Sentenza n. 284 del 2003

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SENTENZA N.284

 

ANNO 2003

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Riccardo                     CHIEPPA                                                  Presidente

 

- Gustavo                      ZAGREBELSKY                                        Giudice

 

- Valerio                        ONIDA                                                              “

 

- Carlo                           MEZZANOTTE                                                “

 

- Fernanda                     CONTRI                                                            “

 

- Guido                         NEPPI MODONA                                            “

 

- Piero Alberto              CAPOTOSTI                                                     “

 

- Annibale                     MARINI                                                            “

 

- Franco                         BILE                                                                  “

 

- Giovanni Maria           FLICK                                                               “

 

- Ugo                             DE SIERVO                                                      “

 

- Romano                      VACCARELLA                                               “

 

- Paolo                           MADDALENA                                                 “

 

- Alfio                           FINOCCHIARO                                               “

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 314 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 26 aprile 2002 dalla Corte d’appello di Palermo, iscritta al n. 329 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2002.

 

Udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

 

Ritenuto in fatto

 

1. ¾ Con ordinanza in data 26 aprile 2002, la Corte d’appello di Palermo, chiamata a decidere su una domanda di riparazione per ingiusta detenzione, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale “nella parte in cui limita la possibilità di ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione esclusivamente in relazione alla custodia cautelare eventualmente sofferta dagli istanti ingiustamente (e nei casi in cui la carcerazione sia conseguenza di un ordine di carcerazione emesso illegittimamente) e non anche in relazione alle ipotesi di istanti che abbiano subito l’ingiusta detenzione in esecuzione di un ordine di carcerazione inizialmente legittimo ma che, per un fatto sopravvenuto alla sua emissione, andava revocato”.

La Corte d’appello riferisce che nella specie l’istante, il quale aveva subito un periodo di detenzione protrattosi per 39 mesi in esecuzione della sentenza 3 marzo 1997 della Corte d’appello di Palermo, nella domanda di riparazione per ingiusta detenzione aveva dedotto che: 1) l’ordine di esecuzione era stato dichiarato illegittimo dalla Corte d’appello di Palermo, a seguito di annullamento con rinvio della precedente ordinanza della medesima Corte in data 1° settembre 2000, disposto dalla Corte di cassazione, con sentenza del 12 febbraio 2001, per violazione del principio del ne bis in idem, essendo intervenuta sui medesimi fatti sentenza di condanna emessa in data 24 giugno 1987 dalla Corte distrettuale di New York, con applicazione di pena detentiva già scontata negli Stati Uniti d’America; 2) che la sentenza di condanna emessa dalla Corte americana era stata riconosciuta in Italia il 9 giugno 2000, con conseguente illegittimità dell’ordine di carcerazione emesso a seguito della sentenza del 3 marzo 1997 della Corte d’appello di Palermo, con la quale egli era stato condannato a sei anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere.

 

Il remittente ricorda che questa Corte, con la sentenza n. 310 del 1996, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di carcerazione, ma ritiene che tale pronuncia nella specie non sia applicabile, poiché essa si riferirebbe ai soli casi di ordine di carcerazione originariamente illegittimo, ma non anche a quelli di ordine legittimamente emesso, ma revocabile per un fatto sopravvenuto. Non potrebbe d’altronde applicarsi l’art. 643 cod. proc. pen., concernente la riparazione dell’errore giudiziario, dal momento che, pur riferendosi tale disposizione alla ingiusta espiazione di una pena definitiva, essa presuppone un successivo giudizio di revisione, che nella specie non c’è stato. Il sistema sarebbe quindi lacunoso giacché non sarebbe prevista alcuna riparazione per l’ingiusto protrarsi della detenzione a causa dell’omessa revoca dell’ordine di carcerazione per fatti sopravvenuti. Né sarebbe utilmente esperibile il rimedio dell’opposizione all’ordine di esecuzione divenuto illegittimo per fatti sopravvenuti: tale procedura, se tempestivamente avviata, consentirebbe solo di ottenere la sospensione dell’esecuzione della pena, ma non offrirebbe al condannato alcun ristoro per la parte di pena già ingiustamente subita (art. 666 cod. proc. pen.). Di qui, ad avviso del remittente, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., e la rilevanza della questione sollevata.

 

Considerato in diritto

 

1. ¾ Viene all’esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 314 del codice di procedura penale, sollevata dalla Corte d’appello di Palermo in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, “nella parte in cui limita la possibilità di ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione esclusivamente in relazione alla custodia cautelare eventualmente sofferta dagli istanti ingiustamente (e nei casi in cui la carcerazione sia conseguenza di un ordine di carcerazione emesso illegittimamente) e non anche in relazione alle ipotesi di istanti che abbiano subito l’ingiusta detenzione in esecuzione di un ordine di carcerazione inizialmente legittimo ma che, per un fatto sopravvenuto alla sua emissione, andava revocato”.

In punto di fatto, il giudice a quo riferisce che la domanda di riparazione per ingiusta detenzione è stata proposta da una persona che aveva espiato trentanove mesi di detenzione a seguito di ordine di esecuzione emesso sulla base di sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’appello di Palermo. Per lo stesso fatto, era in precedenza intervenuta condanna negli Stati Uniti d’America ad una pena  già espiata in quel Paese. Di qui il convincimento del remittente che la domanda non potesse trovare accoglimento alla stregua della normativa vigente, giacché, nonostante l’intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione (sentenza n. 310 del 1996), il riconoscimento del diritto alla riparazione presupporrebbe pur sempre la illegittimità dell’ordine di esecuzione. Ipotesi, questa, che non potrebbe ritenersi sussistente nella specie, in quanto l’ordine di esecuzione sarebbe stato del tutto legittimo al momento della sua adozione e sarebbe invece divenuto illegittimo solo successivamente a causa dell’accertamento della identità del fatto.

2. ¾ La questione non è fondata.

 

In base all’articolo 6 del codice penale, chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana; il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione o dell’omissione. Può dunque accadere che per un fatto già giudicato all’estero si instauri in Italia un secondo giudizio. Ciò è possibile in fase di cognizione, dove si reputa sia ancora il principio di sovranità a tenere il campo, e dove lo Stato, in assenza di convenzioni internazionali e salvo il rispetto di ogni altro principio costituzionale, modula  in piena autonomia i criteri di collegamento della giurisdizione penale. Ma non è così in sede esecutiva, dove prevale su ogni altra valutazione la considerazione della persona del condannato ed opera il ne bis in idem in fase di espiazione della pena: ripugna ai principî che sorreggono il nostro ordinamento l’idea stessa che una persona, per un medesimo fatto, possa espiare la pena due volte, seppure in Stati diversi. L’art. 138 cod. pen. dispone infatti che quando il giudizio celebrato all’estero è rinnovato nello Stato la pena scontata all’estero è sempre computata tenendo conto della specie di essa.

 

In sede di riparazione per la detenzione che si assume ingiustamente sofferta per duplicazione della pena è assorbente l’accertamento della identità del fatto e dell’avvenuta espiazione, proprio per quel fatto, di una pena detentiva. Ma una volta che tale accertamento vi sia stato e abbia dato esito positivo, non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen. - che a seguito della sentenza n. 310 del 1996 di questa Corte comprende anche le ipotesi di detenzione subita sulla base di un ordine di esecuzione erroneo - la circostanza che, nel momento dell’adozione dell’ordine di esecuzione, la sussistenza di fatti che lo proibivano o che avrebbero dovuto indurre alla riduzione della pena da scontare fosse ignota. Non è questo l’ambito sul quale il giudice della riparazione deve portare la sua cognizione. Egli è soltanto tenuto a verificare, con valutazione ex post, se la pena indicata nell’ordine di esecuzione non fosse già stata espiata, in tutto o in parte, all’estero, e ciò proprio perché in tale caso quella pena, sin dall’inizio, non poteva essere posta in esecuzione nella sua interezza.

 

Il fenomeno della illegittimità sopravvenuta, entro il quale il remittente vorrebbe inquadrare la vicenda, non assume, di regola, alcun rilievo ai fini dell’equa riparazione. Anche un ordine di esecuzione subiettivamente legittimo nel momento in cui è stato adottato risulta obiettivamente contra jus se successivamente si accerta che la pena in tutto o in parte era già stata espiata. La portata prescrittiva dell’art. 138 cod. pen. è nel senso che quella pena deve essere necessariamente conteggiata nell’ordine di carcerazione, sicché, quali che siano le ragioni che hanno impedito un computo tempestivo, la violazione della norma resta e, con essa, il vulnus alla libertà personale.

 

Questa Corte ha, del resto, già chiarito che il riconoscimento del diritto all’equo indennizzo non è precluso dalla legittimità del provvedimento che determina la privazione della libertà personale, né richiede che la detenzione sia conseguenza di una condotta illecita. Ciò che rileva è l’obiettiva ingiustizia di quella privazione che, per la qualità del bene coinvolto, postula una misura riparatoria (sentenza n. 446 del 1997).

 

3. ¾ In conclusione, la fattispecie su cui il remittente è chiamato a pronunciarsi rientra appieno nella sfera applicativa dell’art. 314 cod. proc. pen., in forza di quanto già statuito da questa Corte con la sentenza n. 310 del 1996, che ha esteso alle ipotesi di ordine di esecuzione erroneo il diritto alla riparazione della ingiusta detenzione.

 

Per questi motivi

 

La Corte costituzionale

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 314 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Palermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2003.