Sentenza n. 284 del 2004

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SENTENZA N. 284

ANNO 2004

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

- Valerio ONIDA                      

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI                 

- Guido NEPPI MODONA      

- Piero Alberto CAPOTOSTI               

- Annibale MARINI                  

- Franco BILE                           

- Giovanni Maria FLICK                      

- Francesco AMIRANTE                      

- Ugo DE SIERVO                   

- Romano VACCARELLA      

- Alfio FINOCCHIARO          

- Alfonso QUARANTA           

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale di Taranto, prima sezione penale, che ha rigettato l’istanza presentata dalla difesa dell’on. Giancarlo Cito, di rinvio della udienza dibattimentale in ragione dell’impedimento parlamentare, e della sentenza n. 202/98 dello stesso Tribunale che ha definito il procedimento stesso; nonché delle sentenze n. 85/2000 della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, e n. 390/2001 della Corte di cassazione, quinta sezione penale, promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 26 aprile 2002, depositato in cancelleria il 2 maggio 2002 ed iscritto al n. 18 del registro conflitti 2002.

Udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;

udito l’avvocato Sergio Panunzio per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

     1. – Con ricorso depositato il 25 maggio 2001 la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Tribunale di Taranto, prima sezione penale, della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto e della Corte di cassazione, quinta sezione penale, chiedendo a questa Corte:

     a) di dichiarare che non spetta al Tribunale di Taranto, prima sezione penale, né alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, né alla Corte di cassazione, quinta sezione penale, negare che per il deputato Giancarlo Cito costituisca impedimento assoluto alla partecipazione all’udienza dibattimentale del 18 febbraio 1998 dinanzi al Tribunale di Taranto il diritto-dovere di assolvere il mandato parlamentare, partecipando alle votazioni dell’assemblea indette per lo stesso giorno;

     b) "in particolare, che non spetta alla Corte di cassazione, Vª sezione penale, il dichiarare riservato al bilanciamento del giudice penale, alla stregua delle risultanze processuali, il giudizio sulla spettanza del carattere di impedimento assoluto a partecipare all’udienza alla situazione dell’imputato parlamentare che sia impegnato in votazioni in assemblea concomitanti con l’udienza penale";

     c) di annullare, per l’effetto: l’ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale di Taranto, sezione Iª penale; la sentenza 18 febbraio-13 marzo 1998, n. 202, del medesimo Tribunale; la sentenza 21 ottobre 1999-10 marzo 2000, n. 85, della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto; la sentenza 15 febbraio-19 marzo 2001, n. 390, della Corte di cassazione, sezione Vª penale.

Il ricorso espone i fatti che hanno dato luogo al conflitto, nei termini che seguono.

Nel procedimento penale pendente nei confronti del deputato Giancarlo Cito, il Tribunale di Taranto, prima sezione penale, respingeva, con ordinanza adottata all’udienza dibattimentale del 18 febbraio 1998, un’istanza, presentata dal difensore del deputato il giorno precedente l’udienza, con la quale si chiedeva di considerare l’assenza dell’imputato dovuta a legittimo impedimento a comparire, in considerazione del suo diritto-dovere di partecipare all’attività parlamentare e in particolare alle votazioni in aula della Camera dei deputati nei giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio 1998, come comprovato dal calendario dei lavori parlamentari presentato al Tribunale. Quest’ultimo motivava la propria decisione affermando che l’istanza era tardiva e che, comunque, essendo la seduta per il giorno 18 febbraio fissata a partire dalle ore 16, l’imputato avrebbe potuto comparire nella mattinata e chiedere che il suo processo fosse trattato con precedenza.

L’ordinanza in questione, osserva la ricorrente, non teneva dunque in considerazione il fatto che il deputato fosse impegnato nelle votazioni in assemblea già dal giorno precedente l’udienza, cioè dal 17 febbraio, giorno in cui i lavori si erano protratti fino alle ore 23; né, aggiunge la Camera, il Tribunale, immediatamente dopo, aveva ritenuto di ritornare, revocandola, sulla propria decisione, allorché di dette ultime circostanze era stato informato con un fax inviato quello stesso giorno dall’imputato, il quale appunto comunicava l’ordine del giorno della seduta (con votazioni) del giorno 18 febbraio e riferiva di come egli si fosse trovato impegnato in votazioni sin dalla sera del giorno precedente.

Con sentenza del medesimo giorno 18 febbraio 1998, depositata il 13 marzo, il Tribunale di Taranto condannava l’imputato per il reato di diffamazione, rinviando espressamente, nella motivazione, alla propria ordinanza con cui era stata respinta l’istanza di rinvio dell’udienza.

In sede di gravame, la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, rigettava l’eccezione di nullità dell’ordinanza del 18 febbraio 1998 del Tribunale, da un lato ritenendo la stessa tardiva – ma facendo riferimento testuale non già all’istanza presentata dal difensore il giorno prima dell’udienza, bensì al fax trasmesso dall’imputato il giorno stesso dell’udienza – e dall’altro escludendo che l’impegno parlamentare rivestisse il carattere di impedimento assoluto a comparire, affermando che l’imputato sarebbe stato chiamato a votare in giorni diversi da quello in cui era fissata l’udienza, cioè nei giorni 17 e 20 febbraio; una affermazione, quest’ultima, si osserva nel ricorso, non sorretta da alcun dato obiettivo, tenuto conto che il calendario settimanale delle sedute era identico nei contenuti per tutti e quattro i giorni, e soprattutto che l’ordine del giorno della seduta decisiva, cioè del giorno 18, indicava che le votazioni si sarebbero svolte a partire dalle ore 16.20.

La Corte di cassazione, con sentenza del 15 febbraio 2001, confermava quindi il giudizio d’appello, compreso il rilievo di tardività dell’istanza: la Corte, oltre ad affermare che la pronuncia del giudice di merito si sottraeva a censure di legittimità, per avere argomentato al riguardo con "proposizioni logicamente e giuridicamente ineccepibili", aggiungeva sul punto che "l’indiscriminata valenza dell’impedimento di natura parlamentare paralizzerebbe la definizione del procedimento", che " il delicato equilibrio tra la funzione giurisdizionale e quella parlamentare trova contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della situazione processuale", e infine che "la definizione del processo in tempi ragionevoli non soddisfa solo l’interesse punitivo […] dello Stato e le legittime aspettative della persona offesa, ma anche l’interesse dello stesso imputato, ove questo non si proponga fini dilatori".

La ricorrente Camera dei deputati, affermata la propria legittimazione attiva al ricorso e quella passiva degli organi giurisdizionali, motiva circa l’ammissibilità, sul piano oggettivo, del conflitto: la materia del quale è data, nella specie, dalla esigenza di delimitare le attribuzioni costituzionali del potere giudiziario (di trattare e concludere i processi innanzi a esso pendenti) a fronte delle esigenze di funzionalità e delle prerogative di autonomia e indipendenza del potere legislativo, incise dalla pretesa del primo di disconoscere al deputato il carattere assoluto dell’impedimento a comparire a una udienza per adempiere alle proprie funzioni di parlamentare.

Quanto alla sussistenza dell’interesse a ricorrere, coincidente con l’interesse a una pronuncia che ristabilisca "gli equilibri messi in gioco, al di là del singolo caso, dal conflitto" (sentenza n. 129 del 1996), la Camera rileva che l’equilibrio tra i poteri è rotto appunto per la presa di posizione del potere giudiziario, che in tal modo produce uno squilibrio a tutto vantaggio dell’attività allo stesso affidata, laddove la pari dignità costituzionale delle funzioni imporrebbe la ricerca di un punto di equilibrio, tale da evitare l’integrale sacrificio delle esigenze di cui sono portatori l’uno o l’altro potere. Né potrebbe dirsi mancante l’interesse a ricorrere per l’esaurimento degli effetti dell’atto impugnato o perché la decisione di questa Corte in sede di conflitto potrebbe risultare priva di effetti giuridici rispetto al rapporto sottostante, o negarsi l’attualità e concretezza del conflitto sul rilievo che comunque, nel caso concreto, il deputato ha preso parte alle votazioni in assemblea: la vicenda del singolo parlamentare, infatti, è "estrinseca" rispetto agli atti impugnati e al loro contenuto, dovendosi sempre misurare le menomazioni che formano oggetto dei conflitti costituzionali alla luce della intrinseca entità delle pretese che li determinano, più che delle conseguenze concrete degli atti o dei comportamenti dei soggetti. Nel caso, dunque, si rivela una netta divergenza di vedute tra la Camera e gli organi giurisdizionali, nella contrapposizione tra un ordine del giorno delle sedute del periodo 17-20 febbraio 1998 da cui ha origine il dovere del parlamentare di prendere parte alle votazioni, e una serie di pronunce giurisdizionali che seppure variamente convergono nel negare a questi stessi impegni la qualità di impedimento assoluto a partecipare all’udienza processuale.

Da ultimo la Camera esclude che possa ravvisarsi la ragione di inammissibilità dei conflitti originati da decisioni giudiziarie consistente nella impossibilità di fare valere nella sede del conflitto costituzionale eventuali errores in iudicando, e dunque di trasformare impropriamente il conflitto di attribuzioni in una sorta di rimedio ulteriore nel processo: la Camera, infatti, non era parte del processo penale e, diversamente dal singolo parlamentare coinvolto, non aveva né ha alcuno strumento processuale comune attraverso il quale difendere le proprie prerogative.

Nel merito, la Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i propri componenti, impedimento assoluto a comparire all’udienza del processo penale l’esercizio della funzione parlamentare e "in particolare" l’esercizio del diritto di voto in assemblea o anche in commissione legislativa.

La ricorrente rileva che le decisioni dei giudici di merito per le quali è promosso conflitto non prendono posizione circa la questione di principio, del rilievo processuale della posizione dell’imputato che sia impegnato in attività parlamentare, benché comunque esse abbiano per effetto comune quello di negare la natura di impedimento assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in assemblea, ovvero di subordinarne il riconoscimento ad apprezzamenti del giudice, secondo considerazioni del singolo caso concreto; mentre è la pronuncia della Corte di cassazione che enuclea esplicitamente il principio secondo il quale spetta al giudice operare di volta in volta, in base appunto alla concreta situazione processuale, il contemperamento tra le esigenze della funzione giurisdizionale e di quella parlamentare: in questo modo, il riconoscimento o il disconoscimento dell’impedimento funzionale finiscono per derivare da considerazioni del singolo caso, che potrebbero di volta in volta mutare – ad esempio, ammettendo l’impedimento per attività parlamentari diverse dal voto e viceversa negandolo per l’esercizio del voto –, con una considerazione indistinta di equiordinazione, in linea di principio, di tutte le attività nelle quali si realizza la funzione parlamentare.

Ora, afferma la Camera, la pretesa della giurisdizione, di considerare tra loro fungibili le attività di un parlamentare e di rimettere al solo giudice l’apprezzamento di una di esse come impedimento assoluto, finisce per compromettere l’autonomia e la stessa funzionalità della Camera di appartenenza del parlamentare, menomando il libero esercizio del mandato rappresentativo, in violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.

La Camera sottolinea in particolare la necessità di riconoscere la peculiarità delle votazioni in assemblea, tutte le attività nelle quali si esplica il mandato essendo di pari dignità e oggetto di un dovere, secondo il regolamento (art. 48-bis), ma non potendosi legittimamente desumere da ciò il criterio di indifferenziata e indiscriminata devoluzione alla valutazione giudiziale di ciò che costituisce impedimento assoluto: il voto è un’attività personalissima, non delegabile, e sulla quale il singolo deputato non può influire quanto al momento del suo svolgimento, cosicché tra esso e le altre pur rilevanti attività parlamentari (discussioni, interventi programmati, atti di sindacato ispettivo) sussiste una differenza qualitativa. Nella prassi, il deputato che debba partecipare a un processo penale a suo carico in una data in cui sono fissati interventi o discussioni su un provvedimento legislativo può chiedere lo spostamento dell’esame ad altra data; oppure, la Presidenza della Camera può rinviare la discussione sulle linee generali o concedere al deputato facoltà di intervenire più ampiamente sull’art. 1 del testo in discussione, derogando alle norme sui tempi; mentre il rinvio dello svolgimento di interrogazioni e interpellanze è sempre possibile.

Ma tutto questo non vale per l’attività di votazione, che è indisponibile dal singolo deputato e i cui tempi non sono rinviabili a richiesta, ciò che dà la misura di come il voto sia atto funzionale, che attiene immediatamente alla funzione costituzionalmente assegnata alle Camere e la cui limitazione dunque rappresenta una incisione nel pieno e libero espletamento di quella stessa funzione, garantita nel suo svolgimento autonomo e senza condizionamenti esterni dagli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.

Sotto un ulteriore profilo, il mancato riconoscimento dell’impedimento comprometterebbe la stessa funzionalità della Camera, mettendo a rischio la formazione del quorum richiesto di volta in volta per la deliberazione parlamentare – ciò che può verificarsi anche per un singolo voto –, in violazione delle norme della Costituzione e di altre leggi costituzionali (artt. 64, primo e terzo comma; 73, secondo comma; 79, primo comma; 83, terzo comma; 90, secondo comma; 138, primo e terzo comma, della Costituzione; art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2; artt. 9, comma 3, e 10, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1) che richiedono per talune delibere o votazioni particolari maggioranze, assolute o qualificate, come ad esempio in tema di approvazione dei regolamenti, di dichiarazione di urgenza di una legge, di approvazione di amnistia e indulto, di elezione del Presidente della Repubblica, di elezione dei giudici costituzionali, di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, di autorizzazione a procedere per i reati dei ministri, di approvazione di leggi costituzionali.

Pertanto, ogni impedimento alla partecipazione anche di un solo parlamentare ai lavori della Camera si traduce in un impedimento alla funzionalità di essa, e così nella potenziale compromissione della funzione parlamentare: il deputato è posto nella condizione di dover scegliere tra partecipare all’udienza esercitando il proprio diritto fondamentale di difesa e partecipare alla votazione, e a subordinare la partecipazione ai lavori parlamentari a valutazioni imposte da un potere esterno.

La Camera lamenta poi la coartazione della libertà del mandato parlamentare, in violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione. Poiché le prerogative dei parlamentari sono poste non nell’interesse individuale dei singoli ma in funzione dell’integrità della posizione costituzionale della istituzione di appartenenza, ogni volta che sia leso il libero esercizio del mandato garantito dalle citate disposizioni costituzionali si ha una corrispondente violazione dell’autonomia delle Camere di appartenenza. Nel caso specifico, le determinazioni giurisdizionali hanno inciso sulla libertà di mandato del parlamentare, costretto alla scelta tra due differenti diritti, e ciò avrebbe determinato la lesione delle prerogative del Parlamento, anche tenendo conto che il condizionamento in discussione comporta una "alterazione del libero gioco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull’altrettanto libero rapporto delle forze".

Ancora, la Camera ricorrente lamenta la mancanza, nelle pronunce giurisdizionali oggetto del conflitto, di un adeguato bilanciamento tra le esigenze della giurisdizione (efficienza del processo) e quelle della funzionalità, dell’autonomia e dell’indipendenza dell’istituzione parlamentare: le decisioni, negando – direttamente, quelle dei giudici di merito, o indirettamente con l’affermazione di principio, quella della Corte di cassazione – il carattere di impedimento assoluto dell’attività di votazione, hanno sacrificato in toto le une a scapito delle altre, giacché non potrebbe realizzarsi alcun corretto bilanciamento tra le anzidette ragioni con l’imporre, come è avvenuto, al deputato di scegliere tra le due sedi, secondo un criterio dai connotati coercitivi del tutto inidoneo a raggiungere un ragionevole contemperamento tra i due ordini di interessi, i quali d’altra parte non si pongono neppure sul medesimo piano, dato che uno è un diritto soggettivo pieno e individuale, il diritto alla difesa, e l’altro è un diritto-dovere di carattere funzionale eccedente la dimensione del singolo.

Anche a riconoscere il fondamento costituzionale dell’esigenza di efficienza e celerità del processo, prosegue la Camera, non potrebbe per ciò solo giustificarsi il sacrificio della autonomia e indipendenza e perfino della stessa funzionalità del Parlamento, non potendosi considerare dilatorio l’opporre un impedimento che ha carattere oggettivo; e anche questo rilievo varrebbe a far considerare del tutto inadeguato il criterio di giudizio adottato dalla giurisdizione. Il calendario dei lavori parlamentari, e l’ordine del giorno che ne è espressione, costituiscono determinazioni che il parlamentare è tenuto a rispettare e non è abilitato a modificare, poiché in esse si traduce il contemperamento delle esigenze dei diversi soggetti costituzionali interessati all’organizzazione dei lavori delle Camere, a garanzia di ciascuno di essi e di tutti, maggioranza, opposizione, Governo; ed è dunque impropria, afferma la ricorrente, la pretesa di subordinare queste attività all’esercizio della giurisdizione penale, valendo semmai l’esigenza opposta.

Ad avviso della Camera, il criterio dovrebbe essere rovesciato rispetto a quello fatto proprio dai giudici: proprio considerando la partecipazione ai lavori parlamentari e in particolare le votazioni in assemblea come impedimento assoluto a comparire in udienza, non si sacrificherebbe la funzione giurisdizionale ma si perverrebbe a un equilibrato contemperamento, attraverso il semplice rinvio dell’udienza, che proporrà invariata la medesima situazione processuale anteriore, senza menomazione delle attribuzioni del potere giudiziario, laddove, argomentando nel modo dei giudici del caso di specie, il sacrificio delle attribuzioni parlamentari è il riflesso del carattere essenzialmente non riproducibile della seduta parlamentare, che riveste per definizione natura di evento politico nel quale entrano in gioco il momento storico e gli equilibri e i rapporti propri di quel momento.

Riconoscere come impedimento quello parlamentare, precisa la Camera, non espone d’altro canto a rischio la conclusione del processo, posto che l’assemblea si riunisce solo in determinati giorni della settimana e che non tutte le sedute di aula sono dedicate alle votazioni, con un rapporto che su base annuale può indicarsi come meno di un giorno su tre dedicato a votazioni.

Infine, la Camera ricorrente lamenta la violazione del principio di leale collaborazione tra poteri e del dovere di lealtà e correttezza, ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza costituzionale e valevole anche in relazione al potere giudiziario.

Le affermazioni che pervengono a rigettare l’istanza difensiva di rinvio sarebbero infatti incongrue: il Tribunale fa riferimento a una istanza presentata dal difensore il giorno prima dell’udienza, dunque non qualificabile come tardiva; la Corte d’appello fa invece riferimento a un fax dell’imputato, trasmesso lo stesso giorno dell’udienza, senza prendere in considerazione l’istanza difensiva del giorno precedente; pur avendo a disposizione il calendario settimanale dei lavori e l’ordine del giorno della seduta del 18 febbraio 1998, il Tribunale non ne deduce che l’imputato fosse impegnato nelle votazioni fino alle ore 23 del giorno precedente l’udienza, benché tale circostanza, risultante dai documenti trasmessi, fosse essenziale anche per rendere non praticabile la soluzione prospettata dal Tribunale, di presentarsi nella mattinata del giorno 18 febbraio per chiedere la trattazione del processo con precedenza sugli altri: proprio per sottolineare che l’impegno parlamentare copriva sia la sera del 17 che il primo pomeriggio del 18 febbraio, l’imputato aveva spedito un fax, ma il Tribunale non aveva ritenuto di riconsiderare la propria decisione adottata con l’ordinanza; dal suo canto, la Corte d’appello mostra di accorgersi dell’impegno delle votazioni per la sera del 17, ma sembra ritenere che le votazioni concernessero solo il giorno 20, nonostante che il calendario della settimana (17-20 febbraio) avesse un contenuto comune e soprattutto nonostante che l’ordine del giorno del 18 prevedesse espressamente votazioni in aula; infine, la Corte di cassazione sembrerebbe evocare potenziali utilizzazioni dilatorie dell’impedimento, quando risulta che nell’intero processo penale di cui si tratta l’impedimento venne fatto valere esclusivamente in una circostanza, cioè appunto per l’udienza del 18 febbraio 1998.

Quanto sopra esposto è il sintomo di un approccio non corretto e non equilibrato a fronte del delicato problema del bilanciamento che è richiesto in simili casi, e realizza, secondo la ricorrente, la violazione del principio di leale collaborazione, attraverso una arbitraria mancanza di considerazione per la posizione costituzionale del Parlamento, il sacrificio della cui funzionalità viene a essere realizzato senza alcun fondamento né ragionevole necessità.

2.– Questa Corte, con ordinanza n. 126 del 2002, ha dichiarato ammissibile il conflitto proposto dalla Camera.

Il ricorso è stato notificato e depositato con la prova delle avvenute notifiche.

3.– In prossimità dell’udienza la Camera dei deputati ha depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

La ricorrente anzitutto prende atto che con le sentenze n. 225 del 2001 e n. 263 del 2003 questa Corte ha accolto due conflitti analoghi, pur non facendo propria la tesi sostenuta, allora e nel presente giudizio, da essa Camera, e cioè che la necessità dell’imputato di partecipare a votazioni parlamentari, specie in Assemblea, costituirebbe sempre e comunque un "impedimento assoluto".

Osserva dunque che, sulla base di tali due sentenze, il giudice, allorquando debba valutare la fondatezza della giustificazione dell’assenza dal procedimento giudiziario del parlamentare a causa della concomitanza con lo svolgimento dei lavori parlamentari, è tenuto ad operare un bilanciamento, in base al principio di leale cooperazione fra i poteri dello Stato, fra due esigenze costituzionali, quella della speditezza del processo e quella dell’integrità funzionale del Parlamento, spettando poi alla Corte costituzionale, in caso di conflitto, valutare la correttezza, la congruità e la ragionevolezza del bilanciamento. Alla luce di tali principi, nel caso in esame, in tutti e tre i provvedimenti impugnati il bilanciamento sarebbe stato incongruo e inadeguato.

Quanto all’ordinanza del Tribunale di Taranto, infatti, essa avrebbe ritenuto tardiva l’istanza del parlamentare pervenuta il giorno prima dell’udienza del 18 febbraio 1998 – laddove nel conflitto definito con la sentenza n. 263 del 2003 viene ritenuta tempestiva una analoga istanza presentata dai difensori del parlamentare il giorno stesso dell’udienza – ed avrebbe ritenuto che l’on. Cito, impegnato dalle ore 16 del giorno 18 in votazioni parlamentari, avrebbe potuto essere presente all’udienza nella mattinata, senza considerare che, sulla base del calendario dei lavori parlamentari, erano fissate votazioni, e fino alle ore 23, anche nella precedente giornata del 17 febbraio – come precisato con l’ulteriore istanza pervenuta via fax dopo la lettura della detta ordinanza –, senza dire che anche la mattina del 18 vi era seduta, dedicata ad interrogazioni e interpellanze.

In ordine alla sentenza della Corte d’appello, essa, facendo palesemente confusione, considera presentata l’istanza dell’on. Cito solo in data 18, e non 17 febbraio, e conferma la decisione del Tribunale compiendo un errore in fatto, ritenendo l’insussistenza di impegni parlamentari nell’intera giornata del 18 febbraio.

Quanto alla sentenza della Corte di cassazione, la violazione dei principi che debbono reggere il bilanciamento sarebbe più grave, avendo essa ritenuto corretta e legittima la decisione dei giudici di merito, ed in particolare del Tribunale di Taranto, in ordine alla ritenuta "tardività" dell’istanza dell’on. Cito, considerando "ineccepibile" la motivazione di quella scelta. Il riferimento, poi, alla "indiscriminata valenza" dell’impedimento di natura parlamentare, ed il riferimento all’ipotesi secondo cui la richiesta dell’imputato parlamentare di farlo valere possa avere "fini dilatori" dimostrano che neppure la Cassazione ha tenuto conto che, nel corso dell’intero procedimento, l’on. Cito aveva invocato l’impedimento parlamentare una sola volta.

Ma quel che, ad avviso della ricorrente, appare più grave, è che il giudice di legittimità escluda "in via di principio che un impedimento parlamentare possa costituire un legittimo impedimento a comparire in udienza, perché questo – a suo avviso – potrebbe ostacolare la conclusione del processo in tempi ragionevoli ed aprire la strada al pericolo della prescrizione del reato": in altri termini, secondo la sentenza, l’interesse alla speditezza del procedimento giudiziario farebbe sempre premio sull’interesse delle Camere al regolare svolgimento delle attività parlamentari.

Considerato in diritto

1.– Ricorre per conflitto di attribuzioni, con atto depositato il 25 maggio 2001, la Camera dei deputati contro tre autorità giudiziarie – il Tribunale di Taranto, prima sezione penale, la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, e la Corte di cassazione, quinta sezione penale – in relazione a provvedimenti giudiziari da esse adottati in un processo a carico del deputato Giancarlo Cito, imputato di diffamazione nei confronti di un giornalista.

Precisamente, la ricorrente impugna, in primo luogo, l’ordinanza in data 18 febbraio 1998 con la quale il Tribunale di Taranto, decidendo sull’istanza presentata il giorno prima dal difensore dell’imputato, e volta al riconoscimento dell’impedimento legittimo a comparire di quest’ultimo in relazione ai lavori della Camera dei deputati previsti per i giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio, respingeva l’istanza, rilevando che "la stessa è stata presentata in data 17.2.98 benché l’ordine del giorno della seduta della Camera dei deputati per i giorni 17, 18 e 19 c.m. fosse stato trasmesso a mezzo fax il 02.02.98 (per come risulta dalla stampigliatura apposta sulla copia prodotta) e che pertanto l’istanza è stata presentata tardivamente"; considerando che "la seduta parlamentare della data odierna è fissata per le ore 16.00 per cui l’imputato poteva comparire nella mattinata, eventualmente chiedendo che il suo processo fosse trattato con precedenza"; rilevando infine "che il processo viene da rinvio del 22.12.1997, udienza in cui era presente l’imputato che nulla ha osservato in ordine alla data del rinvio": e ritenendo "che pertanto l’impedimento addotto non è assoluto".

Nel seguito dell’udienza il Tribunale dava atto che era pervenuto un fax dell’imputato in cui questi segnalava di essere impedito a presenziare al processo dalla concomitanza della seduta della Camera e segnalava altresì la circostanza che egli si era recato a Roma sin dal giorno precedente; il Tribunale non riteneva però che il contenuto del fax potesse rimettere in discussione il contenuto dell’ordinanza già emessa, alla quale rimandava, disponendo che si procedesse alla discussione.

In secondo luogo, la Camera impugna la sentenza resa dal medesimo Tribunale lo stesso 18 febbraio 1998, nella cui esposizione in fatto si ricordavano l’istanza dell’imputato e l’ordinanza di reiezione, e che, pronunciando sull’imputazione, condannava l’imputato medesimo ad una pena detentiva nonché al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

Ancora, è impugnata la sentenza della Corte d’appello di Lecce 21 ottobre 1999-10 marzo 2000, nella quale la Corte rigettava fra l’altro l’eccezione di nullità della ricordata ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale, osservando che non costituisce impedimento a comparire una semplice possibilità di impedimento; che nella specie l’imputato aveva rappresentato solo il 18 febbraio, e dunque con "palese tardività" rispetto all’epoca in cui gli era stato comunicato il calendario dei lavori della Camera, di avere partecipato alle votazioni svoltesi il giorno 17 e di dover partecipare ai lavori programmati per il pomeriggio successivo (riferendosi, evidentemente, non all’originaria istanza dell’imputato, ma al fax del giorno successivo inviato al Tribunale); che votazioni erano previste solo per il giorno 20; e concludendo che nessuna delle situazioni esposte rivestiva il carattere dell’impedimento assoluto a comparire la mattina del 18, e pure nel pomeriggio dello stesso giorno "per la non indispensabilità della presenza del medesimo al dibattito parlamentare a causa della estraneità del momento deliberativo all’o.d.g.".

Infine è impugnata la sentenza della Corte di cassazione 15 febbraio-19 marzo 2001, nella quale si rigettava il ricorso dell’imputato, disattendendo fra l’altro il motivo incentrato sulla nullità del primo giudizio a seguito del mancato riconoscimento dell’impedimento in questione, con una motivazione in cui si osserva, in via generale, che "il delicato equilibrio tra la funzione giurisdizionale e quella parlamentare trova contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della concreta situazione processuale", che "l’indiscriminata valenza dell’impedimento di natura parlamentare paralizzerebbe la definizione del procedimento, comportando la prescrizione del reato", e che "la definizione del procedimento in tempi ragionevoli soddisfa non solo l’interesse (punitivo, ma non solo) dello Stato e le legittime aspettative della persona offesa, ma anche l’interesse dello stesso imputato, ove questi non si proponga fini dilatori"; e si afferma, quanto alla specie, che la pronuncia del giudice territoriale si sottrae al sindacato della stessa Corte di cassazione, "argomentando circa la tardività dell’impedimento dedotto con proposizioni logicamente e giuridicamente ineccepibili".

Nel ricorso – proposto, è opportuno ricordare, prima della sentenza n. 225 del 2001, in cui per la prima volta questa Corte si è pronunciata su un conflitto di attribuzioni fra la Camera dei deputati ed un’autorità giudiziaria in tema di mancato riconoscimento di un impedimento dell’imputato che sia membro delle Camere, derivante dalla contemporaneità di lavori parlamentari – la Camera chiede dichiararsi che non spetta alle autorità giudiziarie contro cui ricorre "negare che costituisca impedimento assoluto alla partecipazione del deputato on. Giancarlo Cito alla udienza dibattimentale presso il Tribunale di Taranto il diritto-dovere del medesimo di assolvere il mandato parlamentare partecipando alle votazioni dell’assemblea della Camera indette nello stesso giorno"; e, in particolare, non spetta alla Corte di cassazione "dichiarare riservato al bilanciamento del giudice penale, alla stregua delle risultanze processuali, il giudizio sulla spettanza del carattere di impedimento assoluto a partecipare all’udienza alla situazione dell’imputato parlamentare che sia impegnato in votazioni in assemblea concomitanti con l’udienza penale". Chiede per l’effetto di annullare i provvedimenti giudiziari impugnati.

Il ricorso deduce la lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera con particolare riferimento alla circostanza che il deputato, nella specie, era stato chiamato ad esercitare il suo diritto-dovere di votare in assemblea, pur non escludendo che analoga lesione possa aversi anche quando non si tratti di votazione in assemblea. Secondo la ricorrente, la pretesa dell’autorità giudiziaria di rimettere al solo giudice, alla stregua della valutazione delle circostanze processuali, il giudizio sul carattere di impedimento assoluto di tutte le attività dei parlamentari, considerate fra loro "fungibili", violerebbe gli articoli 64, 68 e 72 della Costituzione, che garantiscono il funzionamento interno dell’assemblea nei confronti delle interferenze di qualsiasi potere, e non realizzerebbe un contemperamento equilibrato tra le esigenze della giurisdizione e quelle della funzione parlamentare, in contrasto anche con il principio di leale cooperazione: l’impedimento derivante dalla concomitanza di lavori parlamentari comportanti votazioni in assemblea dovrebbe comunque essere riconosciuto come assoluto.

Il diniego del carattere assoluto di detto impedimento lederebbe altresì la libertà del mandato parlamentare garantita dall’art. 67 della Costituzione, e perciò l’autonomia e l’indipendenza della Camera.

Ancora, le decisioni impugnate comporterebbero il completo sacrificio delle esigenze della funzione parlamentare, operando un bilanciamento irragionevole, mentre solo il riconoscimento del carattere assoluto dell’impedimento nel caso di concomitanti votazioni in assemblea permetterebbe alle due funzioni di convivere in modo soddisfacente e di ovviare al problema delle pratiche dilatorie.

Un ultimo motivo del ricorso – su cui la ricorrente ha in particolare insistito nella memoria, prendendo atto degli indirizzi nel frattempo enunciati da questa Corte nelle sentenze n. 225 del 2001 e n. 263 del 2003 – lamenta la violazione del principio di leale collaborazione e del dovere di lealtà e correttezza del giudice, che obbliga il potere giudiziario al rispetto effettivo delle prerogative degli altri organi costituzionali. Infatti i giudici avrebbero invocato una inesistente tardività della richiesta di rinvio, che invece era stata presentata tempestivamente, il giorno prima dell’udienza, con istanza che la Corte d’appello ha completamente ignorato; non avrebbero tenuto conto che dalla documentazione presentata si deduceva che l’imputato era chiamato a votare anche nel giorno precedente a quello dell’udienza, fino alle ore 23, il che avrebbe reso non praticabile la soluzione prospettata nell’ordinanza del Tribunale, di presenziare comunque all’udienza nella mattina del giorno 18 febbraio; la Corte d’appello avrebbe equivocato nell’affermare che votazioni erano previste solo per il giorno 20, mentre esse erano previste anche nei giorni precedenti; la Corte di cassazione avrebbe evocato i rischi di pratiche dilatorie in relazione ad una vicenda in cui l’impedimento parlamentare venne fatto valere dall’imputato in quell’unica occasione. Le motivazioni ed argomentazioni dei giudici di merito, definite "giuridicamente ineccepibili" dalla Corte di cassazione, sarebbero sintomatiche di un approccio non corretto e non ispirato all’impegno di riconoscere effettivamente le attribuzioni del potere parlamentare, che verrebbero invece aggirate.

2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile, in sede di preliminare delibazione, con l’ordinanza n. 126 del 2002.

3.– Si deve rilevare preliminarmente che il ricorso della Camera dei deputati è stato proposto, a oltre tre anni di distanza dalla pronuncia che disconosceva l’impedimento parlamentare allegato dal deputato Cito, solo dopo che si è esaurito per intero l’iter processuale, con la definitiva conferma, da parte della Corte di cassazione, della condanna inflitta, previa reiezione delle eccezioni di nullità proposte dall’imputato in relazione al mancato riconoscimento dell’impedimento in questione.

In assenza di un termine per sollevare il conflitto di attribuzioni, tale circostanza non può però, di per sé, incidere sulla proponibilità del ricorso, che fa leva sulla lesione delle attribuzioni dell’organo parlamentare, indipendentemente dalle sorti della singola vicenda processuale, che riguarda invece il solo imputato-deputato. Né di per sé, indipendentemente da quanto più oltre si dirà circa la non accoglibilità della domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati, ciò comporta il venir meno dell’interesse a ricorrere, che nella specie riposa esclusivamente sull’interesse dell’organo parlamentare a non vedere affermato, senza controllo di questa Corte, un criterio concreto di componimento, ai fini del riconoscimento di un impedimento a presenziare all’udienza a causa di lavori parlamentari, delle istanze contrapposte volte a dare rilievo alla funzione parlamentare e a quella della giurisdizione penale, entrambe di rilevanza costituzionale.

4.– Nel merito, il ricorso è fondato nei limiti di seguito precisati.

I principi di ordine costituzionale che caratterizzano la materia in questione sono stati individuati nella sentenza n. 225 del 2001, e ribaditi nella sentenza n. 263 del 2003.

La posizione dell’imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale "non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite" dall’art. 68, primo e secondo comma, della Costituzione. Al di fuori delle ipotesi ivi disciplinate "trovano applicazione, nei confronti dell’imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali". E’ compito delle competenti autorità giurisdizionali, e non della Corte costituzionale, interpretare e applicare le regole processuali, anche stabilendo "se e in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti […] dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l’imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dover essere equiparati, secondo il dettato dell’art. 486 del codice di procedura penale, a cause di forza maggiore". Non vi è luogo, in questo campo, ad individuare "regole speciali, derogatorie del diritto comune", e nemmeno dunque la regola per cui costituirebbe in ogni caso impedimento assoluto quello (e solo quello) derivante dalla necessità per l’imputato di prendere parte a votazioni in assemblea: il che significherebbe introdurre una distinzione "fra diversi aspetti dell’attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali", non potendosi inoltre "escludere che l’esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori". Tuttavia l’autorità giudiziaria, "allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze", deve tener conto "non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni", e così "ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza" (in questi termini la sentenza n. 225 del 2001, testualmente richiamata dalla sentenza n. 263 del 2003). Pertanto "il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda" (sentenza n. 263 del 2003).

5.– Nella specie, il Tribunale di Taranto non ha rispettato tali principi, non operando una valutazione in concreto atta a bilanciare l’interesse allo svolgimento del processo con l’interesse della Camera alla partecipazione del suo componente ai lavori programmati, secondo l’ordine del giorno prodotto allo stesso Tribunale, o a rendere compatibili le due esigenze. Esso si è trincerato dietro un rilievo di pretesa "tardività" dell’istanza (presentata peraltro già il giorno prima dell’udienza fissata), pur in assenza di qualsiasi termine prescritto per l’allegazione dell’impedimento, e dietro l’improbabile rilievo della possibilità di conciliare le due presenze in città diverse e lontane nel giorno in questione, senza tenere conto che dalla documentazione prodotta dal difensore risultava l’impegno parlamentare già nel pomeriggio e nella sera del giorno precedente; lamentando inoltre che l’impedimento non fosse stato fatto valere in occasione del rinvio disposto nella precedente udienza, anteriore peraltro di quasi due mesi (il che attiene semmai alla condotta processuale dell’imputato, non all’oggettività dell’impedimento).

A sua volta la Corte d’appello, nel rivalutare la situazione, è incorsa in evidenti equivoci, avendo da un lato confuso la presentazione dell’istanza (avvenuta il 17 febbraio) con l’invio da parte dell’imputato del nuovo fax il giorno stesso dell’udienza, e, dall’altro lato, avendo omesso di rilevare che l’ordine del giorno prodotto prevedeva l’esame di disegni di legge, dunque con possibili votazioni, nei giorni 17, 18, 19 e 20, e non solo il giorno 20 (per quest’ultimo giorno precisandosi solo che erano previste votazioni "sino alle ore 14").

La Corte di cassazione ha invece individuato un principio corretto quando ha statuito, in generale, che l’equilibrio fra le due funzioni in gioco deve trovare "contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della concreta situazione processuale", senza che si debba sempre riconoscere una "indiscriminata valenza" dell’impedimento parlamentare. Ma ha poi avallato in modo sostanzialmente immotivato la decisione del Tribunale, affetta invece dai vizi che si sono detti.

Tanto basta per riconoscere che, nella specie, l’autorità giudiziaria competente non ha operato il bilanciamento in concreto che le era demandato, valutando, in correlazione con l’interesse del processo, quello a non privare l’assemblea parlamentare della partecipazione del suo componente. In tal modo ha leso le attribuzioni della Camera ricorrente.

6.– Non può invece essere accolta la domanda della ricorrente di annullamento dei provvedimenti impugnati.

L’avvenuto esaurimento della vicenda processuale, con la formazione del giudicato, impedisce che, nella specie, questa Corte possa dare alla propria pronuncia, concernente uno specifico episodio interno al processo, un contenuto tale da riaprire quella vicenda, rimettendo in discussione rapporti e situazioni giuridiche (concernenti non solo l’imputato, ma anche la parte civile) consolidatisi per effetto appunto del giudicato: riapertura dalla quale nessuna conseguenza potrebbe discendere per la tutela della posizione costituzionale della ricorrente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara, in parziale accoglimento del ricorso in epigrafe, che non spettava all’autorità giudiziaria, e nella specie al Tribunale di Taranto, prima sezione penale, alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, e alla Corte di cassazione, quinta sezione penale, negare la validità dell’impedimento addotto dall’imputato componente della Camera medesima senza una valutazione del caso concreto che tenesse conto, oltre che dell’interesse del processo, dell’interesse della Camera dei deputati alla partecipazione del suo componente allo svolgimento delle attività parlamentari.

     Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2004.