Sentenza n. 411 del 2006

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SENTENZA N. 411

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                                 BILE                                                  Presidente

-  Giovanni Maria                   FLICK                                                 Giudice

-  Francesco                            AMIRANTE                                             “

-  Ugo                                     DE SIERVO                                             “

-  Romano                              VACCARELLA                                       “

-  Paolo                                   MADDALENA                                        “

-  Alfio                                   FINOCCHIARO                                      “

-  Alfonso                               QUARANTA                                            “

-  Franco                                 GALLO                                                     “

-  Luigi                                   MAZZELLA                                             “

-  Gaetano                              SILVESTRI                                              “

-  Sabino                                 CASSESE                                                 “

-  Maria Rita                           SAULLE                                                   “

-  Giuseppe                             TESAURO                                                “

-  Paolo Maria                         NAPOLITANO                                        “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 13, della legge Regione Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1 (Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza operanti in Lombardia), promossi con ordinanze del 27 luglio 2004 dal Tribunale di Lecco nel procedimento civile vertente tra la F.P. Cgil Funzione Pubblica della Provincia di Lecco ed altra e la Casa di riposo dr. Luigi e Regina Sironi Onlus, iscritta al n. 978 del registro ordinanze 2004, e del 3 giugno 2005 dal Tribunale di Mantova nel procedimento civile vertente tra la Fondazione Isabella Gonzaga Onlus e la Funzione Pubblica Cgil di Mantova, iscritta al n. 434 del registro ordinanze 2005, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 49, prima serie speciale, dell’anno 2004 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2005.

          Visti gli atti di costituzione della F.P.S. CISL–Federazione Pubblici Servizi della Provincia di Lecco, della Casa di riposo dr. Luigi e Regina Sironi Onlus, della Fondazione Isabella Gonzaga Onlus nonché gli atti di intervento della F.P.S. CISL, Federazione Pubblici Servizi della Regione Lombardia, e della Regione Lombardia;

          udito nell’udienza pubblica del 7 novembre 2006 il Giudice relatore Romano Vaccarella;

          uditi gli avvocati Bassano Baroni e Lidia Ciabattini per la Casa di riposo dr. Luigi e Regina Sironi Onlus e per la Fondazione Isabella Gonzaga Onlus, Nico Cerana per la F.P.S. CISL, Federazione Pubblici Servizi della Provincia di Lecco, e gli avvocati Nicolò Zanon e Andrea Manzi per la Regione Lombardia.

Ritenuto in fatto

         1.– Con ordinanza depositata il 27 luglio 2004 il Tribunale di Lecco ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 13, della legge Regione Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1 (Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza operanti in Lombardia), in riferimento agli artt. 18, 39 e 117 della Costituzione.

         1.1.1.– L’incidente è stato sollevato nel corso di un giudizio promosso dalle organizzazioni sindacali provinciali CGIL Funzione Pubblica e F.P.S. CISL della Provincia di Lecco, ai sensi dell’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), al fine di denunciare il comportamento, asseritamente antisindacale, tenuto dalla Casa di Riposo Dr. Luigi e Regina Sironi – ONLUS (già IPAB), consistito nell’applicazione unilaterale, ad un dipendente assunto dopo la privatizzazione della Fondazione convenuta, del CCNL «UNEBA» (Unione nazionale enti di beneficenza e assistenza), in luogo di quello «Regioni ed Autonomie locali», e segnatamente nella mancata concertazione del contratto collettivo da applicare, in violazione del disposto dell’art. 18, comma 13, della legge Regione Lombardia n. 1 del 2003.

         Nel resistere alla domanda attrice, la parte convenuta aveva dedotto che, nella fase immediatamente precedente alla sua trasformazione in ente di diritto privato, essa aveva comunicato alle organizzazioni ricorrenti quale contratto collettivo avrebbe applicato; che la disposizione addotta a fondamento del ricorso non imponeva affatto l’obbligo di raggiungere un accordo con le associazioni sindacali circa la disciplina contrattuale da osservare; e infine che la norma invocata era costituzionalmente illegittima.

         1.1.2.– Il giudice a quo osserva, in punto di non manifesta infondatezza, che la lesione degli artt. 18 e 39 della Costituzione deriverebbe dalla violazione, da parte della norma censurata, del principio della libertà ordinamentale riconosciuta alle organizzazioni sindacali. La contrattazione collettiva, invero, sfuggirebbe a qualsivoglia intervento «eteronomo», segnatamente nel senso che non potrebbe, con legge – e tanto meno con legge regionale – stabilirsi da quale contratto e di quale livello debba essere disciplinato un certo rapporto, essendo la relativa scelta rimessa esclusivamente alle parti contraenti. Peraltro, la norma censurata porterebbe all’applicazione, a rapporti di lavoro di diritto privato, di un contratto collettivo – quello delle «Regioni ed autonomie locali» – previsto per la disciplina di rapporti del «comparto pubblico» e stipulato, ex parte datoris, dall’ARAN, e cioè da un soggetto che, in quanto rappresentativo delle sole amministrazioni pubbliche, giammai potrebbe rappresentare un datore di lavoro privato.

         Ad avviso del rimettente, inoltre, la norma censurata violerebbe altresì l’art. 117 della Costituzione, in quanto interverrebbe a regolamentare rapporti di natura privatistica, come tali sottratti alla potestà legislativa delle regioni.

         1.1.3.– Quanto alla rilevanza del prospettato dubbio, la questione sarebbe «determinante per la decisione della controversia in atti».

         1.2.– Si è costituita la F.P.S. CISL – (Federazione  Pubblici Servizi) della Provincia di Lecco – che ha chiesto dichiararsi inammissibile, ovvero infondata, la questione sollevata.

         1.2.1.– Ricapitolata l’evoluzione normativa delle IPAB – a partire dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972 (Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), cosiddetta legge Crispi, e dal trasferimento alle Regioni delle funzioni relative alle IPAB, ad opera del d.P.R. n. 616 del 1977 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382) – la deducente ricorda come la Corte costituzionale (sentenza n. 173 del 1981) abbia dichiarato incostituzionale la norma (art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977) che, trasferendo ai comuni personale, beni e funzioni delle IPAB, aveva sovvertito il principio – posto a fondamento della legge n. 6972 del 1890 – del rispetto della volontà dei fondatori, pur dovendosi prevedere un sistema di controlli, in ragione del fine pubblico dell’attività svolta, in regime di autonomia, da tali enti.

         Segnala inoltre la deducente Federazione come la peculiarità della natura giuridica delle IPAB – caratterizzata dall’intrecciarsi di una disciplina pubblicistica, in funzione di controllo, con una notevole permanenza di elementi privatistici, ulteriormente ribadita nella sentenza n. 195 del 1987 – portò questa Corte (sentenza n. 396 del 1988) a dichiarare l’illegittimità dell’art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, nella parte in cui non prevedeva che le IPAB regionali e infraregionali continuassero a sussistere come soggetti di diritto privato, qualora possedessero i requisiti di un’istituzione privata.

         Fissati dalle leggi regionali lombarde 27 marzo 1990, n. 21, e 27 mrzo 1990, n. 22, la procedura e i requisiti perché le IPAB interessate ottenessero il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato, il decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207 (Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, a norma dell’art. 10 della legge 8 novembre 2000, n. 328), ha, tra l’altro, disposto che le istituzioni inquadrate come aziende di servizi o persone giuridiche di diritto privato conservano i diritti e gli obblighi anteriori a tale inquadramento, tra i quali quelli inerenti al mantenimento, da parte del personale dipendente, dell’anzianità pregressa (art. 4).

         1.2.2.– Ciò posto, evidenzia la deducente come, in piena aderenza ai principi di cui agli artt. 18, 38 e 118 della Costituzione, nonché alle linee guida della legge 8 novembre 2000, n. 328, e del d.lgs. n. 207 del 2001, la legge della Regione Lombardia n. 1 del 2003 abbia provveduto al riordino delle IPAB operanti sul suo territorio, mediante la loro trasformazione in Aziende di servizi alla persona (ASP) o in persone giuridiche di diritto privato, senza scopo di lucro, prevedendo – ad integrazione del disposto dell’art. 4 del predetto decreto legislativo e in conformità alle previsioni dell’accordo 18 novembre 2002, nel frattempo intervenuto tra le organizzazioni sindacali di categoria e il competente Assessorato regionale – che qualsivoglia trasformazione delle IPAB in persone giuridiche di diritto privato o in ASP non costituisca causa di risoluzione del rapporto con il personale, né altrimenti incida sui trattamenti in godimento o sull’anzianità maturata (art. 3, comma 6).

         Inequivocabile, pertanto, sarebbe la volontà del legislatore regionale di fare in modo che la trasformazione dell’ente non incida sul rapporto di lavoro del personale dipendente e non crei – nelle more della determinazione di apposito comparto – inaccettabili sperequazioni relativamente a future assunzioni.

         1.2.3.– La questione proposta, secondo la F.P.S. – CISL, sarebbe inammissibile, vuoi per assoluta carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza, solo apoditticamente enunciata, vuoi per mancanza del necessario carattere «determinante».

         In effetti, mentre oggetto del giudizio a quo era l’inosservanza della procedura prescritta dagli artt. 1, comma 2, e 5 del CCNL 22 gennaio 2004 e dalla legge regionale al fine di assicurare una scelta concordata tra le parti della disciplina contrattuale applicabile al rapporto, la questione di costituzionalità è stata sollevata con riguardo alla asserita limitazione della tipologia dei contratti da prendere in considerazione.

         1.2.4.– Il dubbio di costituzionalità sarebbe in ogni caso infondato.

         E invero, a prescindere dalla mancata esplicitazione delle ragioni del contrasto della norma impugnata con l’art. 18 della Costituzione, il preteso vulnus alla libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost. sarebbe insussistente, sia perché la disposizione censurata costituirebbe la trasposizione in legge dell’accordo raggiunto tra le parti in vista del riordino delle IPAB, sia perché la previsione di una contrattazione decentrata, avente ad oggetto l’individuazione del contratto di lavoro applicabile al personale assunto dopo la trasformazione delle IPAB in persone giuridiche di diritto privato, toglierebbe ogni carattere lesivo alla (eventuale) «applicazione di un contratto collettivo previsto per il comparto pubblico […], in riferimento ad un datore di lavoro (le IPAB) e ad un rapporto contrattuale definitivamente accertato come privato».

         Immotivato e infondato sarebbe altresì, ad avviso della Federazione deducente, il denunciato contrasto della norma censurata con l’art. 117 della Costituzione, in quanto, a prescindere dalla generale assimilazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici a quello privatistico, la norma impugnata, demandando all’autonoma contrattazione delle parti l’individuazione del contratto collettivo per i neo assunti, si correlerebbe alla ricordata necessità perequativa, senza in alcun modo condizionare i contenuti del rapporto, al quale non imporrebbe affatto l’applicazione di una disciplina pubblicistica,  e senza pertanto violare la potestà legislativa dello Stato.

         1.3.– Nel giudizio si è altresì tempestivamente costituita la Fondazione Casa di Riposo Dr. Luigi e Regina Sironi – ONLUS.

         1.3.1.– Nella sua memoria l’ente sottolinea come – a fronte della denuncia ex art. 28 della legge n. 300 del 1970, proposta per essere stato unilateralmente applicato, a una dipendente assunta dopo la privatizzazione, il C.C.N.L. «UNEBA», piuttosto che quello «Regioni e Autonomie locali», in assenza di qualsivoglia procedura di concertazione con le organizzazioni sindacali – esso avesse replicato che, costituendo «l’avvenuta depubblicizzazione» della ex IPAB «un atto di accertamento meramente ricognitivo dell’originaria natura privatistica della Casa di Riposo», doveva escludersi l’applicabilità di una norma destinata ad operare nei confronti di soggetti la cui trasformazione fosse ancora in itinere; che l’art. 18, comma 13, della legge Regione Lombardia n. 1 del 2003, pretesamente violato dal datore di lavoro, non imponeva affatto un obbligo di risultato, ma soltanto un obbligo di trattare, impegno nella fattispecie sicuramente assolto; che, non sussistendo tra il CCNL Regioni – Enti locali del 22 gennaio 2004 e il CCNL UNEBA del 27 maggio 2004 problemi di raccordo e costituendo il secondo lo svolgimento e l’attuazione del disegno delineato nel primo, il preteso obbligo di trattare poteva considerarsi assolto con la sua stipulazione; che, in ogni caso, la disposizione della quale i ricorrenti chiedevano al giudice l’applicazione, ove interpretata come volta a porre un limite inderogabile alla libera e piena esplicazione della libertà di contrattazione collettiva, era costituzionalmente illegittima, per violazione degli artt. 4, 18, 39 e 117 della Costituzione.

         1.3.2.– Nel domandare, quindi, alla Corte di ritenere fondata la prospettata questione, la deducente sottolinea, in ordine alla sua rilevanza, che il ricorso contro di essa proposto, una volta espunta dall’ordinamento la norma regionale, dovrebbe essere rigettato per mancanza di qualsivoglia base normativa.

         1.4.– La Regione Lombardia è intervenuta nel giudizio ed ha successivamente depositato memoria, eccependo preliminarmente la manifesta inammissibilità, per difetto di rilevanza, del sollevato dubbio di costituzionalità e, in subordine, la sua infondatezza nel merito.

         1.4.1.– Ripercorsi i tratti salienti dell’evoluzione della disciplina degli enti operanti nel campo della beneficenza e dell’assistenza, ricorda l’esponente che il d.lgs. n. 207 del 2001, dopo avere espressamente affermato la natura privatistica del rapporto di lavoro dei dipendenti delle ASP (art. 11), nulla prevede circa la natura e il contenuto di quello del personale delle seconde.

         La legge della Regione Lombardia n. 1 del 2003, si sarebbe adeguata alle grandi linee di tale riforma e, oltre a disciplinare compiutamente le modalità di trasformazione delle IPAB in ASP o in persone giuridiche di diritto privato, avrebbe dettato regole relative al rapporto di lavoro e allo status del personale sia delle une che delle altre, così ovviando al silenzio serbato sul punto dal legislatore statale. Si tratterebbe, peraltro, di norme – compresa quella censurata – che, inserite quali emendamenti al progetto di legge (a seguito di un accordo intercorso tra l’assessore regionale alla Famiglia e Solidarietà sociale e le federazioni regionali di categoria), si preoccuperebbero del destino del personale degli enti che subiscono la trasformazione, in un’ottica volta a salvaguardare la continuità del rapporto di lavoro e l’intangibilità delle posizioni acquisite.

         La norma denunciata, infatti, sarebbe volta ad introdurre specifiche garanzie a favore dei lavoratori assunti successivamente alla trasformazione, sia garantendo alle organizzazioni sindacali un ruolo attivo in parte qua, sia evitando disparità di trattamento tra neo-assunti e lavoratori già occupati.

         1.4.2.– Sulla base di tali premesse, sostiene la deducente la manifesta inammissibilità della proposta questione, e per omessa motivazione sulla rilevanza, solo apoditticamente affermata, e, comunque, per evidente difetto di rilevanza, dal momento che il denunciato carattere antisindacale della condotta tenuta dal datore di lavoro consisteva nel non aver provveduto ad instaurare l’attività di contrattazione decentrata prescritta dalla legge regionale e pertanto – escluso ogni profilo sostanziale – nell’inosservanza della procedura prevista dalla norma regionale.

         1.4.3.– La sollevata questione sarebbe, in ogni caso, infondata nel merito.

         Quanto alla prospettata lesione dell’art. 39 Cost., osserva l’interveniente che, a prescindere dagli aspetti paradossali della censura – volta a denunciare per violazione della libertà sindacale una disposizione voluta dagli stessi sindacati –, costituirebbe ormai ius receptum l’inesistenza di un’assoluta riserva, in favore dell’autonomia collettiva, della competenza a disciplinare i rapporti di lavoro, essendo del tutto pacifico che questi ben possono essere regolamentati, in via confermativa o concorrente, da norme primarie, cui spetta anzi il compito di assicurare la tutela minima del lavoratore. Del resto, posto che il Giudice delle leggi ha ripetutamente riconosciuto la costituzionalità di interventi normativi volti a integrare o modificare i contratti collettivi, con interventi su specifici aspetti della disciplina concordata dalle parti (sentenze n. 419 del 2000, n. 697 del 1988 e n. 141 del 1980), dovrebbe, a maggior ragione, essere sostenuta la legittimità di una disposizione che, come quella censurata, si limiti a circoscrivere l’area dei contratti collettivi tra i quali, in sede di contrattazione decentrata, va individuato quello da applicare ai rapporti presi in considerazione.

         Né potrebbe ignorarsi, nello scrutinio di costituzionalità, da un lato, la valenza delle finalità perequatrici perseguite dalla norma, e, dall’altro, il suo carattere transitorio, e cioè applicabile «fino alla determinazione di un autonomo comparto di contrattazione».

         Quanto al presunto contrasto con l’art. 117 Cost., osserva la deducente che «una legislazione regionale di contorno, che non viola l’autonomia collettiva, ma anzi ne incorpora la volontà», come quella censurata, dovrebbe considerarsi inerente alla competenza regionale in materia di «tutela e (sicurezza) del lavoro».

         In ogni caso, sarebbe del tutto irragionevole e irrealistico ritenere che le Regioni – alle quali la riforma del titolo V della Costituzione ha attribuito competenza legislativa esclusiva in materia di servizi e assistenza sociale – debbano limitarsi a regolamentare esclusivamente le attività socio-assistenziali, astenendosi da qualunque riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro del personale dipendente degli enti cui ne è demandato lo svolgimento.

         Sottolineato che la disposizione impugnata non incide su rapporti di natura privatistica e, in particolare, sui contenuti del rapporto di lavoro, la Regione conclude osservando che, esclusa la violazione dell’art. 39 Cost., sarebbe da negare anche quella dell’art. 117, secondo comma, Cost., in quanto, se il contenuto dei contratti non è intaccato dalla legge regionale, neppure sarebbe violata la competenza esclusiva statale in punto di disciplina del rapporto di lavoro.

         1.5.– Nel giudizio di costituzionalità è altresì intervenuta la F.P.S. CISL – Federazione Pubblici Servizi della Regione Lombardia, che, affermata la propria legittimazione a intervenire in quanto firmataria dell’accordo stipulato in data 18 novembre 2002 con l’Assessore regionale alla Famiglia e alla Solidarietà sociale – accordo che ha portato alla formulazione della disposizione poi trasfusa nel comma 13 dell’art. 18 della legge della Regione Lombardia n. 1 del 2003 – ha insistito per la declaratoria di inammissibilità, o in subordine di infondatezza, della proposta questione, esponendo argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle svolte dalla F.P.S. CISL – Federazione Pubblici Servizi della Provincia di Lecco.

         2.– Con ordinanza del 3 giugno 2005 anche il Tribunale di Mantova ha sollevato, in riferimento agli artt. 18, 39, 41 e 117 Cost., nonché «al principio di razionalità desumibile dall’art. 3 Cost.», questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 13, secondo periodo, della medesima legge Regione Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1.

         2.1.1.– Espone il rimettente che, con ricorso del 17 dicembre 2004, la Fondazione Isabella di Gonzaga aveva proposto opposizione avverso il decreto, reso ex art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, contenente la sua condanna a contrattare con il sindacato ricorrente la scelta del contratto collettivo da applicare ai rapporti di lavoro del personale assunto successivamente al 1° gennaio 2004, data della sua trasformazione da IPAB a fondazione di diritto privato.

         Nel contestare la pronuncia del giudice del lavoro, l’opponente aveva affermato che essa era fondata sull’erroneo presupposto che tale contrattazione fosse imposta dal contratto collettivo nazionale UNEBA (art. 5), associazione di categoria cui essa aderiva, e comunque dall’art. 18, comma 13, della legge regionale n. 1 del 2003 da ritenersi, in parte qua, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 117, 39, 18 e 41 Cost.

         Dal canto suo l’opposto sindacato – ribadita l’antisindacalità della condotta dell’opponente, per avere la stessa applicato, ai dipendenti assunti successivamente alla trasformazione, in modo unilaterale, il contratto collettivo nazionale UNEBA – aveva affermato la piena conformità alla Costituzione della norma che tale contrattazione imponeva, insistendo per il rigetto della opposizione.

         2.1.2.– Tanto premesso, osserva il rimettente, in punto di rilevanza della proposta questione, che non è condivisibile l’argomentazione difensiva della Fondazione, secondo cui la contrattazione prevista dalla disposizione censurata sarebbe avvenuta, a livello nazionale, con la conclusione del contratto UNEBA (alla cui stipulazione aveva  partecipato la stessa CGIL), e che, attraverso la ricezione dello stesso, essa avrebbe in sostanza adempiuto agli obblighi imposti dal menzionato art. 18, comma 13, della legge regionale n. 1 del 2003: in realtà, oggetto della predetta norma è la previsione di una contrattazione a livello decentrato, volta a individuare, fra diversi contratti collettivi già stipulati a livello nazionale, tutti astrattamente applicabili al rapporto, quello da osservare in concreto.

         Neppure sarebbe fondato il rilievo secondo cui il contratto UNEBA si porrebbe quale unica regolamentazione pattizia applicabile ai rapporti di lavoro oggetto di controversia, e cioè ai rapporti di lavoro di diritto privato nel settore assistenziale, sociale e socio-sanitario: tale previsione – anche a prescindere dall’esistenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili alla fattispecie – andrebbe pur sempre intesa nei limiti dell’efficacia soggettiva del contratto limitata ai partecipanti all’UNEBA, in conformità al principio generale per cui i contratti collettivi vincolano solo gli aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti.

         Né avrebbe peso il mancato avvio della contrattazione integrativa decentrata a livello aziendale, prevista dal contratto UNEBA, perché tale doglianza presuppone l’applicabilità del contratto prescelto, laddove ciò di cui in primis si duole il ricorrente è, a monte, l’unilateralità della scelta compiuta dalla Fondazione.

         In tale contesto – argomenta il giudice a quo – non può negarsi che la soluzione della controversia dipende dalla vigenza o meno della norma nell’ordinamento: e invero, sussistendo tutti i presupposti fattuali della sua applicazione – qualità soggettiva del datore di lavoro; assunzione dei lavoratori dopo la sua trasformazione; mancato avvio della contrattazione decentrata circa il contratto collettivo applicabile a tali rapporti – l’affermazione della conformità della disposizione censurata alla Costituzione e, quindi, la declaratoria di infondatezza della prospettata questione, comporterebbe quella dell’antisindacalità della condotta denunciata, mentre, l’esito positivo dello scrutinio imporrebbe il rigetto della domanda attrice.

         2.1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità, secondo il rimettente la materia regolamentata dalla norma impugnata rientrerebbe nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.

         E invero, posto che le disposizioni che disciplinano il rapporto di lavoro rientrano pur sempre nell’ambito del diritto civile, costituendo anzi un diritto civile speciale, la norma censurata, in quanto volta alla regolamentazione del rapporto di lavoro, e segnatamente delle modalità di applicazione dei contratti collettivi ai singoli rapporti, violerebbe la menzionata riserva di competenza dell’ordinamento civile alla legge statale, secondo un  ordine di idee ripetutamente condiviso dalla Corte costituzionale (sentenze n. 50 del 2005, n. 379 del 2004, n. 359 del 2003).

         Posto poi che i contratti collettivi, malgrado la loro asserita funzione «normativa nei confronti di tutti i datori di lavoro che sono o diventeranno parte di singoli contratti», sono pur sempre contratti di diritto comune, la norma regionale censurata si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 39 Cost., sotto il profilo della violazione della libertà sindacale.

         Oggetto di garanzia costituzionale sarebbe, infatti, oltre che la libertà di agire dei sindacati per la salvaguardia dei diritti dei lavoratori, la tutela dell’organizzazione sindacale, ivi compresa quella relativa alla produzione contrattuale, dalle interferenze dei pubblici poteri: libertà della quale sarebbero titolari sia individualmente i singoli soggetti sia l’associazione nel suo complesso, sia i datori di lavoro, sia i lavoratori, secondo un approccio che trova conforto in alcune convenzioni internazionali, tra cui l’art. 28 della Carta fondamentale dei diritti dell’UE, oltre che in pronunce del Giudice delle leggi.

         La norma censurata sarebbe, pertanto, lesiva dell’evocato art. 39 Cost., sotto il profilo che essa impone alle parti l’obbligo di negoziare la scelta del contratto collettivo applicabile a determinati rapporti, per violazione della libertà dei singoli datori di lavoro di aderire ad un’associazione di categoria e di fare proprie le statuizioni del contratto collettivo nazionale dalla stessa concluso: essa li obbligherebbe, in sostanza, ad applicare un contratto anche diverso da quello dell’associazione di appartenenza, o comunque ad applicare un contratto collettivo, tra quelli esistenti, pur in mancanza di adesione a qualsivoglia organizzazione sindacale. Invece, la libertà sui termini e sui modi della contrattazione collettiva sfuggirebbe a ogni intervento eteronomo, poiché l’autosufficienza dell’ordinamento sindacale imporrebbe alla Stato di astenersi dal legiferare in parte qua, se non per garantire la libertà di esplicazione dell’attività sindacale, dovendo eventuali interventi nella regolazione del rapporto di lavoro comunque svolgersi in via del tutto eccezionale, in modo da non ledere l’autonomia delle parti nella composizione delle dinamiche contrattuali.

         Tali presupposti sarebbero insussistenti nella fattispecie, tanto più che il preteso carattere transitorio della norma sarebbe vanificato dalla oscurità della sua formulazione.

         In ogni caso, le argomentazioni svolte con riferimento all’art. 39 Cost., ben si presterebbero anche a sorreggere una censura di incostituzionalità per contrasto con il principio della libertà di associazione, in collegamento con quello di iniziativa economica, di cui agli artt. 18 e 41 Cost., ove il fondamento dei diritti dei datori di lavoro, nei termini innanzi precisati, venisse in tali norme rinvenuto.

         Infine, la norma censurata imponendo una scelta  condivisa del contratto collettivo da applicare a determinati rapporti di lavoro, senza nulla prevedere in caso di mancato accordo, violerebbe altresì il principio di razionalità di cui all’art. 3 Cost.

         2.2.– Si è costituita, ed ha poi depositato memoria, la Fondazione Isabella Gonzaga O.N.L.U.S., che ha chiesto alla Corte di dichiarare fondata la sollevata questione di legittimità costituzionale.

         2.2.1.– Quanto alla violazione dell’art. 117 Cost., la parte privata osserva che una legge regionale che subordina l’applicazione di CCNL volti a disciplinare certi rapporti all’intervento di accordi decentrati e che mira ad estendere a un’area squisitamente privatistica le regole concorsuali sull’accesso, sulla progressione delle carriere e sul procedimento disciplinare, tipiche dell’area del pubblico impiego, incidendo altresì sulle regole dettate dall’art. 2070 del codice civile, contrasta con la natura privatistica dei contratti collettivi, con la loro pacifica soggezione alle disposizioni codicistiche, nonché col costante insegnamento del Giudice delle leggi, secondo cui è interdetto al legislatore regionale introdurre modifiche in materie e rapporti regolati dal codice civile.

         Del resto, è opinione ormai unanimamente accolta che l’art. 39 Cost. dia copertura costituzionale al principio secondo cui l’ordinamento delle relazioni sindacali è esente da qualsiasi forma di controllo o ingerenza estranea e che la libertà sindacale «non investe solo le forme di aggregazione», ma si estende all’organizzazione della «attività di produzione contrattuale», di modo che la libertà sui termini e sui modi della contrattazione collettiva sfuggirebbe a ogni intervento eteronomo, anche della legge ordinaria.

         La libertà di cui all’art. 39 Cost. sarebbe, altresì, indebitamente coartata sotto il profilo del vincolo apposto dalla legge regionale al tipo e all’identità del CCNL da applicare, dovendosi necessariamente optare tra i «contratti in essere» e i «contratti compatibili e omogenei con quelli applicati al personale in servizio», e cioè, in definitiva, tra contratti parametrati sul comparto pubblico, malgrado l’intervenuto mutamento della natura giuridica dell’ente e senza che tale soluzione possa ritenersi giustificata dall’esigenza di garantire ai nuovi assunti eventuali condizioni di maggior favore previste dai contratti previgenti all’assunzione: è, infatti, assolutamente pacifica la possibilità di modificare in peius i trattamenti previsti in sede di contrattazione collettiva nonché la necessità, in caso di trasformazione di un ente da pubblico a privato, che la disciplina del rapporto sia desunta dai CCNL stipulati dopo la privatizzazione e non già dal regime giuridico anteriore.

         In definitiva, la Fondazione opponente, dopo la stipulazione, da parte dell’UNEBA – cui essa aderisce –, di un CCNL per l’area degli enti assistenziali privati, tra i quali rientrano le ex IPAB, potrebbe trovarsi ad applicare, per effetto della norma censurata, un contratto collettivo alla cui formazione non ha mai partecipato, essendo la sottoscrizione di quelli dell’area pubblica per legge riservata all’ARAN.  E tanto in contrasto con gli artt. 18, 39 e 41 Cost., secondo cui i CCNL devono essere conclusi tra organi realmente rappresentativi.

Considerato in diritto

         1.– I Tribunali di Lecco e di Mantova sollevano questione di legittimità costituzionale – in riferimento, il primo, agli artt. 18, 39 e 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione, il secondo anche in riferimento agli artt. 3 e 41 – dell’art. 18, comma 13, secondo periodo, della legge Regione Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1 (Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza operanti in Lombardia), nella parte in cui dispone che al personale assunto successivamente alla trasformazione delle IPAB in persone giuridiche di diritto privato, «in sede di contrattazione decentrata, è stabilita l’applicazione di contratti in essere o di contratti compatibili ed omogenei con quelli applicati al personale già in servizio».

         2.– Avendo le questioni, sollevate dalle due ordinanze, ad oggetto la medesima norma ed essendo analoghe le argomentazioni svolte a sostegno del dubbio di legittimità costituzionale, i due giudizi devono essere riuniti.

         3.– Preliminarmente, deve essere dichiarata l’inammissibilità dell’intervento spiegato nel giudizio n. 978 del 2004 dalla F.P.S. CISL della Regione Lombardia, dal momento che le associazioni di categoria «non sono titolari di un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente» dalla pronuncia di questa Corte (sentenze n. 279 del 2006 e n. 341 del 2003).

         4.– L’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale di Lecco è fondata.

         L’ordinanza de qua, infatti, non motiva in alcun modo sulla rilevanza di una questione che – sorta in un procedimento nel quale si denunciava come antisindacale la condotta datoriale consistita nell’inosservanza dell’obbligo di «confrontarsi» con le organizzazioni sindacali – viene dal rimettente posta esclusivamente in termini di contratto collettivo da applicare ai dipendenti assunti dopo la privatizzazione, e cioè senza alcun riferimento alla disciplina procedimentale che costituiva l’oggetto del giudizio ex art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300.

         5.– La questione sollevata dal Tribunale di Mantova è fondata.

         5.1.– Il giudice rimettente – dopo aver esposto, con motivazione esauriente, le ragioni per le quali l’esito del giudizio di opposizione al decreto di repressione della condotta antisindacale dipende dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale della norma regionale censurata – osserva come, con tale norma, la Regione abbia dettato una disciplina propria dell’ordinamento civile, riservato alla legislazione statale dall’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione, in quanto l’intervento legislativo regionale sarebbe «volto alla regolamentazione del rapporto di lavoro, e segnatamente delle modalità di applicazione dei contratti collettivi ai singoli rapporti».

         Aggiunge che la norma regionale violerebbe anche l’art. 39 Cost., in quanto «impone alle parti l’obbligo di negoziare la scelta del contratto collettivo applicabile a determinati rapporti, in violazione della libertà dei singoli datori di lavoro di aderire ad un’associazione di categoria e di fare proprie le statuizioni del contratto collettivo nazionale dalle stesse concluso»; ciò che inciderebbe anche sulla libertà di associazione (art. 18 Cost.) in collegamento con la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).

         La disciplina, infine, sarebbe manifestamente irragionevole (art. 3 Cost.) in quanto nulla prevede per l’ipotesi di mancata intesa.

         5.2.– Il primo periodo, non censurato, del comma 13 dell’art. 18 della legge regionale n. 1 del 2003 dispone – svolgendo i princîpi fissati dall’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207 (Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, a norma dell’art. 10 della L. 8 novembre 2000, n. 328) – che «al personale delle IPAB che si trasformano in persone giuridiche di diritto privato, in servizio alla data di trasformazione, si applicano i contratti in essere»: in tal modo prevedendo – «fino alla determinazione di un autonomo comparto di contrattazione» – l’ultrattività dei contratti collettivi «pubblicistici» vigenti al momento della trasformazione delle IPAB in persone giuridiche di diritto privato.

         Il secondo periodo del medesimo comma 13 – all’evidente scopo di evitare che i rapporti di lavoro instaurati dopo la trasformazione siano disciplinati sulla base di contratti collettivi profondamente diversi da quelli «pubblicistici» applicati ai vecchi dipendenti – impone ai datori di lavoro di negoziare «in sede di contrattazione decentrata» la scelta del contratto collettivo da applicare ai neo-assunti, se «contratti collettivi in essere o contratti compatibili ed omogenei con quelli applicati al personale già in servizio».

         5.3.– Al fine di individuare la materia, tra quelle contemplate dall’art. 117 Cost., alla quale ricondurre la disciplina in esame, questa deve essere considerata per ciò che dispone, e non già in base alle finalità perseguite dal legislatore: criterio che si impone, in particolare, quando venga in rilievo una materia – quale quella della «tutela del lavoro» – la cui stessa denominazione include il concetto di fine, e che per ciò solo sarebbe in grado di riferirsi a qualsiasi disciplina avente ad oggetto il lavoro.

         Se, pertanto, il legislatore regionale ha perseguito una finalità riconducibile all’intento (generico) di «tutelare il lavoro» dei neo-assunti, lo strumento utilizzato – l’obbligo di contrattare – attiene certamente all’ordinamento civile, in quanto si risolve nel vincolo, imposto ad un soggetto privato, di tenere un comportamento prescritto dalla legge e, quindi, in un vincolo destinato ad incidere sul suo potere di autodeterminarsi.

         Per pervenire alla conclusione che la norma censurata attiene alla materia dell’ordinamento civile non occorre stabilire se la legge regionale imponga anche un’obbligazione di risultato, e cioè pretenda di condizionare altresì la scelta del contratto collettivo da applicare e, sia pure indirettamente, il contenuto di esso; è qui sufficiente rilevare che la norma censurata certamente crea un procedimento negoziale – al quale il datore di lavoro è obbligato a partecipare prima di poter scegliere il contratto collettivo da applicare – le cui controparti (le organizzazioni sindacali del pubblico impiego) sono autoritativamente individuate.

         La circostanza che l’inosservanza di tale obbligo – di contrattare con quelle controparti – sia sanzionabile come lesivo della libertà sindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, e cioè del ruolo che l’ordinamento riconosce ai sindacati dei lavoratori, conferma la natura dell’obbligazione in tal modo creata in capo al datore di lavoro.

         5.4.– La norma censurata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, con assorbimento delle altre censure, attraverso le quali si pongono tematiche che, espunta la legge regionale, sono estranee al giudizio, in quanto investono la possibilità che una qualsiasi legge, e quindi anche statale, contenga analoghe disposizioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

         riuniti i giudizi,

         1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato, nel giudizio R.O. n. 978 del 2004, da F.P.S. CISL – Federazione Pubblici Servizi della Regione Lombardia;

         2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 13, secondo periodo, della legge Regione Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1 (Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza operanti in Lombardia);

         3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 13, secondo periodo, della medesima legge, sollevata, in riferimento agli artt. 18, 39 e 117, comma secondo, lettera l), della Costituzione, dal Tribunale di Lecco con l’ordinanza in epigrafe.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2006.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Romano VACCARELLA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2006.