Sentenza n. 72 del 2008

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SENTENZA N. 72

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-                Franco                                     BILE                              Presidente

-                Giovanni Maria                         FLICK                           Giudice

-                Francesco                                AMIRANTE                         "

-                Ugo                                         DE SIERVO                         "

-                Paolo                                      MADDALENA                     "

-                Alfio                                        FINOCCHIARO                   "

-                Alfonso                                    QUARANTA                        "

-                Franco                                     GALLO                               "

-                Luigi                                        MAZZELLA                         "

-                Gaetano                                   SILVESTRI                          "

-                Maria Rita                                SAULLE                              "

-                Giuseppe                                  TESAURO                           "

-                Paolo Maria                             NAPOLITANO                    "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 24 marzo 2006 dalla Corte di appello di l’Aquila, del 20 dicembre 2006, del 10 gennaio e del 19 febbraio 2007 dalla Corte di appello di Roma e del 22 gennaio 2007 dalla Corte di appello di Palermo rispettivamente iscritte al n. 273 del registro ordinanze 2006 ed ai nn. 105, 106, 107, 347, 383 e 642 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 12, 20, 21 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti l’atto di costituzione di Medici Giacomo nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi l’avvocato Fabrizio Lemme per Medici Giacomo e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.1. – Con ordinanza del 24 marzo 2006 (r.o. n. 273 del 2006), la Corte d’Appello di L’Aquila ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione nei processi pendenti dinanzi alla corte d’appello.

Afferma il rimettente che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, anche la durata della prescrizione rientra nella normativa disciplinata dal principio di retroattività della norma più favorevole di cui all’art. 2 del codice penale, e che la nuova disciplina della materia crea una disuguaglianza di trattamento non giustificabile, in quanto irragionevolmente rimessa a criteri di selezione assolutamente distonici rispetto alla ratio dell’istituto della prescrizione, quale permane anche dopo la novella del 2005.

Rileva il giudice a quo che, qualora si applicasse la nuova normativa, il reato per cui è processo dovrebbe essere dichiarato estinto per intervenuta prescrizione.

1.2. – Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Secondo l’Avvocatura generale, la questione sarebbe inammissibile, perché dalla lettura dell’ordinanza di rimessione non sarebbe possibile ricostruire l’iter logico seguito dal giudice a quo per sostenere l’incompatibilità, con la ratio della prescrizione, dei criteri adottati dal legislatore per delimitare l’àmbito di operatività della nuova disciplina della prescrizione, introdotta dalla legge n. 251 del 2005.

Nel merito, la questione sarebbe infondata in quanto, ferma restando la necessità di rispettare il principio di retroattività della legge più favorevole al reo, il legislatore può graduare nel tempo e differenziare l’applicazione di nuovi e più favorevoli termini di prescrizione dei reati in relazione ai diversi stati e gradi dei procedimenti pendenti.

2.1. – Con tre distinte, ma sostanzialmente identiche, ordinanze del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 105, n. 106 e n. 107 del 2007), la Corte d’Appello di Roma ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude l’applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi già pendenti in grado di appello alla data di entrata in vigore della medesima legge.

Con la prima di tali ordinanze, la rimettente fa presente di dover giudicare dell’appello di un imputato condannato dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma con sentenza dell’8 febbraio 2001 per il reato di cui agli artt. 453 e 455 cod. pen., commesso il 7 febbraio 2005.

Con la seconda, il giudice a quo espone di dover giudicare dell’appello di un imputato condannato dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma con sentenza 18 aprile 2000 (per il reato di cui all’art. 368 cod. pen., commesso il 9 aprile 1998), a séguito della sentenza della Corte di cassazione 30 settembre 2002, che ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Roma 25 ottobre 2001, con la quale è stata confermata la sentenza del giudice dell’udienza preliminare.

Con la terza, infine, la rimettente fa presente di dover giudicare dell’appello di un imputato condannato dal Tribunale di Chieti con sentenza 17 dicembre 1997 (per i reati di cui agli artt. 110, 61, numero 2, 423 cod. pen. e agli artt. 110, 56, 640, 61, numero 7, cod. pen., commessi il 29 novembre 1993), a séguito della sentenza della Corte di cassazione 28 gennaio 2005, che ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila 2 febbraio 2001, con la quale è stata confermata la sentenza del Tribunale di Chieti.

A sostegno della rilevanza della questione, il giudice a quo osserva, con identica motivazione nelle tre ordinanze, che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 157 e 161, secondo comma, cod. pen., come sostituiti dall’art. 6, commi 1 e 5, della legge n. 251 del 2005, il reato risulterebbe prescritto de plano, mentre, in virtù dell’art. 10, comma 3, della stessa legge, applicabile ai procedimenti de quibus, in quanto pendenti in appello alla data di entrata in vigore della legge medesima, il termine di prescrizione non si è ancora compiuto, dovendosi applicare la pregressa normativa, giusto il richiamo ad essa fatto dal comma censurato.

Ritiene, pertanto, la rimettente che la questione è rilevante ai fini della decisione in quanto, nel caso di applicazione della nuova disciplina ai processi de quibus, deriverebbe la pronuncia di sentenza di non doversi procedere per prescrizione, pronuncia di cui, invece, alla stregua della disciplina originaria, l’imputato non potrebbe usufruire.

La questione, inoltre, ad avviso del giudice a quo, non è manifestamente infondata, poiché la scelta di non rendere applicabile la disciplina della legge n. 251 del 2005 ai procedimenti pendenti in appello non appare sorretta da giustificazioni di ordine logico e giuridico né ispirata a finalità tali da giustificare il diverso trattamento riservato a diverse categorie di cittadini.

Afferma ancora lo stesso giudice che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 393 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2006, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché», ritenendo non ragionevole la scelta del legislatore di non applicare la disciplina ai processi di primo grado già in corso, alla data di entrata in vigore della legge medesima. La Corte costituzionale, dopo aver rilevato che anche le norme sulla prescrizione costituiscono legge più favorevole, ha statuito che «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza», in quanto, sebbene il principio della retroattività della lex mitior non sia costituzionalmente garantito, tuttavia lo stesso è sancito sia dalla normativa interna (art. 2 cod. pen.), per la quale la retroattività della legge più favorevole è la regola (salvo il giudicato), sia dalle norme internazionali (articolo 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, recante Ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici) ed europee (Trattato sull’Unione Europea nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, ratificato e reso esecutivo con la legge 16 giugno 1998, n. 209, recante Ratifica ed esecuzione del trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione europea; decisioni della Corte di giustizia delle comunità europee, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).

Conclude, infine, la rimettente, affermando che non risulta ragionevole non applicare la nuova disciplina della prescrizione ai processi già pendenti in appello, non essendo indicata la pendenza in appello tra gli atti interruttivi della prescrizione e dipendendo la pendenza stessa dalla data in cui il processo perviene presso il giudice ad quem, data che dipende a sua volta da una pluralità di fattori esterni (gli incombenti di cancelleria per la trasmissione del fascicolo) e non da attività puramente giurisdizionale, e che, inoltre, il fatto da giudicare nel processo d’appello, proprio per l’ulteriore decorso del termine rispetto a quello di primo grado, sarebbe connotato da minore allarme sociale e al contempo renderebbe più difficile l’esercizio del diritto di difesa.

2.2. – Nei giudizi introdotti con le citate ordinanze di rimessione, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con tre distinti ma identici atti, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata.

Secondo l’Avvocatura, da un attento esame della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale, è possibile argomentare l’infondatezza della presente questione di legittimità costituzionale. Nella citata sentenza, la rilevanza attribuita al decorso del tempo non assumerebbe valore decisivo; dirimente sarebbe, invece – al fine di escludere la scelta legislativa che aveva individuato nell’apertura del dibattimento di primo grado il momento a partire dal quale non fosse applicabile la nuova disciplina della prescrizione ove più favorevole all’imputato –, il rilievo dell’incongruità del riferimento al principio di non dispersione della prova, richiamato nella relazione illustrativa della legge, posto che, prima dell’apertura del dibattimento, non sono state compiute attività istruttorie suscettibili di essere vanificate. Sarebbe evidente, sempre secondo l’Avvocatura, che tale rilievo non varrebbe nel caso di pendenza del processo in grado di appello al momento di entrata in vigore della predetta legge, trattandosi di una fase processuale successiva all’istruttoria dibattimentale svoltasi in primo grado, i cui risultati probatori sarebbero vanificati dall’applicazione della più favorevole disciplina della prescrizione sopravvenuta alla conclusione del primo grado di giudizio.

Con riferimento a tale fattispecie, la deroga al principio della retroattività della lex mitior apparirebbe dunque giustificata dal principio di non dispersione della prova, reiteratamente affermato dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 254 e 255 del 1992), principio strettamente connesso al fine della ricerca della verità, indicato dalla stessa Corte costituzionale quale principio immanente al processo penale (sentenze n. 363 del 1991, n. 432 del 1992, n. 280 del 1995).

3.1. – Con ordinanza del 10 gennaio 2007 (r.o. n. 347 del 2007), la Corte d’Appello di Roma ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della stessa legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude l’applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi già pendenti in appello alla data di entrata in vigore della medesima legge.

Sottolinea il rimettente di dover decidere l’appello di un soggetto condannato dal Tribunale di Roma con sentenza 18 settembre 2001, concesse le attenuanti generiche e ritenuta la continuazione, per il delitto di cui all’art. 648 cod. pen., per avere acquistato o ricevuto da ignoti mobili e dipinti antichi compendio di un furto commesso il 13 settembre 1994, in Roma, in data antecedente e prossima al 5 ottobre 1994; per il delitto di cui all’art. 640 cod. pen., per avere, con artifici e raggiri, indotto in errore l’acquirente dei mobili di cui sopra, conseguendo l’ingiusto profitto di settantacinque milioni di lire versatigli a titolo di prezzo, in Roma, il 5 ottobre 1994.

Il giudice a quo ritiene che la questione è rilevante in quanto l’appello è stato ritualmente proposto (notificato al contumace il 31 ottobre 2001 e depositato il 30 novembre 2001); che il reato di truffa si è prescritto in data 6 aprile 2002; che la ricettazione, per cui è intervenuta l’affermazione di responsabilità, si prescriverà in tempo antecedente e prossimo al 6 ottobre 2009, successivo al 14 settembre 2009, in applicazione della disciplina anteriore al 15 dicembre 2005, n. 251; che il processo è, infatti, pendente in appello dal 25 novembre 2002, cioè da data anteriore a quella di entrata in vigore della predetta legge n. 251 del 2005, con la conseguente esclusione dei termini di prescrizione più brevi risultanti dalle nuove disposizioni ed ai sensi dell’art. 10, comma 3, della stessa legge; che il processo non può essere definito indipendentemente dalla decisione della questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria censurata, poiché, per il principio generale dettato dall’art. 2, terzo comma, cod. pen., viene in considerazione, in alternativa a quella sopra calcolata per la ricettazione, la prescrizione maturatasi nell’anno 2004 (anni otto più un quarto) dopo la sentenza di primo grado, in applicazione dei termini più favorevoli di cui agli art. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., come sostituiti dall’art. 6, commi 1 e 5, della legge n. 251 del 2005.

Afferma il rimettente che in forza dell’art. 10, comma 3, di tale legge, i termini di prescrizione più brevi si applicano ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge – 8 dicembre 2005 – ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello alla medesima data. La pendenza del processo va definita quale disponibilità degli atti da parte del giudice, ricavabile dalla loro ricezione attestata dalla cancelleria penale, nella specie risultante dal timbro del 25 novembre 2002 apposto sul fascicolo per il dibattimento di primo grado. Ogni altra data anteriore non è riconducibile alla pendenza. Quindi la ricezione degli atti, datata dalla cancelleria del giudice del gravame, si risolve in regola d’applicazione o no dei termini più brevi di prescrizione, a seconda che gli atti stessi siano pervenuti successivamente o anteriormente all’8 dicembre 2005.

Tuttavia, secondo il giudice a quo, questo discrimine temporale limita il principio di retroattività della legge penale più favorevole in modo irragionevole, poiché determina una disparità di trattamento. Il tempo degli adempimenti non giurisdizionali è infatti variabile e non identico in tutti i casi (art. 582, secondo comma, del codice di procedura penale), mentre la rinuncia alla potestà punitiva non sembra potersi commisurare alle ragioni che costituiscono il fondamento della prescrizione: da un lato la diminuzione dell’allarme sociale per il lungo periodo di tempo trascorso dalla commissione del reato e, dall’altro, la difficoltà dell’esercizio della difesa. Sotto entrambi i profili non è sostenibile, infatti, che il breve tempo per la trasmissione degli atti processuali, d’ordinario occorrente alla cancelleria ed al personale ausiliario, all’interno del quale cada, eventualmente, l’entrata in vigore della legge in esame con la pendenza susseguente, abbia un’influenza esclusiva o principale sulla prescrizione. Vale a dire, per converso, che di per sé il criterio della pendenza in appello, successiva all’entrata in vigore della legge, non giustificherebbe logicamente la mancata operatività della prescrizione preesistente meno favorevole, atteso che l’art. 25 della Costituzione vieta la retroattività della legge penale, ma non concerne l’ultrattività della medesima (vengono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 6 del 1978, ed altre); ovvero che il regime giuridico della legge più favorevole – e segnatamente la sua retroattività – non è assistito dalla tutela privilegiata di questa norma (viene richiamata la sentenza n. 393 del 2006).

Di conseguenza, il rimettente dubita che, tanto per l’applicazione della norma penale di favore, quanto per la sua deroga, alla pendenza o ricezione degli atti possa attribuirsi il requisito equivalente ad una previsione generale ed astratta connessa al fluire del tempo (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 1991 e n. 138 del 1979), secondo una diversificazione di fenomeni realmente influente sull’allarme sociale o regolante situazioni affatto diverse a parità di reati, tale da richiedere un trattamento differente della causa estintiva o meglio la temporanea coesistenza di due misure del tempo di prescrizione, come concepita dall’art. 10, comma 3, in esame: prima e dopo la pendenza in appello e, rispettivamente, esclusione e riconoscimento della lex mitior. Se l’opzione di efficacia dei termini più favorevoli riguardo allo stato del processo e non solo al tempo del commesso reato, può intanto venire in discussione per il contrasto con l’art. 2, terzo comma, cod. pen. – poste la sua portata di principio fondamentale del codice penale, sancito altresì dalle disposizioni sulla legge in generale (art. 11), e la natura sostanziale, non processuale, delle norme sulla prescrizione (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006; sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione 5 gennaio 1993, n. 67; 24 maggio 1986 n. 4216; 28 agosto 1996, n. 7905) – non pare poi ragionevole nel sistema condizionarla al criterio non giurisdizionale di pendenza, laddove gli eventi processuali incidenti sul corso della causa estintiva sono sempre connessi a provvedimenti dell’autorità giudiziaria (art. 159 e 160 cod. pen., 477 cod. proc. pen.). La non consentita critica dell’esercizio di scelte discrezionali, di esclusiva competenza legislativa, non induce, tuttavia, a sottacere (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 1978,) che obiettivamente la legge n. 251 del 2005, modificando la materia del diritto sostanziale, persegue anche e, soprattutto, per via indiretta, una parziale sollecitazione processuale, con una regolamentazione nuova, per un verso con l’art. 157, primo comma, cod. pen. ampliando il tempo di prima prescrizione, quindi di esercizio dell’azione penale e di definizione del primo grado, e, nei limiti pertinenti, con gli art. 160, terzo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., restringendo il tempo complessivo di trattazione dei gradi successivi per il quarto del tempo non superabile.

Il rimettente sottolinea, inoltre, che la prescrizione, più specificamente collegata alla gravità del reato ed al suo disvalore, non sembra avere una uniforme disciplina. Anzi, ove maggiore sia stata la sollecitudine nel procedere, i termini più brevi non trovano applicazione – per l’appunto ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello – come, invece, nel caso contrario dei processi pendenti dopo l’8 dicembre 2005 ed esauriti in prime cure alla stessa data. Prima della declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nel testo originario, tale discrasia era vieppiù accentuata, esclusa l’applicazione della lex mitior da parte del giudice di primo grado.

La pendenza presso il giudice ad quem nei giorni immediatamente antecedenti o successivi all’8 dicembre 2005 può essere – rileva il giudice a quo – casuale, sicché nessuna certezza d’eguaglianza di fronte alla lex mitior si ha in tutte le fattispecie di già maturata nuova prescrizione dopo la sentenza di primo grado. L’effettività della sua uniforme applicazione può essere fortuita, poiché non trattasi di una mera disparità di fatto, cui è estranea la legge e quindi irrilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 3 della Costituzione (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 163 del 1972), ma di un inconveniente emergente dal meccanismo legale, interno alla norma transitoria. In sintesi, sebbene in casi non ancora riscontrati, ma teoricamente ipotizzabili, non è improprio definire casuale e dissimile tra gli imputati la data di entrata in vigore dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, se non ricondotto a regole irrinunciabili (artt. 3, primo comma, e 73, terzo comma, della Costituzione). Non può pensarsi, come inizialmente cennato, che il rimedio sia quello di fare retroagire, rendendola virtuale, la pendenza alla data dell’ultima formalità prescritta, come ad esempio, tra le altre, la comunicazione del gravame dell’imputato al procuratore generale o la notificazione alla parte civile, poiché da un canto si ricorrerebbe ad una interpretazione contraria all’applicazione della lex mitior per anticipata pendenza e, dall’altro, gli adempimenti funzionali all’impugnazione incidentale dell’accusa e della parte civile porterebbero paradossalmente alla sua applicazione. Tanto meno può aversi riguardo alla presentazione dell’appello principale prima dell’8 dicembre 2005, giungendosi all’efficacia dei più lunghi termini di prescrizione in contrasto con il diritto della difesa per violazione dell’art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione. Neppure va dato rilievo alla comunicazione di cancelleria ai sensi dell’art. 15 del regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale (D.M. 30 settembre 1989, n. 334) e dell’art. 590 cod. proc. pen., non essendo essa legata ad atto dell’autorità giudiziaria, al pari dell’attestazione della pendenza. Si evidenzia, dunque, che non c’è soluzione interpretativa dell’inciso dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005: «ad esclusione... dei processi già pendenti in grado di appello», l’eccezione proposta essendo obbligata, poiché, pur a séguito della sentenza d’incostituzionalità n. 393 del 2006 limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché», le disposizioni prescrizionali di favore relative al giudizio di primo grado non sono applicabili a norma dell’art. 598 cod. proc. pen., per la tassativa eccezione fatta ai termini più brevi maturatisi in appello, ove la pendenza sia anteriore all’8 dicembre 2005, sempre che i medesimi non si siano compiuti in prime cure ed, ovviamente, non sia stata dichiarata l’estinzione del reato per detta causa con la decisione anteriore a quella della Corte costituzionale. Soltanto in questa ultima ipotesi e per l’efficacia retroattiva delle pronuncie di incostituzionalità (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 127 del 1966, n. 329 del 1985, n. 94 del 1986), essi non possono non essere osservati anche nei gradi successivi, così realizzando l’inverso costituzionale del dettato normativo, per il quale, esclusi i più brevi termini estintivi in primo grado, lo erano a fortiori nel secondo ed in cassazione.

In conclusione, il rimettente ritiene non manifestamente infondata l’esclusione dei termini di prescrizione, fissata dalla pendenza del processo in grado di appello alla data di entrata in vigore della nuova legge, quando più favorevoli e maturati dopo la sentenza di primo grado. Rimane affidato alla Corte costituzionale il sindacato se l’eventuale declaratoria d’incostituzionalità debba essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, all’intero residuo secondo inciso del comma 3 dell’art. 10 della legge n. 251 del 2005.

3.2. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata, sulla base delle medesime argomentazioni esposte sub 2.2.

4.1. – Con ordinanza del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007), la Corte d’Appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10 e 11 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, anche in relazione alla nuova formulazione dell’art. 158, primo comma, cod. pen.

Afferma la rimettente di dover giudicare l’appello di due persone, imputate, rispettivamente, il primo del reato di cui all’art. 416, primo comma, cod. pen., commesso dal 1960 all’aprile 2002; del reato di cui agli artt. 81, 648, 61, numero 7, cod. pen., commesso dal 1960 al 17 aprile 1999; del reato di cui agli artt. 81, 61, numero 7, cod. pen., 87 e 124 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), fatto «accertato dal luglio 1995 in poi, situazione permanente»; nonché del reato di cui agli artt. 81, 110, 483 cod. pen.; artt. 65, 66 e 123 del predetto testo unico, fatto commesso dal 1960 al 17 aprile 1999; il secondo del reato di cui all’art. 416 cod. pen., commesso dal 1960 all’aprile 2002.

Rileva il giudice a quo che la questione è rilevante poiché il procedimento, alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, pendeva in grado di appello in ordine al reato di ricettazione di cui all’art. 648 cod. pen., reato che ha costituito la base su cui il primo giudice ha operato gli aumenti per la continuazione esterna, essendo la maggior parte degli episodi in continuazione commessi anteriormente al 1995 e dovendo trovare applicazione l’art. 158, primo comma, cod. pen., in tema di decorrenza del termine della prescrizione nel reato continuato. Secondo il rimettente, inoltre, in base alla disciplina dettata dagli artt. 157 e 158 cod. pen., nella formulazione anteriore all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, i termini di prescrizione massima sono di quindici anni e maturano «dal giorno in cui è cessata la continuazione», pertanto non prima del 2010, mentre, se si ha riguardo alla nuova formulazione degli artt. 157 e 158 cod. pen. tali termini, ridotti a dieci anni, sono maturati, per il maggiore numero dei fatti-reato, prima nel 2005.

Osserva la rimettente che il tenore letterale della norma impugnata impone di ritenere che tra «le nuove disposizioni» rientra anche la nuova formulazione dell’art. 158, primo comma, cod. pen., come si desume anche dalla circostanza che l’art. 10, comma 2, fa espresso richiamo all’art. 6, nel quale è appunto contenuta la modifica dell’art. 158, primo comma, cod. pen. (viene richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sez. II, 5 maggio 2006, n. 19584).

Ritiene il giudice a quo che l’art. 3 della Costituzione impone al legislatore, allorché escluda l’applicazione retroattiva di una norma che preveda un trattamento sostanziale più favorevole, di assicurare il pari trattamento dei cittadini, con la conseguenza che detta esclusione deve avere una giustificazione razionale.

Lo stesso rimettente condivide le argomentazioni esposte, per i processi pendenti in primo grado, nella citata sentenza di incostituzionalità n. 393 del 23 ottobre 2006 citata – che possono estendersi ai procedimenti pendenti in grado di appello – secondo le quali è carente di razionalità una disciplina transitoria riguardante la entrata in vigore di una disciplina sostanziale, quale quella della prescrizione, che faccia dipendere la esclusione della retroattività della norma più favorevole solo dall’evoluzione del processo e dal grado in cui esso sia pervenuto ad una certa data, costituendo tale evoluzione e il relativo grado processuale aspetti irrilevanti rispetto al decorso, uguale per tutti, del termine di prescrizione, che non può trovare la sua ragion d’essere nel grado del processo il quale, come già osservato nella richiamata sentenza costituzionale, «non è in alcun modo idoneo a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al già menzionato rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa». In caso contrario, qualora cioè l’effetto retroattivo della disciplina sopravvenuta sia collegato al mero dato processuale del superamento o meno di una certa soglia, può prospettarsi una intrinseca irragionevole disparità di trattamento tra coloro che hanno commesso il medesimo reato prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, alcuni dei quali, solo perché più rapidamente processati, si trovino ad essere giudicati in base alla disciplina previgente, e coloro che, per cause diverse, abbiano beneficiato di un iter processuale più lento.

In particolare, la scelta di individuare il momento della pendenza del processo in grado di appello come discrimine temporale per l’applicazione della lex mitior nei processi in corso di svolgimento in tale grado di giudizio alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, non appare sostenuta dalla necessità di tutelare interessi di analogo rilievo, mentre «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 della Costituzione, sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (cfr. la sentenza n. 393 del 2006), atteso il livello di rilevanza dell’interesse preservato dalla lex mitior, quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, vincolato all’osservanza del diritto internazionale convenzionale e del diritto comunitario.

Secondo il rimettente, inoltre, non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in questione anche con riferimento all’art. 10, secondo comma, e 11 della Costituzione, secondo cui l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, in quanto tra le dette norme, come riconosciuto dalla citata sentenza n. 393 del 2006, si colloca il principio di necessaria applicazione della norma penale più favorevole, (ancorché non incluso nell’art. 25 della Costituzione), quale portato della civiltà giuridica internazionale ed espressamente previsto in convenzioni e trattati internazionali, tra cui l’art. 15 del Patto di New York, che sancisce che «Se posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»: principio che costituisce inoltre norma generale del diritto comunitario, secondo l’art. 6, secondo comma, del Trattato di Amsterdam, che statuisce che «L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, firmata a Roma 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario»). In ossequio a tale principio, la Corte di Giustizia delle Comunità europee, con le sentenze 12 giugno 2003, nella causa C-112/00, 10 luglio 2003, nelle cause C-20/00 e C64/00 e da ultimo con la sentenza 3 maggio 2005, nelle cause C-387/02, C-391/02 e C-403/02, ha precisato che «Secondo una giurisprudenza costante, i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza. A tal fine quest’ultima si ispira alle tradizioni costituzionali degli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo. Orbene, il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Ne deriva che questo principio deve essere considerato parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario».

4.2. Si è costituito in giudizio uno degli imputati e ha depositato una memoria, con la quale si ripercorrono le motivazioni della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale, sostenendo la tesi della fondatezza della questione sollevata dalla Corte d’appello.

La parte privata aggiunge inoltre che sarebbe discriminatorio ed irragionevole fissare una separazione nell’applicazione della lex mitior nel momento in cui è completato il dibattimento di primo grado. Nel caso di specie l’imputato ha optato per il rito abbreviato e si trova ora in grado di appello; gli imputati che non hanno chiesto il rito alternativo si trovano invece ancora in primo grado, con la conseguenza che in uno stesso originario processo finirebbero con il trovare applicazione due diverse leggi penali sostanziali.

Parimenti fondata sarebbe la questione sotto il profilo del momento a partire dal quale decorre la prescrizione. La modifica dell’art. 158 cod. pen. riguardante il reato continuato, ad opera dell’art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005, attenendo al diritto penale sostanziale e non a quello processuale, deve potersi applicare anche ai processi in corso, e dunque non può parimenti trovare un ostacolo nell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005.

5.1. – Con ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007), la Corte d’Appello di Palermo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 – in riferimento all’art. 3 della Costituzione –, perché derogherebbe ingiustificatamente al disposto dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. secondo cui «Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».

Secondo il rimettente, la questione sarebbe non manifestamente infondata, alla luce soprattutto della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché». Afferma il giudice a quo che la norma del codice penale più favorevole deve essere interpretata, ed è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza costituzionale (e da quella di legittimità), nel senso che la locuzione «disposizioni più favorevoli al reo» si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato, e che nel caso di specie l’art. 6 della legge n. 251 del 2005, risulta essere per l’imputato chiaramente più favorevole, poiché fissa il termine massimo di prescrizione in relazione al reato contestato al medesimo nella misura di anni sei, mentre, ai sensi dell’art. 157 cod. pen., prima della modifica il termine di prescrizione era di anni quindici.

Conclude il giudice a quo rilevando che la scelta del legislatore di escludere la disciplina della legge n. 251 del 2005 per i «processi già pendenti in grado di appello» (art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005) non appare sorretta da giustificazioni di ordine logico, né appare ispirata a finalità tali da giustificare il diverso trattamento così riservato a diverse categorie di cittadini.

5.2. – Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata, alla stregua delle medesime argomentazioni già riportate.

Considerato in diritto

1. – La Corte d’appello di L’Aquila, con ordinanza del 24 marzo 2006 (r.o. n. 273 del 2006), dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude dall’applicazione delle norme contenute nell’art. 6 della medesima legge i procedimenti penali pendenti in grado d’appello, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, perché determinerebbe una disparità di trattamento non giustificabile, in quanto irragionevolmente rimessa a criteri di selezione assolutamente distonici rispetto alla ratio dell’istituto della prescrizione.

2. – La Corte d’appello di Roma, con tre ordinanze del 20 dicembre 2006 (r.o. nn. 105, 106 e 107 del 2007), dubita della legittimità costituzionale dello stesso art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude l’applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi già pendenti in grado d’appello alla data di entrata in vigore della medesima legge, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, perché la pendenza in appello non sarebbe indicata tra gli atti interruttivi della prescrizione e perché la pendenza stessa dipenderebbe dalla data in cui il processo perviene presso il giudice ad quem, data che, a sua volta, dipende da una pluralità di fattori esterni (gli incombenti di cancelleria per la trasmissione del fascicolo) e non da attività puramente giurisdizionale; inoltre il fatto da giudicare nel processo d’appello, proprio per l’ulteriore decorso del termine rispetto a quello di primo grado, sarebbe connotato da minore allarme sociale e al contempo renderebbe più difficile l’esercizio del diritto di difesa.

3. – La stessa Corte d’appello di Roma, con ordinanza del 10 gennaio 2007 (r.o. n. 347 del 2007), censura la medesima norma per violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo che la ricezione degli atti, datata dalla cancelleria del giudice del gravame, si risolverebbe in regola d’applicazione o no dei termini più brevi di prescrizione, a seconda che gli atti siano pervenuti successivamente o anteriormente all’8 dicembre 2005, dal momento che questo discrimine temporale limiterebbe il principio di retroattività della legge penale più favorevole in modo irragionevole e determinerebbe una disparità di trattamento dovuta a fattori casuali, essendo il tempo degli adempimenti non giurisdizionali variabile e non identico in tutti i casi (art. 582, secondo comma, del codice di procedura penale), e non trattandosi di una mera disparità di fatto, cui sia estranea la norma censurata, ma, piuttosto, di un inconveniente emergente dal meccanismo legale.

4. – La Corte d’appello di Roma, con ordinanza del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007), dubita della legittimità costituzionale dello stesso art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude dall’applicazione delle norme contenute nell’art. 6 della medesima legge i procedimenti penali pendenti in grado d’appello e, dunque, anche nella parte in cui impedisce l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione riguardante il reato continuato, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, in particolare perché realizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che hanno commesso il medesimo reato, alcuni dei quali, solo perché più rapidamente processati, si siano trovati ad essere giudicati in base alla disciplina previgente, e coloro che, per cause diverse, abbiano beneficiato di un iter processuale più lento; nonché per violazione degli artt. 10, secondo comma, e 11 della Costituzione, in quanto, come riconosciuto dalla sentenza n. 393 del 2006, il principio della retroattività della norma penale più favorevole costituisce un principio del diritto internazionale e del diritto comunitario.

5. – Con ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007) la Corte d’appello di Palermo dubita della legittimità costituzionale dello stesso art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude dall’applicazione delle norme contenute nell’art. 6 della medesima legge i procedimenti penali pendenti in grado d’appello, ancora per violazione dell’art. 3 della Costituzione, perché verrebbe a determinare una disparità di trattamento tra diverse categorie di cittadini.

6. – Tutte le ordinanze sollevano questione di legittimità costituzionale della stessa norma, onde deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi, per essere congiuntamente decisi.

7. – La questione sollevata dalla Corte d’appello di L’Aquila è manifestamente inammissibile per omessa descrizione della fattispecie, non enunciando il giudice rimettente né la natura del reato, né la data della sua commissione, e non chiarendo nemmeno se l’appello fosse pendente alla data dell’8 dicembre 2005, data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.

E’ infatti costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l’affermazione del principio secondo cui il giudice deve rendere esplicite le ragioni che lo inducono a sollevare la questione di costituzionalità con una motivazione autosufficiente tale da permettere la verifica della valutazione sulla rilevanza, con la conseguenza che ove, come nella specie, per le evidenziate lacune, tale valutazione non sia possibile, la questione proposta è manifestamente inammissibile (ex plurimis, ordinanze n. 23 e n. 19 del 2008).

8. – Anche la questione sollevata dalla Corte d’appello di Roma con l’ordinanza del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 105 del 2007) è manifestamente inammissibile, per le stesse ragioni in precedenza indicate, in quanto il rimettente afferma di dovere giudicare dell’appello di un imputato condannato dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma con sentenza dell’8 febbraio 2001 per il reato di cui agli artt. 453 e 455 del codice penale, commesso il 7 febbraio 2005.

L’errore commesso dal giudice a quo nell’indicare la data del commesso reato non consente di valutare la rilevanza della questione, essendo impossibile l’emanazione di una sentenza quattro anni prima della commissione del reato; per tacere poi del fatto che, se il reato fosse stato realmente commesso il 7 febbraio 2005, la questione sarebbe pur sempre irrilevante per non essere il reato comunque prescritto.

9. – Del pari manifestamente inammissibile, per i medesimi motivi esposti sub n. 7 e n. 8, è la questione sollevata dalla Corte d’appello di Roma con l’ordinanza del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 106 del 2007), con la quale il rimettente afferma di dovere giudicare dell’appello di un imputato condannato dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma con sentenza 18 aprile 2000 (per il reato di cui all’art. 368 cod. pen., commesso il 9 aprile 1998), a séguito della sentenza della Corte di cassazione 30 settembre 2002, che aveva annullato la sentenza della Corte d’appello di Roma 25 ottobre 2001, con la quale era stata confermata la sentenza del giudice dell’udienza preliminare.

L’art. 368 cod. pen. prevede, al terzo comma, una aggravante ad effetto speciale del delitto di calunnia, nei casi di particolare gravità del reato di cui si incolpa qualcuno e, quindi, una prescrizione diversa in tali casi. Il rimettente non specifica, però, di quale reato è stato accusato il calunniato, il che rende impossibile il calcolo della prescrizione e, conseguentemente, la verifica della rilevanza della questione.

10. – E’, infine, manifestamente inammissibile, per le stesse ragioni in precedenza esposte, anche la questione sollevata dalla Corte d’appello di Palermo con l’ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007).

Il rimettente si limita ad affermare che le nuove norme fissano il termine massimo di prescrizione di sei anni, mentre, prima della modifica, il termine era di anni quindici, senza neppure enunciare, al fine della verifica della rilevanza, quale sia il reato da giudicare e se l’appello fosse pendente alla data dell’8 dicembre 2005.

11. – Le questioni sollevate con le altre ordinanze e, precisamente, quelle della Corte d’appello di Roma del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 107 del 2007), del 10 gennaio 2007 (r.o. n. 347 del 2007) e del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007) non sono fondate, sulla base delle considerazioni che seguono.

12. – La legge n. 251 del 2005 ha ridotto, per alcuni reati, i termini di prescrizione.

La legge, dopo avere stabilito (art. 10, comma 1) la propria entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, aggiunge (comma 3) che «Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».

Questa Corte, con la sentenza n. 393 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale comma 3 limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».

La predetta sentenza ha affermato che la prescrizione esprime l’interesse generale di non perseguire più i reati rispetto ai quali sia trascorso un periodo di tempo che, secondo la valutazione del legislatore, ha comportato l’attenuazione dell’allarme sociale e reso più difficile l’acquisizione del materiale probatorio (e, quindi, l’esercizio del diritto di difesa), e che la norma volta a ridurre i termini di prescrizione del reato si colloca fra le "disposizioni più favorevoli al reo” di cui all’art. 2, quarto comma, del codice penale. Da tale norma codicistica (e da una serie di dati risultanti dai trattati internazionali e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee) si ricava la regola dell’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli al reo: deroghe a tale regola sono possibili solo se superano un vaglio positivo di ragionevolezza in quanto mirino a tutelare interessi di analogo rilievo rispetto a quelli soddisfatti dalla prescrizione (efficienza del processo, salvaguardia dei diritti dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale) o relativi a esigenze dell’intera collettività connesse a valori costituzionali.

In particolare, la deroga al regime della retroattività delle disposizioni più favorevoli al reo è ammissibile nei confronti di norme che riducano i termini di prescrizione del reato, purché essa sia coerente con la funzione assegnata dall’ordinamento all’istituto della prescrizione e tuteli interessi del tipo indicato. Sempre secondo la sentenza n. 393 del 2006, la scelta di escludere l’applicazione retroattiva della norma sulla riduzione dei termini di prescrizione del reato ai processi pendenti in primo grado alla data della sua entrata in vigore, ove sia intervenuta l’apertura del dibattimento, non è ragionevole, in quanto la norma individua il discrimine fra i processi di primo grado soggetti ai nuovi termini di prescrizione (più brevi) e quelli nei quali continuano ad applicarsi i termini vecchi (più lunghi) in un momento (apertura del dibattimento) che, nel complesso della disciplina del processo di primo grado, non è indefettibile (infatti non riguarda i riti alternativi, miranti a deflazionare il dibattimento, e, in specie, il giudizio abbreviato), né è incluso fra gli atti considerati rilevanti dall’art. 160 cod. pen. ai fini della prescrizione (sentenza o decreto di condanna ed altri atti processuali).

L’apertura del dibattimento, quindi, come momento eventuale, non è significativamente correlabile ad un istituto di carattere generale come la prescrizione e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legate al rilievo sopra ricordato – anch’esso di portata generale – che il decorso del tempo non solo attenua l’allarme sociale, ma rende più difficile l’acquisizione del materiale probatorio e, quindi, l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato.

Tale motivazione non si attaglia alla parte della stessa disposizione censurata secondo cui i nuovi, più brevi, termini di prescrizione non si applicano retroattivamente ai processi che, alla data della sua entrata in vigore, pendano in grado di appello (o avanti alla Corte di cassazione).

Invero, per tali processi, l’esclusione dell’applicazione retroattiva della prescrizione più breve non discende dall’eventuale verificarsi di un certo accadimento processuale, ma dal fatto oggettivo e inequivocabile che processi di quel tipo siano in corso ad una certa data.

Del resto, la circostanza che nel processo sia stata pronunciata una sentenza (di primo grado) è significativamente correlata all’istituto della prescrizione, come si desume dall’art. 160 cod. pen. che considera rilevante ai fini della prescrizione la sentenza (oltre il decreto di condanna ed altri atti processuali).

Deve, in particolare, evidenziarsi che il riferimento generico al decreto di citazione a giudizio, contenuto nell’art. 160 cod. pen., consente di ricomprendere tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione anche il decreto di citazione per il giudizio di appello di cui all’art. 601 cod. proc. pen.

Inoltre, nei giudizi penali di appello (e ancor più in quelli di cassazione), l’esigenza di evitare che l’acquisizione del materiale probatorio (e quindi l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato) sia resa più difficile dallo scorrere del tempo è già soddisfatta dalla disciplina positiva di tali giudizi. Infatti, in via di principio, quel materiale probatorio è acquisito nel corso del dibattimento di primo grado (in appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è ammessa solo nei casi di cui all’art. 603 cod. proc. pen.).

Sotto tale profilo, la scelta legislativa di escludere l’applicazione a tali giudizi dei nuovi termini di prescrizione è ragionevole, non potendosi per essi invocare la ricordata esigenza cui il fondamento della prescrizione è correlato.

La ragionevolezza di tale scelta è poi ulteriormente comprovata dal rilievo che essa – poiché nei giudizi in esame il materiale probatorio, in linea di massima, è ormai stato acquisito – mira ad evitare la dispersione delle attività processuali già compiute all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, secondo cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi vigenti all’atto del loro compimento, e così tutela interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale).

Ne discende che la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui esclude l’applicabilità delle nuove disposizioni ai processi già pendenti al momento della sua entrata in vigore, proposta in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.

Dalla ragionevolezza della scelta operata dal legislatore discende, infine, anche la non fondatezza delle questioni prospettate in riferimento agli artt. 10, secondo comma, e 11 della Costituzione, e ciò sulla base delle affermazioni contenute nella sentenza n. 393 del 2006 che, nel riconoscere la portata generale dei princípi ricavabili dai trattati internazionali circa l’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli all’imputato, ha anche ammesso che a tale applicazione si può derogare sulla base di un vaglio positivo di ragionevolezza, nella specie sussistente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di L’Aquila con l’ordinanza del 24 marzo 2006 (r.o. n. 273 del 2006), dalla Corte d’appello di Roma con le ordinanze del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 105 e n. 106 del 2007) e dalla Corte d’appello di Palermo con l’ordinanza del 22 gennaio 2007 (r.o. n. 642 del 2007);

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, sollevate dalla Corte d’appello di Roma, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con le ordinanze del 20 dicembre 2006 (r.o. n. 107 del 2007) e del 10 gennaio 2007 (r.o. n. 383 del 2007), nonché, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, e 11 della Costituzione, con l’ordinanza del 19 febbraio 2007 (r.o. n. 383 del 2007).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2008.