, pronunciata da questa Corte con la sentenza n. 393 del 2006);

che la questione sollevata dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Gubbio (r.o. n. 409 del 2007), è manifestamente inammissibile, poiché la relativa ordinanza difetta d’una adeguata descrizione della fattispecie sottoposta al giudizio e si limita, per altro verso, a denunciare una «palese violazione» dell’art. 3 Cost., senza alcuna specificazione dell’intervento richiesto sul quinto comma dell’art. 157 cod. pen. (norma la cui ablazione implicherebbe, comunque, conseguenze opposte a quelle plausibilmente auspicate dal rimettente);

che risulta manifestamente inammissibile anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Napoli (r.o. n. 451 del 2007), posto che la relativa ordinanza, ove pure l’obiettivo del rimettente è identificabile nella «estensione» del termine triennale a tutti i reati di competenza del giudice di pace, esprime unicamente una censura, generica e contraddittoria, riguardo al quinto comma dell’art. 157 cod. pen. (la cui caducazione, come già si è notato, provocherebbe semmai l’applicazione generalizzata dei termini previsti nel primo comma dello stesso art. 157);

che va dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate dal Giudice di pace di Bergamo con le cinque diverse ordinanze meglio indicate in epigrafe (r.o. numeri 530, 741, 769, 770 e 771 del 2007), posto che i relativi provvedimenti, di tenore praticamente identico, difettano d’una qualunque descrizione delle fattispecie concrete (a partire dalla data di commissione dei fatti di volta in volta perseguiti), così da restare precluso il necessario controllo di questa Corte sulla rilevanza delle questioni medesime;

che risulta manifestamente inammissibile, allo stesso modo, la questione sollevata dal Giudice di pace di Casalmaggiore (r.o. n. 541 del 2007), la cui ordinanza di rimessione non indica neppure la qualificazione giuridica del fatto contestato e, comunque, non esprime un petitum riconoscibile, posto che il dispositivo si sostanzia nella mera descrizione del regime prescrizionale, asseritamente irragionevole, che il legislatore avrebbe introdotto novellando il primo ed il quinto comma dell’art. 157 cod. pen.;

che le ulteriori questioni di legittimità costituzionale cui si riferisce il presente giudizio – sollevate dal Tribunale di Grosseto (r.o. numeri 491 e 492 del 2006, 419 e 643 del 2007), dal Tribunale di Perugia (r.o. n. 572 del 2006), dal Tribunale di Cremona (r.o. n. 281 del 2007), dal Tribunale di Treviso (r.o. n. 359 del 2007) e dal Tribunale di Bergamo (r.o. numeri 421 e 746 del 2007) – sono manifestamente infondate, in quanto prospettate in base ad un erroneo presupposto interpretativo;

che infatti – come questa Corte ha rilevato dichiarando non fondate «nei sensi di cui in motivazione» questioni analoghe a quelle odierne, poste sia con riguardo al primo che con riferimento al quinto comma dell’art. 157 cod. pen. (sent. n. 2 del 2008) – deve essere esclusa l’attuale vigenza di un termine triennale di prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace punibili mediante le cosiddette sanzioni «paradetentive»;

che nell’occasione è stata esclusa, in particolare, la riferibilità della norma contenuta nel quinto comma dell’art. 157 cod. pen. a fattispecie incriminatrici che non prevedano in via diretta ed esclusiva pene diverse da quelle pecuniarie o detentive, ed è stata rilevata, per altro verso, la perdurante equiparazione, «per ogni effetto giuridico», tra le pene dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro socialmente utile, irrogabili dal giudice di pace in alternativa alle pene pecuniarie, e le sanzioni detentive originariamente previste per i reati che le contemplano (art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000);

che non si rinvengono, nella motivazione dei provvedimenti dai quali origina il presente giudizio, argomenti che inducano a modificare la valutazione appena richiamata;

che la ritenuta applicabilità delle disposizioni previste nel primo comma dell’art. 157 cod. pen. a tutti i reati di competenza del giudice di pace esclude l’incongrua diversità di trattamento denunciata da ciascuno dei rimettenti.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Grosseto (r.o. numeri 491 e 492 del 2006, 419 e 643 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale di Perugia (r.o. n. 572 del 2006), dal Tribunale di Cremona (r.o. n. 281 del 2007), dal Tribunale di Treviso (r.o. n. 350 del 2007) e dal Tribunale di Bergamo (r.o. numeri 421 e 746 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale di Perugia (r.o. numeri 573 del 2006 e 409 del 2007), dal Tribunale di Napoli (r.o. n. 451 del 2007) e dal Giudice di pace di Bergamo (r.o. numeri 530, 741, 769, 770 e 771 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, primo e quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Giudice di pace di Casalmaggiore (r.o. n. 541 del 2007), con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005, in relazione all’art. 10, comma 3, della stessa legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale di Perugia (r.o. n. 573 del 2006), con l’ordinanza indicata in epigrafe;

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008.