Sentenza n. 460 del 2005

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SENTENZA N. 460

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Annibale                    MARINI                                            Presidente

-  Franco                       BILE                                                    Giudice

-  Giovanni Maria         FLICK                                                       “

-  Francesco                  AMIRANTE                                             “

-  Ugo                           DE SIERVO                                             “

-  Romano                     VACCARELLA                                       “

-  Paolo                         MADDALENA                                        “

-  Alfio                          FINOCCHIARO                                      “

-  Alfonso                     QUARANTA                                            “

-  Franco                       GALLO                                                     “

-  Luigi                          MAZZELLA                                             “

-  Gaetano                     SILVESTRI                                              “

-  Sabino                       CASSESE                                                 “

-  Maria Rita                 SAULLE                                                   “

-  Giuseppe                   TESAURO                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 51, primo comma, numero 4, del codice di procedura civile, promosso, con ordinanza del 20 settembre 2004, dal Tribunale ordinario di Grosseto, nel procedimento civile vertente tra Francesco Innocenti e la curatela del fallimento di Francesco Innocenti, iscritta al n. 1047 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2005.

 

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

  udito nella camera di consiglio del 16 novembre 2005 il Giudice relatore Romano Vaccarella.

 

Ritenuto in fatto

 

  1.– Nel corso di un giudizio di opposizione a dichiarazione di fallimento, promosso dinanzi al Tribunale ordinario di Grosseto, il giudice istruttore ha sollevato, con ordinanza del 20 settembre 2004, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 51, primo comma, numero 4, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione dal partecipare al giudizio di cui all’art. 18 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), per il magistrato che abbia fatto parte del collegio che ha deliberato la sentenza dichiarativa di fallimento.

 

  1.1.– In punto di fatto, il giudice a quo riferisce che egli aveva partecipato alla deliberazione della sentenza dichiarativa del fallimento di una società in accomandita semplice e del socio illimitatamente responsabile di essa ed era stato, poi, designato dal presidente quale giudice istruttore della causa di opposizione, proposta dal socio fallito ai sensi dell’art. 18 del r.d. n. 267 del 1942 («legge fallimentare»).

 

  1.2.– In punto di diritto, il giudice rimettente osserva che, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità – costituente “diritto vivente”, in quanto consolidato, costante nel tempo e univoco – il magistrato che sia stato componente del collegio che ha deliberato la sentenza dichiarativa di fallimento non è obbligato ad astenersi dal partecipare al giudizio di opposizione avverso la medesima sentenza (Cass. 19 settembre 2000, n. 12410; Cass. 23 ottobre 1998, n. 10527; Cass. 20 febbraio 1978, n. 801).

 

  1.3.– Quanto alla rilevanza della questione, il giudice rimettente osserva che l’eventuale accoglimento della eccezione di incostituzionalità comporterebbe per lui l’obbligo di astensione ai sensi dell’art. 51, primo comma, numero 4, cod. proc. civ.

 

  1.4.– Quanto alla legittimazione a sollevare la questione, il giudice rimettente rileva che la norma denunciata deve essere applicata dal giudice tenuto ad astenersi e non già dal capo dell’ufficio, posto che quest’ultimo, nelle ipotesi di astensione obbligatoria, non ha il potere di autorizzare o meno l’astensione, ma deve solo prenderne atto e provvedere alla sostituzione del giudice astenutosi.

 

  1.5.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ricorda che la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che – sebbene nel processo civile non siano applicabili le regole sulle incompatibilità soggettive per precedente attività tipizzata svolta nello stesso procedimento penale, in considerazione delle particolarità e delle diversità dei sistemi processuali – il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo (sentenze n. 387 del 1999, n. 51 del 1998, n. 326 del 1997).

 

  In particolare, la Corte ha osservato che «esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è solo quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché, condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda» (sentenza n. 387 del 1999).

 

  Orbene, poiché nel processo civile la garanzia dell’imparzialità-terzietà del giudice si attua, per scelta del legislatore, attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, la ratio della disposizione dell’art. 51, primo comma, numero 4, cod. proc. civ. – rileva il giudice rimettente – è quella di evitare che l’itinerario logico già seguito per l’emanazione di un provvedimento sia ripercorso dallo stesso magistrato in sede di gravame, perché ciò lederebbe la garanzia dell’alterità del giudice dell’impugnazione.

 

  Simile esigenza è certamente ravvisabile nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, giacché tale pronuncia è suscettibile di acquistare valore di giudicato.

 

  Sebbene la dichiarazione di fallimento venga emessa al termine di un giudizio a cognizione sommaria, mentre la sentenza sull’opposizione è pronunciata all’esito di un giudizio a cognizione piena, sussiste l’esigenza di garantire la terzietà del giudice dell’opposizione, posto che ciò che rileva a tal fine non è la natura piena o sommaria della cognizione, quanto la funzione decisoria che caratterizza la sentenza di fallimento.

 

  In proposito, il giudice rimettente osserva che la principale argomentazione con cui la dottrina e la giurisprudenza prevalenti escludono per il giudice dell’esecuzione l’obbligo di astenersi dal giudizio di opposizione agli atti esecutivi, avente ad oggetto un provvedimento emesso dallo stesso giudice, è proprio l’assenza di poteri decisori in capo al giudice dell’esecuzione, cui spettano solo poteri ordinatori di direzione e controllo del procedimento esecutivo.

 

  1.6.– Il giudice a quo ritiene che non sia possibile una interpretazione adeguatrice della norma denunciata alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 387 del 1999.

 

  Rileva, infatti, che la Corte di cassazione si è pronunciata successivamente alla citata sentenza e ha ribadito il proprio orientamento circa la non configurabilità neppure in astratto di una incompatibilità fra il giudice che ha dichiarato il fallimento e il giudice dell’opposizione (Cass. 19 settembre 2000, n. 12410), lasciando così intendere di non ritenere estensibili al giudizio ex art. 18 della legge fallimentare le argomentazioni con cui si è sostenuta un’interpretazione costituzionalmente orientata riguardo all’opposizione in materia di repressione della condotta antisindacale, di cui all’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).

 

  Osserva, inoltre, che la richiamata sentenza del giudice delle leggi attribuisce un significato interpretativo fondamentale al dato normativo rappresentato da ciò, che nella disciplina originaria del procedimento di repressione della condotta antisindacale era prevista una prima fase davanti al pretore ed una successiva eventuale fase, a seguito di opposizione, davanti al tribunale, per cui «non si poteva dubitare della sussistenza di una duplicità di fasi processuali, la seconda delle quali avanti al Tribunale assumeva tutte le caratteristiche di un ulteriore grado di giudizio» (così, ancora, la sentenza n. 387 del 1999).

 

  Tale argomentazione non può essere estesa alla fattispecie in esame, in quanto la legge fallimentare ha sempre previsto la competenza del tribunale, in composizione collegiale, e per la dichiarazione di fallimento e per il giudizio di opposizione.

 

  In conclusione, ad avviso del giudice rimettente, la norma denunciata, «secondo l’interpretazione consolidata in termini di diritto vivente, viola gli artt. 24 e 111 della Costituzione per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il profilo di esclusione della terzietà e della imparzialità del giudice».

 

  2.– E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’infondatezza della questione.

 

  La difesa erariale osserva che, se non può sorgere dubbio che vi è incompatibilità in ipotesi di passaggio tra “gradi” del medesimo giudizio, ove per “grado” si intende la duplicazione di valutazioni ricadenti sulla medesima res iudicanda per l’assolvimento di una funzione di controllo propriamente impugnatorio, la questione in esame riguarda, invece, la possibilità di estendere la disciplina dell’art. 51, primo comma, numero 4, cod. proc. civ. all’ipotesi di successione tra mere “fasi” di un unico procedimento, ove per “fase” si intende un fenomeno del tutto diverso dal controllo impugnatorio.

 

  La Corte costituzionale si è più volte pronunciata nel senso di ravvisare incompatibilità del giudice, in materia fallimentare, solo in relazione alla funzione impugnatoria e non anche in ipotesi di mera successione di una fase all’altra nell’ambito del medesimo grado di giudizio.

 

  Così, quanto al reclamo ex art. 26 della legge fallimentare, la Corte ha ritenuto costituzionalmente legittima la partecipazione del giudice delegato alla decisione sul reclamo avverso un suo provvedimento, sul rilievo che il reclamo endofallimentare non è qualificabile come un ulteriore grado di giudizio, in quanto esso «rimane nell’ambito della stessa fase processuale, essendo da considerarsi come un momento dell’iter della procedura concorsuale, le cui peculiarità impongono speciali esigenze di continuità» (sentenza n. 363 del 1998).

 

  Analogamente, quanto al giudizio di opposizione allo stato passivo (artt. 98 e 99 della legge fallimentare), la Corte ha escluso l’incostituzionalità della normativa che investe il giudice delegato dell’istruzione della causa, ribadendo il principio che la continuità interna della procedura deve essere garantita dalla unitarietà del giudicante (sentenze n. 363 del 1998, n. 94 del 1975, n. 158 del 1970; ordinanza n. 304 del 1998). Inoltre, la Corte ha evidenziato come la diversa intensità della cognizione del giudice delegato nella fase di verifica dei crediti, sommaria e «fondata su materiale probatorio di natura esclusivamente cartolare» (ordinanza n. 167 del 2001), rispetto a quella piena del successivo giudizio di opposizione, non solo dimostra che essa non ricade sulla medesima res iudicanda, ma conferma la natura non impugnatoria della seconda fase.

 

  Le medesime argomentazioni – ad avviso dell’Avvocatura – si attagliano all’opposizione alla dichiarazione di fallimento, essendo questa pronunciata all’esito di un procedimento sommario, mentre la sentenza sull’opposizione è emessa all’esito di un giudizio a cognizione piena, che permette l’acquisizione di ulteriori elementi probatori attraverso qualsiasi mezzo di prova nell’ambito di un contradddittorio pieno tra le parti.

 

  Detta opposizione, pertanto, non rappresenta un grado di giudizio ulteriore, ma determina soltanto l’apertura di una fase eventuale a cognizione piena del medesimo giudizio di primo grado, tant’è vero che la sentenza che la definisce è soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione.

 

Considerato in diritto

 

  1.– Il giudice istruttore del Tribunale ordinario di Grosseto dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 51, primo comma, numero 4, del codice di procedura civile, nella parte in cui – stabilendo che «il giudice ha l’obbligo di astenersi» se «ha conosciuto» della causa «come magistrato in altro grado del processo» – non prevede l’obbligo di astensione dal partecipare al giudizio di opposizione di cui all’art. 18 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), per il magistrato che abbia fatto parte del collegio che ha deliberato la sentenza dichiarativa di fallimento, assumendo che ciò comporta «lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il profilo di esclusione della terzietà e della imparzialità del giudice».

 

  2.– La questione non è fondata.

 

  2.1.– Il rimettente – designato dal presidente del tribunale quale giudice istruttore nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, deliberata da un collegio del quale era stato componente – assume che un costante ed univoco indirizzo giurisprudenziale di legittimità gli impedirebbe di astenersi, laddove a tanto sarebbe tenuto in ossequio al principio della terzietà ed imparzialità del giudice di cui agli artt. 24 e 111 Cost.

 

  L’art. 51, primo comma, numero 4, cod. proc. civ. – osserva il rimettente – configura l’obbligo del magistrato di astenersi soltanto se, per quel che interessa in questa sede, egli della causa «ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo»: norma che, secondo il “diritto vivente” costituito da numerose decisioni della Corte di cassazione, non si attaglierebbe all’ipotesi in esame.

 

  2.2.– Va premesso che la norma sull’astensione obbligatoria è costitutiva di un dovere in capo al magistrato che si trovi in una delle situazioni previste dai numeri da 1 a 5 del primo comma dell’art. 51 cod. proc. civ.; dovere a presidio del quale, ove il magistrato non si astenga, la legge prevede che ciascuna parte possa proporre la ricusazione (art. 52 cod. proc. civ.), sulla quale provvede, ove si tratti di uno dei componenti del tribunale, il collegio con ordinanza non impugnabile (art. 53 cod. proc. civ.).

 

  Ove la ricusazione sia respinta o dichiarata inammissibile, la decisione della causa alla quale abbia preso parte il magistrato ricusato può essere impugnata dalla parte ricusante, deducendo che l’erroneità della pronuncia sulla ricusazione è causa della nullità della decisione in quanto emessa da un giudice non imparziale.

 

  Di qui la legittimazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale del magistrato che, designato giudice istruttore, ritenga di trovarsi in una situazione di incompatibilità non espressamente prevista, e tuttavia sostanzialmente identica a taluna di quelle contemplate dall’art. 51, primo comma, cod. proc. civ. (cfr. sentenze n. 71 del 1975 e n. 236 del 1997), ma di qui, anche, l’erroneità del presupposto da cui muove il rimettente.

 

  2.3.– Le sentenze della Corte di cassazione invocate quale “diritto vivente”, in realtà, non hanno posto a fondamento del loro decisum l’inesistenza dell’obbligo di astensione, nel giudizio di opposizione ex art. 18 della legge fallimentare, del magistrato che abbia fatto parte del collegio che ha dichiarato il fallimento opposto.

 

  La più risalente di tali sentenze, in effetti, è relativa ad un’ipotesi nella quale il magistrato era componente di un collegio che aveva respinto l’istanza di fallimento, e non già di quello che, successivamente, lo aveva dichiarato; le più recenti, pur se escludono l’esistenza dell’obbligo di astensione nell’ipotesi qui in esame, in realtà hanno entrambe la loro ratio decidendi in ciò, che la mancata proposizione della ricusazione non consentiva di dedurre l’(asseritamente) illegittima composizione del giudice in sede di impugnazione quale causa di nullità della sentenza.

 

  Non è un caso, peraltro, ma la conferma della inesistenza del “diritto vivente” evocato dal rimettente, che recentemente la Corte di cassazione abbia dichiarato irrilevante la questione di legittimità costituzionale ora in esame quando «la pretesa violazione dell’obbligo di astensione non sia stata fatta valere attraverso una tempestiva e rituale istanza di ricusazione, «atteso che, per non esser stata proposta, nel giudizio di opposizione, un’istanza di ricusazione del giudice, non vi sarebbe alcuna possibilità di far valere l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale come vizio inficiante di nullità ex art. 158 cod. proc. civ. […] la sentenza emessa in quel giudizio» (Cass. 1° luglio 2004, n. 12029).

 

  3.– Ciò posto, non possono essere condivise le ragioni per le quali il rimettente ritiene impraticabile una interpretazione dell’art. 51, primo comma, numero 4, cod. proc. civ., conforme a Costituzione e, in particolare, a quanto questa Corte ha statuito con la sentenza n. 387 del 1999: è inespressiva, per quanto si è appena rilevato sub 2.3, la circostanza che la Corte di cassazione abbia, successivamente alla sentenza n. 387 del 1999, ribadito (in un obiter dictum) il suo orientamento riguardo alla questione qui in esame, ma è altresì inconferente la circostanza che originariamente l’opposizione avverso il decreto emesso dal pretore per la repressione della condotta antisindacale fosse proponibile davanti al tribunale.

 

  Nella sentenza n. 387 del 1999 tale circostanza è sottolineata per dedurne che «la fattispecie rientrava all’evidenza nell’ambito della previsione dell’art. 51, numero 4, cod. proc. civ.» – e cioè quale argomento per l’interpretazione, costituzionalmente corretta (art. 24 Cost.), della locuzione «altro grado del processo» impiegata dal codice – e non certamente quale fondamento della sentenza stessa: ed infatti, premesso che «il rapporto tra le due fasi, sotto il profilo della imparzialità-terzietà del giudice, non può, ora, ritenersi mutato per il semplice sopravvenuto intervento di modifica […] della sola norma di competenza», questa Corte prosegue osservando che la locuzione de qua va intesa «alla luce dei principi che si ricavano dalla Costituzione relativi al giusto processo, come espressione necessaria del diritto ad una tutela giurisdizionale mediante azione (art. 24 della Costituzione) avanti ad un giudice con le garanzie proprie della giurisdizione, cioè con la connaturale imparzialità, senza la quale non avrebbe significato né la soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101 della Costituzione), né la stessa autonomia ed indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, della Costituzione). In altri termini, la espressione “altro grado” non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere – con una interpretazione conforme a Costituzione – anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarità del giudizio di opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario».

 

  Esclusa ogni rilevanza dei pretesi inconvenienti fattuali derivanti dalla interpretazione adottata come l’unica conforme a Costituzione, la sentenza n. 387 del 1999 si fonda, dunque, sulla intrinseca natura impugnatoria della fase che si svolge davanti al medesimo ufficio giudiziario, e ciò per avere il provvedimento soggetto a revisio «una funzione decisoria idonea di per sé a realizzare un assetto dei rapporti tra le parti, non meramente incidentale o strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile – in caso di mancata opposizione – di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato tra le parti»; ed inoltre per essere «la valutazione delle condizioni che legittimano il provvedimento» non divergente, quanto a parametri di giudizio, «da quella che deve compiere il giudice dell’eventuale opposizione, se non per il carattere del contraddittorio e della cognizione sommaria».

 

  3.1.– Alla luce di questi criteri, la fase dell’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento assume certamente «valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae»: non soltanto la sentenza dichiarativa di fallimento, ove non opposta, è idonea a passare in giudicato, non soltanto le condizioni che legittimano il provvedimento sono oggetto di rivalutazione in sede di opposizione, ma proprio la gravità delle conseguenze (non di rado irreversibili) derivanti dalla dichiarazione di fallimento rende evidente come la “sommarietà” della cognizione camerale vada intesa nel senso non già di “parzialità” o “superficialità”, bensì di “deformalizzazione”.

 

  Ove ciò non fosse – se, cioè, la dichiarazione di fallimento potesse seguire ad una cognizione parziale o incompleta, nella quale gli elementi utilizzabili dal giudice per la decisione non fossero assunti nel (sia pur non formalizzato) contraddittorio delle parti (ed in primis del fallendo) – la disciplina legislativa, che consente effetti tanto rilevanti e potenzialmente definitivi, sarebbe di più che dubbia costituzionalità; a fortiori se si considera che l’immediata (dal momento della pronuncia) esecutività della sentenza non può in nessun caso essere sospesa a seguito dell’opposizione e che la revoca lascia «salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi del fallimento» (art. 21 della legge fallimentare).

 

  A ciò si aggiunga che la giurisprudenza di legittimità costantemente qualifica l’opposizione ex art. 18 della legge fallimentare come «impugnazione in senso tecnico», ai fini, tra l’altro, del suo rapporto con il regolamento di competenza (art. 43 cod. proc. civ.), della appellabilità della sentenza che abbia sostituito il fallimento personale a quello dichiarato come socio, del principio della consumazione del mezzo di gravame.

 

  3.2.– E’ appena il caso di ribadire che la sostanziale natura impugnatoria dell’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento non si riscontra, come questa Corte ha già statuito, nel caso dell’opposizione allo stato passivo (caratterizzato da accertamento sommario, incompleto e superficiale: sentenze n. 158 del 1970; n. 94 del 1975; ordinanze n. 304 del 1998; n. 167 del 2001; n. 75 del 2002), del reclamo ex art. 26 della legge fallimentare avverso provvedimenti del giudice delegato (caratterizzato dalle esigenze di continuità dello svolgimento della procedura concorsuale: sentenza n. 363 del 1998), del giudizio promosso dal curatore su autorizzazione del giudice delegato (data sulla base di una mera delibazione di non infondatezza: ordinanza n. 176 del 2001).

 

  Né si riscontra, al di fuori delle procedure concorsuali, nei casi – anch’essi esaminati da questa Corte – di provvedimento cautelare autorizzato ante causam e di successiva cognizione piena in sede di giudizio di merito (sentenza n. 326 del 1997), di decisione emessa ex art. 187-quater cod. proc. civ. (ordinanza n. 168 del 2000), di rinvio cosiddetto restitutorio ex art. 354 cod. proc. civ. (sentenza n. 341 del 1998).

 

  3.3.– In conclusione, l’obbligo di astensione – la cui violazione è idonea a rendere nulla la sentenza per vizio di costituzione del giudice solo se sia tempestivamente proposta la ricusazione e questa venga erroneamente respinta – presuppone, come nell’ipotesi qui in esame, che il procedimento svolgentesi davanti al medesimo ufficio giudiziario sia solo apparentemente “bifasico”, mentre in realtà esso – per le caratteristiche decisorie e potenzialmente definitive del provvedimento che chiude la prima fase e per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi nel rispetto del principio del contraddittorio, ancorché realizzato con modalità deformalizzate – si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di «altro grado del processo».

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

  dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, primo comma, numero 4 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Grosseto con l’ordinanza in epigrafe.

 

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2005.

 

Annibale MARINI, Presidente

 

Romano VACCARELLA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2005.