Ordinanza n. 445 del 2004

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ORDINANZA N. 445

ANNO 2004

 

Commento alla decisione di Vittorio Triggani: “I requisiti di accesso ai corpi militari”

(nella Rivista telematica Lexitalia.it)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

- Valerio ONIDA, Presidente

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

- Ugo DE SIERVO

- Romano VACCARELLA

- Paolo MADDALENA

- Alfio FINOCCHIARO

- Alfonso QUARANTA

- Franco GALLO

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sostituito dall’articolo 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promosso con ordinanza del 17 marzo 2004 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di M.I., iscritta al n. 698 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2004.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 15 dicembre 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 25 e 35, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), nella parte in cui punisce chi «compie atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente»;

  che il giudice a quo — investito del processo penale nei confronti di persona imputata, in concorso con altre, del reato di favoreggiamento dell’emigrazione clandestina previsto dal comma 3 dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dall’art. 11, comma 1, della legge n. 189 del 2002 — premette che nella condotta ascritta al giudicabile dovrebbe ravvisarsi, in realtà, il meno grave delitto di cui alla seconda parte del comma 1 dello stesso articolo;

che alla stregua delle risultanze processuali, infatti, l’imputato si era limitato a favorire l’emigrazione clandestina di alcuni conoscenti verso l’Inghilterra, prendendo contatto con un gruppo di «passeurs» ed accompagnando gli interessati nel luogo convenuto, affinché potessero salire clandestinamente su un treno;

che il fatto non risultava peraltro commesso a fine di lucro o nell’ambito di una sia pur rudimentale organizzazione: elementi, questi, da ritenere indispensabili per la configurabilità dell’ipotesi criminosa contestata, che avrebbe natura di reato autonomo, e non già di circostanza aggravante della fattispecie delineata dal comma 1 del citato art. 12;

che ad avviso del rimettente, tuttavia, la norma incriminatrice effettivamente applicabile nella specie — quella, appunto, di cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998 — contrasterebbe sotto più profili con la Carta costituzionale;

che l’incriminazione del favoreggiamento della migrazione clandestina verso l’estero — non contemplata dal testo originario dell’art. 12 — sarebbe stata infatti introdotta dalla legge n. 189 del 2002, in aggiunta a quella del favoreggiamento dell’immigrazione illegale in Italia, al fine di colmare un vuoto normativo, che impediva di reprimere penalmente, ex se, l’attività di «gestione» sul territorio nazionale del traffico dei clandestini in transito verso altri paesi: attività ritenuta, per contro, meritevole di sanzione penale, perché potenzialmente pericolosa per l’ordine pubblico ed espressiva del fenomeno dello sfruttamento della migrazione clandestina;

che nel quadro di tale intervento, però, mentre il comma 3 dell’art. 12 descriverebbe una fattispecie criminosa non lontana dal modello del reato associativo speciale e, dunque, con delle «connotazioni antigiuridiche chiare», in quanto evocative di un «mercato» organizzato del traffico dei clandestini a scopo di lucro; invece, il reato di favoreggiamento «semplice» delineato dal comma 1 avrebbe, quale unico «elemento tipizzante», il «presupposto di illiceità speciale» costituito dalla «illegalità» dell’ingresso nello stato estero: solo tale «illegalità» renderebbe infatti antigiuridica una condotta che, altrimenti, si risolverebbe nella mera agevolazione dell’esercizio di un diritto della persona, e cioè quello di emigrare dal territorio italiano verso altri stati;

che, al fine di stabilire se si sia di fronte ad una emigrazione «illegale», occorrerebbe peraltro far riferimento alla normativa del paese di destinazione del migrante clandestino, ammesso che lo si possa individuare con certezza: circostanza, questa, non «scontata», dato che la norma denunciata punisce anche i semplici «atti diretti» a procurare l’ingresso in uno stato estero, indipendentemente dall’ottenimento di un qualsiasi risultato;

che si sarebbe pertanto al cospetto di una norma penale «in bianco», il cui precetto è descritto attraverso il rinvio ad una legge straniera, con conseguente violazione della riserva di legge stabilita dall’art. 25 Cost. e dei principi di tassatività e determinatezza delle norme incriminatrici;

che la carenza di determinatezza della fattispecie non potrebbe essere “sanata” neppure valorizzando le modalità concrete della condotta: ossia ritenendo che la norma punisca l’agevolazione a lasciare il territorio italiano con modalità «clandestine»;

che tale procedimento, oltre a non apparire corretto, porterebbe, infatti, ad una «pericolosa confusione di piani», posto che l’emigrazione in condizioni di «illegalità» — vista nell’ottica della legge italiana: e dunque, in pratica, l’emigrazione di chi si trova in Italia come clandestino — non è destinata affatto a sfociare sempre e comunque in una situazione di clandestinità rispetto a qualunque paese straniero: onde la fattispecie criminosa — stante la sua natura di reato a consumazione anticipata — finirebbe per colpire una «illegalità» solo futura ed eventuale;

che lo status di clandestino in Italia comporterebbe necessariamente, d’altra parte, che non vengano utilizzati, ove necessari, documenti validi per l’espatrio: sicché — nell’anzidetta prospettiva — qualsiasi atto diretto ad agevolare l’emigrazione di chi non si trovi regolarmente sul territorio italiano risulterebbe passibile di sanzione penale, persino ove miri a permettere al soggetto favorito di rientrare nel paese d’origine senza doversi «autodenunciare» come clandestino;

che, proprio per evitare tale risultato «paradossale», la giurisprudenza di legittimità sarebbe stata in effetti «costretta» a «singolari oscillazioni» nelle prime applicazioni della nuova disciplina: talora escludendo la configurabilità del reato quando l’ingresso nello stato straniero, oggetto di agevolazione, abbia carattere solo momentaneo e provvisorio; altre volte, invece, ritenendo irrilevante che detto ingresso fosse finalizzato, in tesi, all’attraversamento del territorio dello stato estero per raggiungere il paese d’origine: giacché, altrimenti, in quest’ultima ipotesi, l’integrazione della fattispecie penale per il favoreggiatore verrebbe a dipendere dalle affermazioni del favorito, senza che vi si sia modo di controllare la serietà di detta intenzione né la sua effettiva realizzazione;

che tali pronunce renderebbero peraltro palese come la norma incriminatrice sia suscettibile di generare contrasti interpretativi legati non già alla valutazione della condotta del soggetto agente, ma alla vicenda concreta del soggetto favorito: situazione, questa, da ritenere «inaccettabile» sul piano del rispetto del principio di determinatezza;

che la norma impugnata si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 35, quarto comma, Cost., che riconosce, come diritto della persona, la libertà di emigrazione;

che se pure, infatti, il precetto costituzionale contiene una «riserva di legge», la compressione dell’anzidetto diritto — compressione che verrebbe di fatto attuata, allorché si punisce l’agevolatore — dovrebbe ritenersi consentita solo in presenza di condizioni eccezionali, collegate a situazioni di pericolosità o ad esigenze di tutela dell’ordine pubblico: condizioni che potrebbero ritenersi integrate rispetto all’ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, stante la sua ratio di contrasto del fenomeno della «mercificazione» dei flussi migratori e, quindi, dell’agevolazione «professionale»; ma non, invece, in rapporto alla fattispecie oggetto di censura;

  che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o infondata.

  Considerato che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come sostituito dall’art. 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui punisce chi «compie atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente», assumendo che la norma denunciata contrasterebbe con la riserva di legge in materia penale ed il principio di determinatezza della fattispecie incriminatrice, sanciti dall’art. 25 Cost., nonché con la libertà di emigrazione, riconosciuta dall’art. 35, quarto comma, Cost.;

  che il giudice a quo motiva il dubbio di costituzionalità — in rapporto ad entrambi i parametri — ponendo a raffronto la fattispecie criminosa censurata con quella di cui al comma 3 dello stesso art. 12, che egli ritiene per contro rispettosa del dettato costituzionale, in quanto volta a colpire, in assunto — diversamente dalla prima — il «mercato organizzato» della migrazione clandestina;

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, peraltro, l’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998 è stato ulteriormente modificato dal decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), convertito, con modificazioni, in legge 12 novembre 2004, n. 271, pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 267 del 13 novembre 2004;

che, per quanto attiene all’odierno thema decidendum, l’art. 1-ter del citato decreto-legge — aggiunto dalla legge di conversione — non si è limitato ad inasprire il trattamento sanzionatorio della fattispecie di cui al comma 1 della norma novellata, ma ha anche inciso, in modo significativo, sulla figura di cui al comma 3 e, correlativamente, sulla disciplina delle circostanze aggravanti di entrambe le fattispecie;

che anteriormente alla novella, infatti, l’ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava integrata sia quando il favoreggiamento dell’immigrazione o dell’emigrazione clandestina fosse commesso a fine di profitto, «anche indiretto» (primo periodo del comma 3); sia quando fosse realizzato da tre o più persone in concorso tra loro, o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti (secondo periodo del comma 3);

che, a seguito del recente intervento legislativo, per contro, l’unico elemento specializzante della fattispecie di cui al comma 3, rispetto a quella del comma 1, è costituito dal fine di profitto;

che gli ulteriori elementi, che precedentemente integravano, in via alternativa, la fattispecie di favoreggiamento più grave, sono stati invece trasformati in circostanze aggravanti, riferite peraltro, in termini indifferenziati, ad ambedue le ipotesi criminose in discorso (art. 12, comma 3-bis, lettera c-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, come novellato);

che gli atti devono essere pertanto restituiti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, alla luce dei sopravvenuti mutamenti della struttura delle due fattispecie poste a confronto.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

ordina la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 2004.

Valerio ONIDA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 29 dicembre 2004.