Sentenza n. 223 del 2006

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SENTENZA N. 223

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale                 MARINI                                                        Presidente

- Franco                     BILE                                                                Giudice

- Giovanni Maria       FLICK                                                                   ”

- Francesco                AMIRANTE                                                         ”

- Ugo                         DE SIERVO                                                         ”

- Romano                  VACCARELLA                                                   ”

- Paolo                       MADDALENA                                                    ”

- Alfio                       FINOCCHIARO                                                  ”

- Alfonso                   QUARANTA                                                        ”

- Franco                     GALLO                                                                 ”

- Luigi                       MAZZELLA                                                         ”

- Gaetano                  SILVESTRI                                                          ”

- Sabino                     CASSESE                                                             ”

- Maria Rita               SAULLE                                                               ”

- Giuseppe                 TESAURO                                                            ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 12 settembre 2005 dalla Corte d’appello di Catanzaro, Sezione feriale, iscritta al n. 561 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2005.

            Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nella camera di consiglio del 17 maggio 2006 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. ― Con ordinanza del 12 settembre 2005 la Corte d’appello di Catanzaro, Sezione feriale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui dispone che i termini di durata complessiva della custodia cautelare siano commisurati ai valori edittali di pena propri del reato per cui si procede, e non invece «alla concreta punibilità dell’illecito, nei termini già ritenuti in sentenza».

Nel giudizio a quo si procede nei confronti di persona imputata del delitto punito dall’art. 416-bis, primo comma, del codice penale, con l’aggravante di cui al quarto comma della stessa norma, trattandosi nella specie di associazione «armata».

Secondo quanto riferito dal rimettente, con la sentenza di condanna pronunciata in esito al giudizio di primo grado sono state riconosciute in favore dell’imputato le circostanze attenuanti generiche, dichiarate equivalenti all’aggravante contestata, ed è stata inflitta la pena di quattro anni di reclusione. Il provvedimento è stato poi confermato dal giudice di appello con sentenza del 7 giugno 2005.

Successivamente l’imputato ha proposto istanza di scarcerazione, ai sensi dell’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., per l’asserita decorrenza del termine di durata complessiva della custodia cautelare, indicato in due anni a partire dall’esecuzione del provvedimento restrittivo, iniziata il 7 gennaio 2003. Secondo la difesa, dopo la pronuncia della sentenza di condanna, il delitto per cui «si procede» (in relazione al quale vanno misurati i termini a norma del comma 4 dell’art. 303 cod. proc. pen.) non sarebbe più quello contestato mediante il provvedimento cautelare, ma quello effettivamente ritenuto dal giudice con la decisione di merito. In particolare, ove un’aggravante venga «eliminata» per effetto della comparazione con circostanze di segno opposto, il reato «ritenuto in sentenza» si ridurrebbe alla forma semplice, e la fissazione del termine finale per la custodia dovrebbe rapportarsi ai corrispondenti valori di pena.

Il rimettente osserva che l’adozione del criterio indicato implicherebbe, nel caso di specie, l’applicazione della lettera a) del comma 4 dell’art. 303 cod. proc. pen., che fissa in due anni il termine massimo della custodia per i reati puniti con la pena della reclusione non superiore ai sei anni (qual è la fattispecie non aggravata di associazione di tipo mafioso), mentre, guardandosi ai valori di pena del reato associativo in forma aggravata (reclusione da quattro a dieci anni), troverebbe applicazione la lettera b) della norma citata, che contempla un termine massimo di quattro anni.

Il giudice a quo ritiene, per altro, che il computo del termine generale di durata della custodia debba essere operato, anche dopo la sentenza di merito, secondo i criteri fissati nell’art. 278 cod. proc. pen., essendo tale norma dettata, in generale, con riguardo «agli effetti della applicazione delle misure» cautelari. Per quanto attiene alle circostanze del reato, dunque, assumerebbero rilevanza le sole aggravanti ad effetto speciale e la sola attenuante di cui all’art. 62, numero 4, cod. pen. Le statuizioni della sentenza di condanna concernenti il riconoscimento di altre attenuanti, ed il connesso giudizio di equivalenza o prevalenza sulle aggravanti contestate, resterebbero invece privi di rilievo ai fini che interessano, così come ritenuto nel “diritto vivente” (che il giudice a quo ricostruisce richiamando alcuni precedenti conformi della Corte di cassazione).

Una tale disciplina, a parere del rimettente, contrasta con il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.), «in combinazione con la intrinseca ragionevolezza e con la globale coerenza del sistema, ex art. 3 Cost.».

Ritiene il giudice a quo che la detenzione cautelare si giustifichi in una prospettiva di prognosi circa l’affermazione della responsabilità e la portata della conseguente sanzione, e che detta prognosi debba essere aggiornata ad ogni passaggio di fase del procedimento, rapportandosi all’attualità della situazione giuridica da valutare. Tale principio sarebbe disatteso da una disciplina che «estende» gli effetti della contestazione oltre la pronuncia del giudice, trascurando il dato della «concreta punibilità del reato ritenuto in sentenza». Sarebbe invece necessario valorizzare «non soltanto il titolo del reato, ma ogni elemento, sia pure accidentale, che ne determini e ne precisi in concreto la entità materiale o giuridica, quali le circostanze», con conseguente rilevanza di tutte le attenuanti ritenute in sentenza e dell’esito del relativo giudizio di comparazione con le aggravanti.

Il rimettente osserva che la disposizione censurata sarebbe incongrua rispetto al criterio che regola il sistema dei termini di fase, a partire dalla sentenza di primo grado, non più sulla qualificazione dei fatti ma sull’entità della pena inflitta (art. 303, comma 1, lettere c e d, cod. proc. pen.), così ragguagliando la durata della custodia alla «concreta offensività e punibilità» della condotta illecita. La legge dovrebbe fare analoga applicazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza riguardo ai termini complessivi, collegando i relativi criteri di misurazione, dopo la sentenza di merito, al giudizio già formulato di concreto disvalore del fatto.

2. ― Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito con atto depositato il 19 dicembre 2005, sollecitando una dichiarazione di inammissibilità o infondatezza della questione.

3. ― Nella data del 14 febbraio 2006 l’Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria difensiva, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già formulate. Secondo la difesa erariale la norma impugnata, una volta collocata nel sistema complessivo dei termini di durata della custodia cautelare, risulta pienamente razionale. Il rilievo conferito al bilanciamento delle circostanze ex art. 69 cod. pen., infatti, comporterebbe l’incidenza di una eccessiva discrezionalità nel computo dei termini regolati dal comma 4 dell’art. 303 del codice di rito. Con riguardo ai termini di fase, d’altra parte, la contestazione formale perde di rilievo dopo la prima sentenza di condanna, a partire dalla quale la durata della custodia viene correlata alla pena concretamente inflitta all’interessato. L’eccezione riguardante i casi di doppia condanna – per i quali, secondo l’ultima parte della lettera d) del comma 1 dell’art. 303 cod. proc. pen., si applicano solo i termini di chiusura fissati al successivo comma 4 della stessa norma – sarebbe giustificata dalla particolare attendibilità assunta, nella specie, dalla prognosi di condanna irrevocabile. Il rischio di un prolungamento sproporzionato della restrizione di libertà sarebbe infine escluso, anche con riferimento ai termini generali, dalla norma che preclude in ogni caso una custodia cautelare eccedente la durata della pena concretamente inflitta all’imputato (art. 300, comma 4, cod. proc. pen.).

Considerato in diritto

1. ― La Corte d’appello di Catanzaro dubita della legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui dispone che i termini di durata complessiva della custodia cautelare siano commisurati ai valori edittali di pena propri del reato per cui si procede, e non invece «alla concreta punibilità dell’illecito, nei termini già ritenuti in sentenza».

2. ― La questione è inammissibile.

Il giudice rimettente chiede a questa Corte la pronuncia di una sentenza additiva, volta ad introdurre nel sistema processuale penale un criterio di computo della durata massima della custodia cautelare nuovo e diverso rispetto a quelli attualmente regolati dalla legge.

L’art. 303 del codice di rito, oggetto di censura nel presente giudizio, prevede infatti due metodi di calcolo, riferiti a fasi e situazioni processuali diverse, secondo precise scelte del legislatore.

Il primo fa riferimento, ai sensi dell’art. 278 cod. proc. pen., alla pena edittale prevista per il reato in contestazione, senza tener conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze, fatta eccezione dell’aggravante di cui all’art. 61, numero 5, del codice penale e dell’attenuante di cui all’art. 62, numero 4, dello stesso codice, nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle ad effetto speciale.

Il secondo criterio è basato invece sulla pena concretamente irrogata con la sentenza di primo grado o di appello, e si applica ovviamente nelle fasi processuali successive alle suddette pronunce.

Il giudice a quo chiede, in sostanza, che la Corte introduca un terzo criterio di computo, valido solo per il termine complessivo (quello cioè che la custodia – ai sensi del comma 4 dell’art. 303 cod. proc. pen. – non può superare, quali che siano le concrete vicende processuali e la fase in cui si trova il giudizio). Tale criterio, infatti, non si baserebbe sulle regole fissate nell’art. 278 cod. proc. pen. (ove viene esclusa, tra l’altro, la rilevanza di quasi tutte le circostanze attenuanti comuni), e neppure sulla pena concretamente irrogata in primo grado o in appello. Dovrebbe tenersi conto, piuttosto, di ogni aspetto della qualificazione giuridica del fatto determinata dal giudice mediante la propria sentenza, anche con riguardo a profili irrilevanti per la disposizione generale di cui al citato art. 278 cod. proc. pen.

Una tale qualificazione giuridica, essendo verosimilmente più approssimata alla realtà perché frutto della verifica operata nel processo, sarebbe, secondo il giudice a quo, base più idonea per il calcolo del termine massimo di custodia cautelare di quanto lo sia quella attualmente prevista dall’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., che viene pertanto denunciato come lesivo dell’art. 13 in combinazione con l’art. 3 Cost., in quanto in contrasto con i principi di adeguatezza e di proporzionalità.

Pur non disconoscendo che una modifica dell’attuale normativa potrebbe razionalizzare i criteri di computo, allo scopo di attuare in modo migliore l’adeguatezza e la proporzionalità della custodia cautelare rispetto al reato per cui concretamente si procede, questa Corte deve constatare che un intervento additivo come quello richiesto dal giudice rimettente avrebbe lo scopo e l’effetto di introdurre una nuova metodologia di computo, rispetto a quelle, non palesemente irragionevoli, previste dal vigente codice di rito.

Il legislatore infatti, prevedendo un termine di durata della custodia cautelare riferito all’intero svolgimento del giudizio, ha utilizzato un criterio astratto (quello dei valori di pena), anche perché detto termine può maturare in una qualunque fase processuale, ritenendo invece che all’interno delle singole fasi, dopo la pronuncia della relativa sentenza, il calcolo dovesse essere legato alla pena in concreto irrogata dal giudice.

Questa scelta di fondo è bilanciata da altre disposizioni, che determinano un equilibrio assai delicato.

L’ultimo inciso della lettera d) del comma 1 dell’art. 303 cod. proc. pen. prevede, per l’ipotesi (ricorrente nel giudizio a quo) di condanna in primo grado confermata in appello, e per quella di appello del solo pubblico ministero, che la durata massima della custodia, in ragione della probabilità particolarmente elevata di una condanna in via definitiva, si commisuri al termine complessivo, incentrato sui valori edittali della sanzione, e non sull’ordinario termine endofasico che segue la sentenza di appello.

Da rilevare, per altro verso, che l’art. 300, comma 4, cod. proc. pen. prevede, come clausola generale di garanzia, che la durata della custodia cautelare non possa mai eccedere l’entità della pena inflitta mediante una o più sentenze non definitive.

3. ― Dall’esposizione che precede si evince che il legislatore ha operato un articolato dosaggio di termini, seguendo i criteri ritenuti più appropriati per le varie fasi ed evenienze processuali, sempre con riferimento alla gravità del reato per cui si procede. Si tratta di un sistema integrato, che non può essere manipolato senza generare squilibri, i quali dovrebbero essere corretti mediante scelte discrezionali di questa Corte, che andrebbero a sovrapporsi a quelle adottate dal legislatore.

L’intervento additivo richiesto comporterebbe una serie di precisazioni normative molto dettagliate, possibili in una revisione legislativa della norma censurata, ma che non possono derivare da una sentenza del giudice delle leggi.

Bisognerebbe ad esempio, una volta trasformata la disposizione censurata nel senso prospettato dal giudice rimettente, stabilire una disciplina specifica per l’ipotesi di regressione del processo alla fase delle indagini preliminari. Occorrerebbe, inoltre, introdurre un’ulteriore addizione normativa per evitare che l’intervento della Corte produca un effetto paradossale, vale a dire una modificazione in malam partem della disciplina vigente. Secondo il criterio invocato dal giudice a quo, infatti, l’eventuale applicazione di aggravanti comuni da parte del giudice, nell’assenza di attenuanti in rapporto di prevalenza o equivalenza, inciderebbe sul computo del termine della custodia, allungandone la durata massima. Attualmente invece, come sopra precisato, le aggravanti comuni, pur ritenute dal giudice con la propria sentenza, restano escluse dal calcolo.

Come risulta evidente, questa Corte verrebbe chiamata a costruire, anche nei dettagli, un nuovo sistema, alternativo a quello vigente.

4. ― Occorre anche considerare, da ultimo, che l’intervento additivo invocato dal giudice rimettente implicherebbe una manipolazione sostanziale della disciplina dettata dall’art. 278 del codice di rito, che, come precisato sopra, definisce il criterio generale di calcolo dei valori di pena ai fini dell’applicazione delle misure cautelari. Ciò avrebbe imposto una censura estesa anche alla norma in discorso, che non è invece oggetto della questione sollevata dal giudice a quo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catanzaro, Sezione feriale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2006.