Ordinanza n. 328 del 2005

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ORDINANZA N. 328

 

ANNO 2005

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

-  Piero Alberto CAPOTOSTI               Presidente

 

-  Fernanda        CONTRI                       Giudice  

 

-  Guido            NEPPI MODONA                “

 

-  Annibale        MARINI                                “

 

-  Franco            BILE                                      “

 

-  Giovanni Maria FLICK                                “

 

-  Francesco       AMIRANTE                         “

 

-  Ugo                DE SIERVO                          “

 

-  Romano         VACCARELLA                   “

 

-  Paolo              MADDALENA                     “

 

-  Alfio              FINOCCHIARO                   “

 

-  Alfonso          QUARANTA                        “

 

-  Franco            GALLO                                 “

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394 (Disposizioni concernenti l'istituzione di un'imposta sul patrimonio netto delle imprese), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 novembre 1992, n. 461, e dell'art. 1 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, nonché dell'art. 3, comma 110, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso con ordinanza datata 16 settembre 2003 e depositata il 3 dicembre 2003 dalla Commissione tributaria regionale della Puglia – sezione staccata di Lecce nella controversia vertente tra l'Agenzia delle entrate, ufficio di Lecce, nei confronti della s.r.l. Poliresine, iscritta al n. 434 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, edizione straordinaria, prima serie speciale, del 3 giugno 2004.

 

  Visti l'atto di costituzione della s.r.l. Poliresine nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

  udito nell'udienza pubblica del 7 giugno 2005 il Giudice relatore Franco Gallo;

 

  udito l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

  Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto l'impugnazione, proposta dalla contribuente s.r.l. Poliresine, del silenzio-rifiuto formatosi sulla richiesta di rimborso di quanto versato dalla società a titolo di imposta sul patrimonio netto dell'impresa per gli anni dal 1992 al 1996, la Commissione tributaria regionale della Puglia – sezione staccata di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale:  a) dell'art. 1 «della legge 26 novembre 1992, n. 461» (recte: del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394, recante “Disposizioni concernenti l'istituzione di un'imposta sul patrimonio netto delle imprese”, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 novembre 1992, n. 461), in riferimento agli artt. 3, 47 e 53 della Costituzione; b) dell'art. 1 della «legge 30 novembre 1994, n. 549» (recte: del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, recante “Disposizioni urgenti in materia fiscale”, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656) e dell'«art. 110» (recte: art. 3, comma 110) della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), in riferimento ai princìpi di ragionevolezza,  di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto;

 

    che, in relazione alla questione sub a), il giudice rimettente deduce l'illegittimità della norma denunciata perché questa, escludendo dall'imposta sul patrimonio netto solo l'utile di esercizio e non anche le riserve di utili, discriminerebbe illegittimamente le società che accantonano a riserva gli utili prodotti, sottoposti all'imposta, rispetto a quelle che, distribuendoli, li sottraggono alla  medesima imposizione;

 

    che la questione sarebbe rilevante, per il giudice a quo, perché, «in particolare negli anni 1993 e 1994, essendosi verificata una perdita d'esercizio di notevole entità a carico» della società, quest'ultima «è risultata non aver proceduto alla distribuzione degli utili, accantonandoli nelle riserve» e rendendoli, di conseguenza, soggetti all'imposta sul patrimonio netto;

 

    che, in relazione alle questioni sub b), il medesimo giudice rimettente ritiene che la natura transitoria e straordinaria dell'imposta sul patrimonio netto delle imprese, originariamente prevista per un solo triennio, contrasti con le due proroghe disposte dalle norme denunciate, le quali avrebbero leso i princìpi evocati come parametri;

 

    che tali questioni sarebbero rilevanti, secondo la Commissione tributaria regionale, perché l'imposta chiesta a rimborso riguarda anche i periodi oggetto delle suddette proroghe;

 

    che si è costituita in giudizio la contribuente s.r.l. Poliresine, chiedendo l'accoglimento delle sollevate questioni ed adducendo a sostegno della richiesta: a) l'illegittimità della doppia imposizione sul capitale sociale, prima sottoposto ad imposta di registro al momento del conferimento e poi assoggettato all'imposta sul patrimonio netto dal 1992 al 1996, quale componente del patrimonio netto, ai sensi dell'art. 2424 cod.civ.; b) il contrasto dell'imposta sul patrimonio netto con il disposto dell'art. 10 della direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, n. 69/335/CEE, che vieta l'imposizione sotto qualsiasi forma di imposte indirette sulla raccolta di capitali e consente di applicare una sola volta un'imposta sui conferimenti con un'aliquota non superiore all'1%; c) la violazione dell'art. 53 Cost., per l'iniqua doppia tassazione del capitale sociale; d) la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., per la disparità di trattamento dei contribuenti in riferimento alle singole capacità contributive, con conseguente effetto distorsivo sul diritto di proprietà (il quale subirebbe, con l'imposta denunciata, una «decurtazione espropriativa»); e) la violazione del principio della tutela del risparmio, per la diversità di trattamento fiscale del «risparmio sotto forma di distribuzione degli utili ai soci», rispetto al risparmio sotto forma di utili reinvestiti in capitale sociale;

 

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, adducendo l'inammissibilità o l'infondatezza delle questioni;

 

    che la difesa erariale eccepisce preliminarmente l'inammissibilità della questione concernente l'art. 1 del decreto-legge n. 394 del 1992, quale convertito dalla legge n. 461 del 1992, per un triplice motivo: sia, in generale, per la mancata motivazione, da parte del rimettente, della non manifesta infondatezza; sia, in particolare, per la mancata specificazione se la denunciata disparità di trattamento fiscale derivi dall'esclusione degli utili di esercizio dall'imposta sul patrimonio netto oppure dall'assoggettamento a questa delle riserve di utili; sia, infine, perché la censura del rimettente non ha ad oggetto l'indebita attribuzione legislativa di un beneficio fiscale – come, sempre secondo l'Avvocatura generale dello Stato, sarebbe stato legittimo – ma la mancata estensione del beneficio fiscale dell'esclusione dall'imposta sul patrimonio netto ad ipotesi diverse da quelle per le quali il beneficio è previsto;

 

    che l'Avvocatura generale dello Stato deduce, nel merito, l'infondatezza della stessa questione, osservando: a) in relazione all'art. 3 Cost., che non sussiste la denunciata disparità di trattamento, perché l'imposta sul patrimonio netto delle imprese colpisce il patrimonio e non il reddito, con la conseguenza che non sono omogenee le situazioni poste a raffronto dal rimettente; b) in relazione all'art. 53 Cost., che rientra nella discrezionalità del legislatore, nel limite della non arbitrarietà, individuare i beni patrimoniali da utilizzare quali indici rivelatori di capacità contributiva; c) in relazione all'art. 47 Cost., che questo contiene solo un principio programmatico e pertanto, come precisato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 143 del 1995, non impedisce al legislatore ordinario «di emanare […] norme […] volte a disciplinare il gettito delle entrate, con l'unico limite della vera e propria contraddizione o compromissione dell'anzidetto principio»;

 

    che la difesa erariale deduce, infine, l'infondatezza nel merito delle altre questioni, perché il legislatore, prorogando l'imposta al fine di salvaguardare il superiore interesse pubblico al mantenimento del livello complessivo del gettito fiscale, avrebbe non irragionevolmente disposto per il futuro, e quindi, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, non avrebbe leso l'affidamento dei cittadini, non essendo tale lesione configurabile in relazione a leggi che disciplinino non irragionevolmente, anche se in senso sfavorevole agli interessati, “rapporti di durata” (sentenze n. 446 del 2002 e n. 393 del 2000), od in relazione a scelte legislative ampiamente discrezionali o che non abbiano acquisito un sufficiente grado di consolidamento (sentenze n. 374 del 2002 e n. 390 del 1995), o che non si risolvano in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti (sentenze nn. 446 e 374 del 2002).

 

    Considerato che la Commissione tributaria regionale della Puglia – sezione staccata di Lecce dubita della legittimità costituzionale: a) dell'art. 1 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394 (Disposizioni concernenti l'istituzione di un'imposta sul patrimonio netto delle imprese), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 novembre 1992, n. 461; b) dell'art. 1 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, nonché dell'art. 3, comma 110, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica);

 

    che, secondo il giudice rimettente, il denunciato art. 1 del decreto-legge n. 394 del 1992 violerebbe gli artt. 3, 47 e 53 della Costituzione perché, escludendo dall'imposta sul patrimonio netto solo l'utile di esercizio e non anche le riserve di utili, discriminerebbe illegittimamente le società che accantonano a riserva gli utili prodotti, sottoposti all'imposta, rispetto a quelle che, distribuendoli, li sottraggono alla  medesima imposizione;

 

    che, per il medesimo rimettente, la natura transitoria e straordinaria dell'imposta sul patrimonio netto delle imprese, originariamente prevista per un solo triennio, contrasterebbe con le proroghe disposte, rispettivamente, dall'art. 1 del decreto-legge n. 564 del 1994 e dall'art. 3, comma 110, della legge  n. 549 del 1995, le quali avrebbero leso i princìpi costituzionali di ragionevolezza,  di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto;

 

    che la censura concernente l'art. 1 del decreto-legge n. 394 del 1992, nella parte in cui assoggetta all'imposta sul patrimonio netto delle imprese le riserve di utili, presuppone, quale specifica condizione di rilevanza, che la contribuente abbia accantonato a riserva utili nei periodi d'imposta oggetto della richiesta di rimborso, cioè negli anni dal 1992 al 1996;

 

    che tuttavia, sul punto, il giudice a quo si limita ad asserire che, «in particolare negli anni 1993 e 1994, essendosi verificata una perdita d'esercizio di notevole entità a carico» della società, quest'ultima «è risultata non aver proceduto alla distribuzione degli utili, accantonandoli nelle riserve» e rendendoli, di conseguenza, soggetti all'imposta sul patrimonio netto;

 

    che tale asserzione, ai fini della rilevanza: a) non fornisce alcuna informazione circa l'esistenza di riserve di utili nell'anno 1992; b) è intrinsecamente contraddittoria per gli anni 1993 e 1994, perché l'esistenza di “perdite d'esercizio di notevole entità” negli stessi anni è incompatibile con l'esistenza di utili d'esercizio e quindi, a fortiori, con l'accantonamento a riserva di utili; c) non fornisce alcuna informazione circa l'esistenza di riserve di utili per gli anni 1995 e 1996 e, comunque, non specifica se gli eventuali utili di esercizio di tali anni (quali componenti positive del patrimonio netto) abbiano superato l'entità delle menzionate “notevoli perdite” degli anni precedenti portate a nuovo (componenti negative del patrimonio netto, ai sensi dell'art. 2424 cod.civ.), così da aver consentito l'accantonamento di riserve di utili;

 

    che le indicate carenze e contraddittorietà di informazioni sulla formazione di riserve di utili si traducono in difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, con conseguente manifesta inammissibilità di questa;

 

    che, quanto alle censure concernenti gli artt. 1 del decreto-legge n. 564 del 1994 e 3, comma 110, della legge n. 549 del 1995  (con i quali il legislatore ha prorogato, una prima volta per il 1995 ed una seconda volta  per il 1996 ed il 1997, l'applicazione dell'imposta sul patrimonio netto delle imprese), il rimettente motiva la non manifesta infondatezza delle questioni limitandosi ad affermare che la natura straordinaria e temporanea dell'imposta non tollererebbe proroghe;

 

    che tale motivazione è del tutto insufficiente, perché la Commissione tributaria regionale: a) in ordine alla dedotta violazione del principio di ragionevolezza, incorre in una mera tautologia, in quanto presuppone proprio ciò di cui dovrebbe dare dimostrazione, e cioè che la proroga per un triennio di un'imposta straordinaria e temporanea (di durata  originariamente triennale) comporta di per  sé l'illegittimità della norma che la dispone; b) in ordine alla dedotta violazione dei princípi di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, non specifica l'asserita concreta lesione di legittime aspettative della contribuente sul non assoggettamento all'imposta, specificazione tanto più necessaria in quanto le norme denunciate dispongono entrambe per il periodo di imposta successivo a quello in corso al momento della loro pubblicazione e non incidono su situazioni regolate dalla precedente normativa;

 

    che, pertanto, la mancata prospettazione di una specifica censura di irragionevolezza e di una concreta lesione di legittime aspettative in relazione alla denunciata proroga triennale dell'applicazione dell'imposta rende le sollevate questioni immotivate e, dunque, manifestamente inammissibili.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394 (Disposizioni concernenti l'istituzione di un'imposta sul patrimonio netto delle imprese), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 novembre 1992, n. 461, e dell'art. 1 del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, nonché dell'art. 3, comma 110, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 47 e 53 della Costituzione ed ai princìpi di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, dalla Commissione tributaria regionale della Puglia – sezione staccata di Lecce, con l'ordinanza indicata in epigrafe;

 

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2005.

 

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

 

Franco GALLO, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2005.