Sentenza n. 148 del 2004

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SENTENZA N.148

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gustavo                      ZAGREBELSKY             Presidente

- Valerio                        ONIDA                               Giudice

- Carlo                           MEZZANOTTE                       "

- Fernanda                     CONTRI                                   "

- Guido                         NEPPI MODONA                   "

- Piero Alberto              CAPOTOSTI                            "

- Annibale                     MARINI                                   "

- Franco                         BILE                                         "

- Giovanni Maria           FLICK                                      "

- Francesco                    AMIRANTE                             "

- Ugo                             DE SIERVO                             "

- Romano                      VACCARELLA                      "

- Paolo                           MADDALENA                        "

- Alfonso                       QUARANTA                           "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 456 del codice di procedura penale, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, dalla Corte di appello di Palermo con ordinanza del 24 marzo 2003, iscritta al n. 406 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2004 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza del 24 marzo 2003 la Corte di appello di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 456 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la nullità del decreto che ha disposto il giudizio immediato nel caso di mancanza, insufficienza o inesattezza dell’avviso di cui al comma 2 del medesimo articolo.

La rimettente premette che, con decreto depositato il 12 settembre 2001, era stato disposto il giudizio immediato nei confronti di un soggetto imputato di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e danneggiamento. Il decreto, nel quale il termine per la richiesta del giudizio abbreviato o dell’applicazione della pena era erroneamente indicato in sette giorni anziché in quindici, era stato notificato all’imputato il 17 settembre 2001; l’avviso della data fissata per il giudizio era stato notificato al difensore il 9 ottobre 2001, quando anche il termine di quindici giorni era comunque già decorso.

Nella fase degli atti introduttivi del giudizio di primo grado la difesa dell’imputato aveva eccepito la nullità del decreto di giudizio immediato per l’erronea indicazione del termine, chiedendo altresì che l’imputato fosse rimesso in termini per la richiesta di patteggiamento o di giudizio abbreviato; entrambe le richieste erano state respinte dal primo giudice con ordinanza del 19 novembre 2001 e poi con sentenza del 24 giugno 2002, con la quale l’imputato era stato condannato a sette mesi di reclusione.

L’imputato aveva interposto appello riproponendo l’eccezione di nullità del decreto di giudizio immediato ed aveva dedotto a tal proposito che la «indebita compressione» del termine indicato nell’avviso prescritto dall’art. 456, comma 2, cod. proc. pen., costituiva «violazione di una disposizione concernente l’intervento dell’imputato», con conseguente nullità del decreto stesso a norma dell’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., essendo evocabile nel caso in esame la sentenza della Corte costituzionale n. 497 del 1995, secondo cui l’avviso concernente la facoltà di ricorrere ai riti alternativi è funzionale al tempestivo esercizio del diritto di difesa. Decorso il termine di sette giorni indicato nel decreto, l’imputato poteva infatti essersi determinato a contattare il proprio difensore solo in prossimità della data dell’udienza fissata per il giudizio, sulla base dell’erroneo convincimento di non avere alcuna alternativa al dibattimento. Nel caso di specie, poi, la gravità della violazione era «ancora più evidente, posto che il decreto era stato notificato al difensore quando erano già decorsi i quindici giorni utili» e che, secondo la pacifica interpretazione data alla norma in questione dalla Corte di cassazione, prima che la Corte costituzionale ne dichiarasse la incostituzionalità con la sentenza n. 120 del 2002, depositata il 16 aprile, il termine di quindici giorni per optare per i riti alternativi decorreva dalla notifica del decreto all’imputato e non dall’avviso al difensore.

2. - Ciò premesso, la Corte di appello osserva che, in punto di fatto, le prospettazioni dell’appellante sono esatte, essendo certa, in particolare, l’erronea indicazione del termine di sette giorni, evidentemente frutto di un omesso aggiornamento del già predisposto modello di decreto dopo che il termine era stato aumentato a quindici giorni dall’art. 14 della legge 1° marzo 2001, n. 63, e che tale inesattezza aveva determinato «una situazione di insufficienza dell’avviso di cui all’art. 456, comma 2, cod. proc. pen., avendo compresso il termine dilatorio previsto (peraltro, a pena di decadenza) dall’art. 458 cod. proc. pen. per fare valere la scelta per i riti alternativi ed avendo, comunque, al riguardo, fornito al destinatario una indicazione fuorviante, suscettibile di incidere sulle sue determinazioni». Decorsi i sette giorni menzionati nel decreto, l’imputato era infatti «autorizzato a ritenere, erroneamente, ormai precluso il ricorso ai riti alternativi e conseguentemente inutile la presentazione di una istanza in tal senso».

L’eccezione di nullità, prosegue la rimettente, era stata rigettata dal primo giudice in base al duplice rilievo che tra le ipotesi di nullità del decreto di giudizio immediato non è prevista la omessa indicazione dell’avviso in questione e che l’art. 456 cod. proc. pen. non contempla la necessità di menzionare anche il termine entro il quale far valere l’opzione per i riti alternativi.

La Corte di appello ritiene invece che «nel valutare la materia l’interprete non può non considerare i principi dettati da altra norma che regola un caso del tutto analogo», e cioè il comma 2 dell’art. 552 cod. proc. pen., «che ha riformulato il precedente art. 555 cod. proc. pen. e, recependo il principio affermato, in relazione a quest’ultima disposizione, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 497 del 1995», ha previsto la nullità del decreto di citazione per la mancanza o la insufficienza dell’avviso che, qualora ne ricorrano i presupposti, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, può presentare le richieste previste dagli artt. 438 e 444 cod. proc. pen., ovvero domanda di oblazione.

Applicando lo stesso principio si dovrebbe dunque ritenere che il decreto introduttivo del giudizio sia nullo, posto che l’erronea menzione del termine «radica una insufficiente ed, anzi, fuorviante formulazione del prescritto avviso». Tuttavia secondo la Corte di appello non sarebbe possibile addivenire alla declaratoria di nullità in via interpretativa, in quanto, da un lato la stessa sentenza della Corte costituzionale dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva specificamente tale causa di nullità, impone di ritenere che l’ipotesi in questione non integra una nullità di ordine generale desumibile sistematicamente dall’applicazione dell’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., dall’altro il regime di tassatività delle nullità non consente di fare applicazione analogica della ipotesi di nullità delineata dalla Corte costituzionale, da ritenere, per quanto ora detto, “specifica”.

Ad avviso della Corte rimettente, non resterebbe perciò altra soluzione che sollevare la questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame. Essa infatti, non prevedendo la nullità del decreto che dispone il giudizio immediato in caso di mancanza, insufficienza o inesattezza della indicazione dell’avviso circa la facoltà di chiedere riti alternativi, reca un potenziale pregiudizio all’esercizio di tale facoltà. Alla stregua della sentenza della Corte costituzionale n. 497 del 1995, risulterebbero perciò violati: l’art. 3 Cost., a causa della difformità di disciplina per casi - quello regolato dall’art. 552, comma 2, cod. proc. pen. e quello in esame - che «presentano natura sostanzialmente identica»; il diritto inviolabile della difesa in ogni stato e grado del procedimento sancito dall’art. 24 Cost.; l’art. 111 Cost., che riconosce all’imputato il diritto di disporre «del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa».

3. - E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Considerato in diritto

1. - La Corte di appello di Palermo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 456 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la nullità del decreto che ha disposto il giudizio immediato nel caso di mancanza, insufficienza o inesattezza dell’avviso che l’imputato può chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena.

Nel ripercorrere le vicende processuali del giudizio di primo grado, la Corte di appello rimettente aderisce, in punto di fatto, alle argomentazioni svolte dall’imputato appellante nei confronti della sentenza di condanna, rilevando che l’erronea indicazione del termine di sette giorni, anziché di quindici giorni, entro cui l’imputato, a norma del combinato disposto degli artt. 456, comma 2, e 458, comma 1, cod. proc. pen., può chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena, ha determinato «una insufficiente ed, anzi, fuorviante formulazione del prescritto avviso».

Secondo il rimettente, la situazione sarebbe del tutto analoga a quella esaminata da questa Corte nella sentenza n. 497 del 1995, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del previgente art. 555, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la nullità del decreto di citazione a giudizio davanti al pretore in caso di mancanza o insufficienza dell’avviso circa la facoltà dell’imputato di ricorrere ai riti alternativi. A seguito di tale sentenza il legislatore aveva poi introdotto la sanzione di nullità nel comma 2 dell’art. 552 cod. proc. pen., che disciplina il decreto di citazione a giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica. Secondo la difesa della parte privata nel giudizio a quo, l’ipotesi in esame dovrebbe dunque integrare una nullità di ordine generale relativa all’intervento dell’imputato ex art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.

Il rimettente esclude peraltro di poter pervenire in via interpretativa a tale soluzione: dalla stessa sentenza n. 497 del 1995 si desumerebbe infatti che la Corte costituzionale si è risolta a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma allora censurata proprio sul presupposto che l’omissione o l’insufficienza dell’avviso non integra una nullità di ordine generale ricavabile direttamente dall’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.

La Corte di appello solleva pertanto questione di legittimità costituzionale dell’art. 456 cod. proc. pen. per contrasto con l’art. 3 Cost., a causa della difformità di disciplina rispettivamente riservata dall’art. 552, comma 2, cod. proc. pen. e dalla norma in esame a casi che «presentano natura sostanzialmente identica»; con l’art. 24 Cost., per violazione del diritto di difesa; con l’art. 111 Cost., nella parte in cui sancisce il diritto dell’imputato di disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la difesa.

2. - La questione non è fondata nei termini di seguito precisati.

3. - Non vi è dubbio che la sentenza n. 497 del 1995 ha preso in esame un dato normativo – la mancata previsione della sanzione di nullità in caso di omissione dell’avviso del termine stabilito a pena di decadenza dall’allora vigente art. 555, comma 2, cod. proc. pen. per presentare richiesta di giudizio abbreviato – corrispondente a quello dell’art. 456 cod. proc. pen., che contempla anch’esso l’avviso che l’imputato può esercitare la facoltà di chiedere il patteggiamento o il giudizio abbreviato entro un termine stabilito a pena di decadenza, ma non prevede espressamente alcuna sanzione processuale in caso di mancanza o insufficienza dell’avviso.

In effetti, tenuto conto della natura di atto complesso del decreto di citazione a giudizio davanti al pretore e della struttura bifasica che connotava il relativo procedimento, la sanzione di nullità introdotta dalla sentenza n. 497 del 1995 in caso di omissione dell’avviso trovava «la sua ragione essenzialmente nella perdita irrimediabile della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato» entro il termine di quindici giorni stabilito a pena di decadenza (v. sentenza n. 101 del 1997), in un contesto processuale del tutto omogeneo alla disciplina oggi censurata.

Anche nell’ipotesi in esame il termine di decadenza entro cui chiedere l’applicazione della pena o il giudizio abbreviato è anticipato rispetto alla fase dibattimentale, sicché la mancanza o l’insufficienza del relativo avvertimento può determinare la perdita irrimediabile della facoltà di accedere a tali procedimenti speciali. La violazione della regola processuale che impone di dare all’imputato (esatto) avviso della sua facoltà comporta perciò anche in questo caso la violazione del diritto di difesa.

Al riguardo, questa Corte ha più volte ribadito che la richiesta di riti alternativi costituisce una modalità di esercizio del diritto di difesa (cfr., tra molte, oltre alla sentenza n. 497 del 1995, le sentenze n. 76, n. 101 e n. 214 del 1993, n. 265 del 1994, n. 70 del 1996, tutte nel senso che sarebbe lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali per un errore a lui non imputabile). Da ultimo nella sentenza n. 120 del 2002, proprio in relazione al termine per presentare richiesta di giudizio abbreviato dopo la notificazione del decreto di giudizio immediato, la Corte ha puntualizzato che il diritto di difesa va qui inteso come possibilità di ricorrere anche all’assistenza tecnica del difensore, stabilendo che il termine deve decorrere dall’ultima notificazione, all’imputato o al difensore, del decreto ovvero dell’avviso della data fissata per il giudizio immediato.

Tuttavia non è esatto ritenere, come fa il rimettente, che l’ordinamento vigente non preveda, nell’ipotesi in esame, la nullità del decreto per mancanza o insufficienza dell’avviso. L’effettivo esercizio della facoltà di chiedere i riti alternativi costituisce infatti una delle più incisive forme di “intervento” dell’imputato, cioè di partecipazione “attiva” alle vicende processuali, con la conseguenza che ogni illegittima menomazione di tale facoltà, risolvendosi nella violazione del diritto sancito dall’art. 24, secondo comma, Cost., integra la nullità di ordine generale sanzionata dall’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.

Contrariamente all’assunto del giudice rimettente, questa conclusione non è smentita dalla sentenza n. 497 del 1995, il cui reale valore prescrittivo risiede nella affermazione che il diritto di difesa è suscettibile di essere leso ogni volta che l’omissione o l’insufficienza dell’avvertimento circa la facoltà di chiedere i riti alternativi, tale da pregiudicarne irreparabilmente l’esercizio, non sia sanzionata con la nullità.

La norma censurata deve perciò essere applicata, in combinato disposto con l’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., nel senso che l’omissione o l’insufficienza dell’avviso circa la facoltà di chiedere i riti alternativi determina una nullità di ordine generale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 456 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte di appello di Palermo, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 13 maggio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 25 maggio 2004.