Sentenza n. 82/2003

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SENTENZA N.82

ANNO 2003

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori Giudici:

- Riccardo CHIEPPA, Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

- Ugo DE SIERVO     

- Romano VACCARELLA    

- Paolo MADDALENA          

- Alfio FINOCCHIARO        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso con ordinanza del 18 ottobre 2001 emessa dal Tribunale di Pisa nel procedimento civile vertente tra Alberto Agonici ed altro e il Ministero della giustizia, iscritta al n. 957 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il Giudice relatore Franco Bile.

Ritenuto in fatto

  1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe - resa nel corso di un giudizio promosso da dipendenti del Ministero della giustizia, per ottenere il pagamento dei benefici retributivi previsti dal d.P.R. n. 344 del 1983 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 29 aprile 1983 concernente il personale dei Ministeri ed altre categorie) con interessi e rivalutazione monetaria - il Tribunale di Pisa ha proposto, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 35 e 36 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

Il Giudice rimettente ritiene che tale norma - prevedendo l'applicazione agli emolumenti di natura retributiva spettanti ai pubblici dipendenti dell'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) - "esprime il divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti del pubblico dipendente".

  Premesso che, a seguito della riforma del 1993 (integrata dai successivi interventi, fino al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 "Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche"), il rapporto di lavoro del pubblico dipendente privatizzato deve ormai definirsi regolato dalle norme relative al lavoro subordinato nell'impresa (identica essendo la causa del contratto), il rimettente afferma che la pubblica amministrazione-datore di lavoro, una volta costituito il rapporto con il suo dipendente, non possa più esercitare, nella gestione del contratto, alcun potere pubblico.

  Pertanto, rappresentando la retribuzione del pubblico dipendente un credito di lavoro, le conseguenze del ritardato pagamento dovrebbero essere regolate dall'art. 429 del codice di procedura civile, secondo cui il giudice, quando pronuncia condanna in favore del lavoratore, provvede, anche d'ufficio, a liquidare sulla somma rivalutata gli interessi e la rivalutazione monetaria, così realizzando una forma di tutela differenziata in favore della parte sostanzialmente e processualmente più debole.

  Viceversa, il credito di lavoro del pubblico dipendente (sebbene di natura identica a quello del lavoratore dipendente privato) non è assistito dalla regola del cumulo di interessi e rivalutazione, ma dal diverso criterio dell’assorbimento già dettato per i crediti previdenziali dall'art. 16, comma 6 della legge n. 412 del 1991.

La norma impugnata, pertanto, si pone in contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto il trattamento del credito retributivo del dipendente pubblico risulta diverso da quello del dipendente privato, rispetto al quale il censurato divieto di cumulo non opera a seguito della sentenza n. 459 del 2000 di questa Corte.

Essa lede altresì l'art. 24 Cost., giacché l’esclusione del cumulo agevola ingiustificatamente una delle parti processuali, che trae vantaggio dal proprio inadempimento.

Né, infine – a giudizio del Tribunale – la tutela dei principi di protezione del lavoro e di solidarietà sociale può essere subordinata ad esigenze del bilancio pubblico, non avendo tali esigenze carattere assoluto, e non potendo comprimere diritti costituzionalmente garantiti, attinenti al sostentamento di soggetti meritevoli di protezione differenziata. Ne risulta quindi la lesione degli artt. 2, 4 e 35 della Costituzione.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso nel senso della non fondatezza della sollevata questione, svolgendo una analitica ricostruzione del sistema di liquidazione degli accessori del credito retributivo dovuto al lavoratore e delle ragioni di contenimento della spesa pubblica sottese ai ripetuti interventi legislativi e giurisdizionali in materia, per effetto dei quali, attualmente (a seguito della citata sentenza n. 459 del 2000), i soli trattamenti retributivi dei lavoratori dipendenti privati sono assoggettati al regime del cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria di cui all'interpretazione corrente dell'art. 429 cod. proc. civ., mentre i trattamenti retributivi dei lavoratori pubblici ed i crediti previdenziali sono assoggettati al regime dell'assorbimento di cui all'art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991.

L'Avvocatura erariale osserva che tale diversità è giustificata dall'esigenza di risanamento della finanza pubblica, che impone un necessario contemperamento della tutela del pubblico dipendente con le disponibilità della finanza pubblica; comunque, tale contemperamento si estrinseca pur sempre – attraverso i caratteri di specialità del regime de quo rinvenibili nello stesso terzo comma dell'art. 429 cod. proc. civ. – in un regime privilegiato e più garantista rispetto a quello generale dei crediti pecuniari cui all'art. 1224 cod. civ.

Quanto, poi, alla ragionevolezza del diverso trattamento tra categorie di dipendenti, l'Avvocatura rileva che il rapporto di lavoro contrattualizzato con le pubbliche amministrazioni e il rapporto di lavoro subordinato privato rimangono diversi, onde non è possibile ricostruire le loro discipline in termini unitari. Pertanto, la normativa in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni costituisce un corpus dotato di autonomia, rispetto al quale non è affatto scontato l'automatico ed integrale richiamo ai principi ed alle interpretazioni affermate nel settore del lavoro alle dipendenze dei privati.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Pisa dubita della legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). A giudizio del rimettente la norma - nella parte in cui prevede che il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione monetaria posto dall'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), si applica anche all’ipotesi di ritardo nella corresponsione degli emolumenti di natura retributiva spettanti ai pubblici dipendenti – si pone in contrasto: a) con l'art. 36 della Costituzione, in quanto il credito di lavoro, avendo funzione alimentare, richiede comunque una tutela differenziata in favore della parte sostanzialmente e processualmente debole del rapporto, a prescindere dalla posizione soggettiva del datore di lavoro; b) con l'art. 3 Cost., per disparità di trattamento derivante dal fatto che il criterio del cumulo di interessi e rivalutazione monetaria si applica invece (a seguito della sentenza di questa Corte n. 459 del 2000) ai lavoratori dipendenti privati, nonostante l'intervenuta integrale equiparazione del rapporto di lavoro pubblico al rapporto privato e l'identica situazione di debolezza in cui versa il lavoratore; c) con l'art. 24 Cost., poiché l’esclusione del cumulo agevola ingiustificatamente una delle parti processuali, che trae indebito vantaggio dal proprio inadempimento; d) con gli artt. 2, 4 e 35 Cost., in quanto la prioritaria tutela riservata all’individuo, in tutte le sue manifestazioni, deve determinare, in caso di concorrenza, la recessione di ogni altro diverso valore, pur di rango costituzionale, comprese le esigenze di risanamento della finanza pubblica.

  2. – La questione non è fondata.

  Questa Corte, con la sentenza n. 459 del 2000, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma oggetto dell’odierno scrutinio, nella parte in cui estendeva all’ipotesi dell’inadempimento dei crediti retributivi dei lavoratori subordinati privati la regola della non cumulabilità degli interessi e della rivalutazione monetaria, già prevista per i crediti previdenziali dall’art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, così sottraendoli al regime di cui all’art. 429, terzo comma, del codice di procedura civile. E nell’occasione ha rilevato, tra l’altro, che la materia concernente le conseguenze del ritardato adempimento dei crediti di lavoro non è estranea alla garanzia costituzionale della giusta retribuzione, giacché la puntualità della corresponsione del dovuto concorre, insieme alla congruità del suo ammontare, ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita.

Questo ovviamente – il punto deve essere ribadito anche in questa sede – non significa affatto che il meccanismo del cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, di cui al terzo comma dell’art. 429 cod. proc. civ., debba ritenersi principio costituzionalizzato. Vuol dire solamente che il legislatore è libero di sostituire quel meccanismo con altro, restando ferma la necessità di riconoscere ai crediti di lavoro un’effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, cui si riferisce l’art. 1224 cod. civ., ponendo una remora all’inadempimento del datore di lavoro mediante la previsione di un meccanismo di riequilibrio del vantaggio patrimoniale indebitamente da lui conseguito.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di cumulo di interessi e rivalutazione - relativamente al rapporto di lavoro privato - risulta decisivamente fondata sulla constatazione che la norma impugnata poteva incentivare l’inadempimento del datore di lavoro, consentendogli di lucrare (con investimenti finanziari, pur privi di rischio) l’eventuale differenziale tra il rendimento dell’investimento ed il tasso di svalutazione.

Siffatta ratio decidendi non può essere automaticamente estesa al datore di lavoro pubblico. La pubblica amministrazione infatti conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare (sentenza n. 275 del 2001), sotto il profilo – per quanto qui rileva - della conformazione della condotta cui essa è tenuta durante lo svolgimento del rapporto al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, cui è estranea ogni logica speculativa.

3. – Non esistendo una necessità di predisporre per il datore di lavoro pubblico le stesse remore all’inadempimento, deve escludersi quella omogeneità di situazioni, cui il rimettente ricollega l’asserita lesione del principio di uguaglianza posto dall’art. 3 della Costituzione.

4. - D’altro canto, la norma impugnata prevede per gli accessori dei crediti di lavoro pubblico una disciplina comunque diversificata rispetto a quella dei crediti comuni, e per taluni aspetti più favorevole per il lavoratore, giacché gli attribuisce automaticamente il beneficio della rivalutazione a titolo di maggior danno e lo esonera dall’onere della relativa prova.

Pertanto, la tutela della giusta retribuzione di cui all’art. 36 della Costituzione, nel senso chiarito dalla sentenza n. 459 del 2000, deve ritenersi assicurata anche per i lavoratori dipendenti dalle pubbliche amministrazioni.

5. - Quanto poi alla dedotta lesione del diritto di azione e di difesa del lavoratore, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il parametro dell’art. 24 della Costituzione non è evocabile in riferimento a norme sostanziali (quale quella in questione).

6. – Le censure di violazione degli artt. 2, 4 e 35 della Costituzione si risolvono in una diversa prospettazione di quelle precedentemente esaminate, onde – al pari di esse – devono essere dichiarate non fondate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 24, 35 e 36 della Costituzione, dal Tribunale di Pisa, con l’ordinanza in epigrafe.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Franco BILE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2003.