Ordinanza n. 421 del 2002

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SENTENZA N.421

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

 

- Riccardo CHIEPPA

 

- Gustavo ZAGREBELSKY

 

- Valerio ONIDA

 

- Carlo MEZZANOTTE

 

- Fernanda CONTRI

 

- Guido NEPPI MODONA

 

- Piero Alberto CAPOTOSTI

 

- Annibale MARINI

 

- Franco BILE

 

- Giovanni Maria FLICK

 

- Francesco AMIRANTE

 

- Ugo DE SIERVO

 

- Romano VACCARELLA

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 18 marzo 1998 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Vittorio Sgarbi nei confronti della prof.ssa Loredana Olivato, promosso con ricorso del Tribunale di Roma, notificato il 21 dicembre 2001, depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2002 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti 2002.

Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

udito nell’udienza pubblica del 21 maggio 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

udito l’avv. Massimo Luciani per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

 

1. Il Tribunale di Roma, con ricorso depositato il 15 febbraio 2001, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla deliberazione assunta dall’Assemblea in data 18 marzo 1998 (doc. IV-ter, n. 37/A), nel corso di un giudizio civile promosso da Loredana Olivato contro il deputato Vittorio Sgarbi e la R.T.I. - Reti Televisive Italiane s.p.a. Tale giudizio ha ad oggetto il risarcimento del danno per il pregiudizio arrecato dal deputato Sgarbi all’onore ed alla reputazione della Olivato, con "affermazioni gravemente offensive e diffamatorie", relative "alla prova di esame per l’ammissione ai ruoli di professore universitario in storia dell’arte da egli stesso sostenuta nell’anno 1990, ed al ruolo svolto al riguardo dal membro della commissione prof.ssa Olivato". Le affermazioni in questione sono state rese dal predetto deputato nel corso delle trasmissioni televisive "Sgarbi quotidiani", della rete "Canale 5" nei giorni 12 e 19 novembre 1994, nonché 9 febbraio e 14 marzo 1995; con la deliberazione in questione é stato dichiarato che le espressioni pronunciate dal deputato Sgarbi, nel corso di dette trasmissioni televisive, rientrano nell’ambito di immunità previsto dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Il Tribunale, dopo aver ampiamente evidenziato - riproducendone diffusi stralci - il contenuto delle dichiarazioni oggetto della delibera di insindacabilità, adottata dall’Assemblea "in difformità dalle valutazioni espresse dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere", ha sottolineato, anzitutto, come la condotta del parlamentare, al fine di poter godere della prerogativa della irresponsabilità, debba esprimersi necessariamente "attraverso opinioni correlate alla funzione svolta". Ad avviso del ricorrente, fuori di tale ambito, "l’unica garanzia invocabile è quella della libera manifestazione del pensiero, che l’art. 21 Cost. assicura a tutti i consociati": sicché, è soltanto il nesso di strumentalità "che intercorre rispetto all’ufficio ricoperto" a ricondurre l’opinione alla funzione e non già il suo, maggiore o minore,"tasso di politicità". Peraltro - prosegue il ricorrente - l’equilibrio tra autonomia parlamentare e principio di legalità-giurisdizione richiede che il sacrificio dell’onore della persona "sia indispensabile per soddisfare il valore antagonista" del libero svolgimento della attività parlamentare; e un tale bilanciamento postula "non solo l’essenzialità della condotta ai fini dell’esercizio della funzione", ma anche "quella contenutezza e misura che renda minima l’offesa al bene sacrificato".

Il ricorrente richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 10 e 11 del 2000, n. 329 e 417 del 1999, n. 289 del 1998 e n. 375 del 1997), secondo il quale la prerogativa della insindacabilità "non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare, ma solo quelle legate da "nesso funzionale" con le attività svolte "nella qualità" di membro delle Camere": così da non potersi riconoscere tale nesso nel "semplice collegamento di argomento o di contesto tra attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare". Il Tribunale reputa che "nella specie siano assolutamente carenti i profili esposti"; pertanto, a suo avviso, non può essere condivisa la delibera di insindacabilità, dovendosi ritenere che "le affermazioni rese dal deputato Sgarbi non abbiano contenuto politico-parlamentare e non possano quindi essere ricomprese nella previsione" dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Secondo il ricorrente, ciò deve dirsi ancor più perché quelle affermazioni sono state "rese nel corso di una trasmissione televisiva da persona che, pur essendo rivestita all’epoca di incarichi di rappresentanza popolare, non aveva nella veste indicata alcuna funzione politico-parlamentare".

Tale, del resto – si evidenzia ancora nel ricorso – risulta essere stata anche la valutazione espressa dalla stessa Giunta per le autorizzazioni a procedere, con decisione presa all’unanimità il 6 agosto 1996, nella quale si pone in risalto, tra l’altro: che il deputato Sgarbi, nell’occasione, "non svolgeva la sua funzione parlamentare sub specie di attività connessa, ma esercitava una attività professionale di conduttore ed opinionista televisivo"; che le affermazioni rese "esprimono null’altro che dileggio, insulto gratuito, ingiuria"; che la relativa "vicenda ha connotazioni di esclusiva rilevanza personale, giacchè trae origine da avvenimenti per nulla connessi alla funzione parlamentare del deputato Sgarbi, ma relativi alla vita privata dello stesso, in tal guisa dovendosi ritenere la sua partecipazione ad una procedura concorsuale predisposta per il conseguimento dell’idoneità dei partecipanti all’insegnamento universitario".

Il Tribunale ricorrente sostiene dunque, conclusivamente, "che la deliberazione assunta il 18 marzo 1998 dalla Camera di appartenenza non sia conforme all’ordinamento costituzionale (art. 68 Cost.) e debba quindi essere annullata".

2. Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 391 del 2001. L’ordinanza è stata ritualmente notificata il 21 dicembre 2001 ed il conseguente deposito è stato eseguito il 9 gennaio 2002.

3. Con atto depositato il 10 gennaio 2002, la Camera dei deputati si è costituita nel giudizio deducendo l’inammissibilità del conflitto e comunque l’infondatezza delle pretese del ricorrente.

Il conflitto sarebbe infatti inammissibile anzitutto perchè, mentre l’ordinanza n. 391 del 2001 di questa Corte aveva disposto la notificazione del ricorso con l’ordinanza stessa alla Camera in persona del suo Presidente, il ricorso era stato notificato al Presidente della Camera e non a quest’ultima (in persona del suo Presidente). La difesa della Camera osserva al riguardo che il Presidente è titolare di attribuzioni specifiche, le quali, pur derivando dalla titolarità della carica di Presidente della assemblea parlamentare, non si esauriscono in essa; sicché – deduce la resistente – la notificazione del ricorso per conflitto al Presidente della Camera dei deputati non equivale alla notificazione del ricorso alla Camera medesima in persona del suo Presidente.

L’atto introduttivo sarebbe poi inammissibile in quanto, pur recando la denominazione di ricorso, lo stesso presenterebbe "caratteristiche tipiche dell’ordinanza, come si evince dalla sua parte dispositiva", ove si fa riferimento alle "parti in causa", quali destinatarie ulteriori della notificazione : circostanza, questa, che si attaglia al giudizio incidentale di legittimità costituzionale, da promuovere, appunto, con la forma della ordinanza.

Nella specie, inoltre, il ricorso introduttivo del conflitto non conterrebbe alcuna indicazione del petitum, né delle "ragioni del conflitto", né della attribuzione che intende difendere. Quanto alla carenza del petitum, la Camera resistente sottolinea che il ricorso si limita a fare riferimento alla deliberazione assunta dalla Camera; sicché l’ipotesi in esame sarebbe del tutto analoga a quella già scrutinata da questa Corte nella sentenza n. 363 del 2001. Accanto a ciò, la difesa della Camera rileva che il Tribunale di Roma "sembra promuovere - sì - il conflitto, ma non chiede alla Corte di dichiarare che non spetta alla Camera il potere di qualificare come insindacabili le opinioni contestate, e per soprammercato non chiede l’annullamento della delibera della Camera in data 18 marzo 1998. Non chiede nemmeno che la Ecc.ma Corte risolva il conflitto, ciò che, comunque, non sarebbe stato sufficiente ai fini della valida instaurazione del giudizio (così sent. n. 364 del 2001)". Alla luce dei principî affermati nella sentenza n. 363 del 2001, sarebbe carente anche l’esposizione delle "ragioni del conflitto"; le argomentazioni del ricorrente si ridurrebbero, infatti, alla "elencazione di una serie di precedenti giurisprudenziali utili (a suo avviso) al fine della astratta determinazione del concetto di attività parlamentare e della nozione di nesso funzionale", senza alcun esame del caso concreto e della attività di sindacato ispettivo svolta dal deputato Sgarbi. Infine, identici rilievi vengono svolti in merito alla asserita, mancata indicazione della attribuzione che il ricorrente intende difendere, ancora una volta alla luce di quanto affermato nella sentenza di questa Corte n. 363 del 2001.

Nel merito, il ricorso sarebbe comunque infondato. Dopo aver passato in rassegna la giurisprudenza costituzionale in tema di insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari, a norma dell’art. 68 Cost., la difesa della Camera sottolinea come, agli effetti della garanzia costituzionale, occorra distinguere tra la generica attività politica - estranea a quella previsione – e l’attività di politica parlamentare, nei cui confronti la garanzia costituzionale non può ritenersi circoscritta alla semplice discussione parlamentare. Infatti, la circostanza che le opinioni connesse alla politica parlamentare "siano state manifestate extra anziché intra moenia è meramente accidentale, e non può essere alla base di un trattamento deteriore, che porrebbe a rischio l’autonomia del parlamentare (e, con questa, quella dell’istituzione di appartenenza)". Ai fini della garanzia costituzionale, è dunque sufficiente una "oggettiva connessione delle opinioni con il "complessivo contesto parlamentare", e cioè con i contenuti (di volta in volta modificati) della "politica parlamentare"".

Inoltre, ad avviso della resistente, la corrispondenza sostanziale tra atto parlamentare tipico e dichiarazione extra moenia (secondo quanto si desumerebbe dalle sentenze nn. 320 e 321 del 2000), sarebbe soltanto "una delle ipotesi di riconducibilità della dichiarazione alla funzione parlamentare, ancorché sia quella che si verifica "normalmente"". Perciò l’esigenza di tutela dell’autonomia delle Camere, "in equilibrato raffronto con l’esigenza di tutela della funzione giurisdizionale, impone di "circoscrivere la cognizione della Corte, limitandone gli interventi a casi estremi, quando il potere parlamentare sconfini nell’arbitrio"". Le dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi, dunque, dovrebbero essere ricondotte nell’alveo della garanzia costituzionale, essendo le stesse episodi di un polemica da tempo condotta dal parlamentare nei confronti del mondo universitario, come emergerebbe anche da alcuni atti parlamentari.

4. Con memoria depositata in prossimità della udienza, la difesa della Camera ha in sintesi ribadito le eccezioni e le deduzioni svolte nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

 

1. Il conflitto di attribuzioni, promosso dal Tribunale di Roma nei confronti della Camera dei deputati, investe la deliberazione adottata dalla Assemblea nella seduta del 18 marzo 1998, con la quale - respingendo la proposta formulata dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere - essa ha dichiarato che i fatti per i quali è in corso il procedimento davanti al medesimo Tribunale, di cui al doc. IV-ter, n. 37/A, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e sono pertanto insindacabili, a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Tale conflitto riguarda un giudizio civile promosso da Loredana Olivato contro il deputato Vittorio Sgarbi e la R.T.I. - Reti Televisive Italiane s.p.a., al fine di ottenere il risarcimento del danno per il pregiudizio subito al proprio onore ed alla propria reputazione in conseguenza della "particolare offensività delle espressioni adoperate dallo Sgarbi" nel corso delle trasmissioni televisive "Sgarbi quotidiani", del 12 e 19 novembre 1994, 9 febbraio e 14 marzo 1995 della rete televisiva "Canale 5": trasmissioni durante le quali il parlamentare, nella veste di conduttore, aveva formulato le espressioni reputate diffamatorie, "riferendosi alla prova di esame per l’ammissione ai ruoli di professore ordinario in storia dell’arte da egli stesso sostenuta nell’anno 1990, ed al ruolo svolto al riguardo dal membro della commissione prof.ssa Olivato".

Il ricorrente rileva come la giurisprudenza di questa Corte abbia da tempo messo a fuoco la circostanza che la prerogativa costituzionale della insindacabilità, sancita dall’art. 68, primo comma, della Carta fondamentale, non è destinata a presidiare tutte le opinioni espresse dal parlamentare - determinandosi altrimenti la sua trasformazione in un privilegio personale - ma soltanto quelle legate da uno specifico nesso funzionale con le attività svolte nella qualità di membro della Camera. Questo nesso - ad avviso del ricorrente - si specifica ulteriormente nel senso che, a fondare l’anzidetta garanzia, non basta il semplice collegamento di argomenti o di contesto politico tra attività parlamentare e affermazioni in ipotesi lesive dell’altrui reputazione; ma occorre la sostanziale corrispondenza di significati tra le dichiarazioni rese al di fuori dell’esercizio delle attività parlamentari tipiche svolte in Parlamento, e le opinioni già espresse nell’ambito di queste ultime. Da tutto ciò il ricorrente desume l’illegittimità della deliberazione assunta nella specie dalla Camera, poiché le affermazioni del deputato Sgarbi sarebbero state rese al di fuori dell’esercizio di qualsiasi funzione politico-parlamentare, come d’altra parte puntualmente evidenziato nel parere espresso sulla vicenda dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere.

2. Le varie eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate dalla difesa della Camera dei deputati, devono essere respinte.

La resistente lamenta, anzitutto, un preteso vizio del procedimento di notificazione del ricorso e della ordinanza di ammissibilità del conflitto, in quanto gli atti sarebbero stati notificati al Presidente della Camera dei deputati e non alla Camera in persona del suo Presidente. Viene infatti dedotto che il Presidente, "nella sua individua qualità", è soggetto autonomo e diverso dalla Camera e che entrambi sono poteri dello Stato. L’eccezione non è fondata. In effetti - come risulta dagli atti - il cancelliere del Tribunale di Roma ha, con nota di cancelleria , disposto la notificazione al "Sig. Presidente della Camera dei deputati della Repubblica Palazzo Montecitorio 00186 Roma"; ma tale modo di procedere è regolare in quanto, avendo questa Corte prescritto che la notificazione fosse eseguita - come pure sottolinea la Camera resistente - alla "Camera dei deputati, in persona del suo Presidente", è proprio a questi che il cancelliere doveva "indirizzare" la notificazione, agli effetti degli adempimenti che dovevano essere posti in essere dall’ufficiale giudiziario o da chi ne esercitava le funzioni. D’altra parte, è evidente come, non sussistendo nella specie - avuto riguardo alla qualità dell’accipiens ed alla natura degli atti da notificare - dubbi di sorta circa il destinatario della notificazione, ed avendo il relativo procedimento per tabulas raggiunto i propri effetti, deve concludersi nel senso che la seconda fase del procedimento per conflitto sia stata - per questo aspetto - ritualmente introdotta.

Si deduce, poi, la inammissibilità del conflitto in quanto l’atto introduttivo, ancorché formalmente qualificato come "ricorso", avrebbe alcune caratteristiche tipiche della ordinanza, come si ritiene di desumere dal fatto che il giudice ha disposto la sua notificazione "alle parti in causa": quest’ultima espressione - priva di senso in un procedimento per conflitto - denoterebbe l’adozione di forme tipiche del giudizio incidentale. Anche tale eccezione è destituita di fondamento; nessun argomento viene addotto per superare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il conflitto proposto dalla autorità giudiziaria può essere introdotto da un atto che abbia comunque, come nella specie, i requisiti del ricorso (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 51 del 2002).

Si prospetta, inoltre, una carente individuazione del petitum, in quanto il Tribunale di Roma ha promosso il conflitto, ma avrebbe omesso la richiesta di dichiarare che non spetta alla Camera il potere di qualificare come insindacabili le opinioni contestate; non avrebbe chiesto neppure "l’annullamento della delibera della Camera in data 18 marzo 1998"; non avrebbe chiesto, infine, alla Corte di risolvere il conflitto. Al riguardo, è anzitutto errata l’affermazione secondo la quale il giudice confliggente non avrebbe formulato richiesta di annullamento della deliberazione di insindacabilità, giacché tale domanda risulta espressamente formulata nella parte finale del ricorso, immediatamente prima delle conclusioni. Nella stessa frase finale, poi, si afferma che quella delibera deve ritenersi - ed in ciò si qualifica la ratio essendi del conflitto - non "conforme all’ordinamento costituzionale", richiamando il relativo e pertinente parametro di riferimento (art. 68 Cost.). E’ evidente, dunque, come l’esplicito richiamo alla violazione dei presupposti che, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, quel parametro evoca - quali condizioni cui è subordinata la legittimità della valutazione di insindacabilità operata dalla Camera di appartenenza del parlamentare - equivalga alla contestazione in radice della legittimità costituzionale dell’esercizio di quel potere: e cioè alla prospettazione del relativo "eccesso", con corrispondente menomazione del "potere" giudiziario. D’altra parte, l’espressa richiesta di annullamento della delibera - alla luce dell’intero iter argomentativo, in cui si sviluppa la motivazione dell’atto di conflitto - presuppone la dichiarazione di non spettanza alla Camera del potere di adottare quella delibera; altrimenti, la domanda di caducazione si sarebbe dovuta fondare su una "causa" giuridica diversa da quella invece chiaramente enucleata attraverso il ripetuto richiamo alla giurisprudenza costituzionale ed all’art. 68 Cost. Ciò che conta è la sostanza delle "pretese" che i confliggenti introducono nel giudizio davanti alla Corte: quando quest’ultima è, come nella specie, posta sicuramente in condizione di deliberare sul merito, il petitum deve ritenersi sufficientemente enunciato, non essendovi alcuna norma (costituzionale od ordinaria) che imponga - per di più a pena di inammissibilità - l’adozione di "forme" obbligate, per esprimere la necessaria "sostanza".

Si eccepisce, infine, una carenza nella esposizione delle "ragioni del conflitto", giacché – a dire della Camera – il ricorrente si sarebbe limitato a elencare una serie di precedenti giurisprudenziali, senza adeguato riferimento al caso concreto: in sostanza, il ricorrente avrebbe contestato la sussistenza del nesso funzionale, ma non ne avrebbe spiegato le ragioni. Tale argomentazione è manifestamente priva di consistenza: sia perché il ricorso è più che adeguatamente motivato sul punto; sia perché una volta che il ricorrente ha enucleato il caso di specie, non è tenuto certo a "dimostrare" l’inesistenza dell’intento divulgativo rispetto ad atti parlamentari tipici, ma soltanto a dedurre la mancanza di quel nesso.

3. Nel merito il ricorso è fondato. Come ha infatti puntualmente posto in evidenza la Giunta per le autorizzazioni a procedere - nella relazione con la quale ebbe a proporre alla Assemblea di deliberare la non insindacabilità delle dichiarazioni attribuite al deputato Sgarbi - le espressioni per le quali pende il giudizio civile sono state pronunciate nel corso di una trasmissione televisiva condotta dallo stesso deputato, il quale nella circostanza "non svolgeva la sua funzione parlamentare neppure sub specie di attività connessa".

Tali dichiarazioni, poi - come del resto ha sottolineato ancora la relazione della Giunta - esprimono "null’altro che dileggio, insulto gratuito, ingiuria", in una vicenda caratterizzata da "connotazioni di esclusiva rilevanza personale", e concernente degli "avvenimenti per nulla connessi alla funzione parlamentare del deputato Sgarbi, ma relativi alla vita privata dello stesso".

Risultano inconferenti, in tale contesto, gli "atti tipici" evocati dalla difesa della Camera, trattandosi di interventi parlamentari i quali nulla hanno a che vedere con il contenuto delle opinioni costituenti oggetto della delibera di insindacabilità.

Quest’ultima deve essere, pertanto, annullata.

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati deliberare che i fatti per i quali è in corso dinnanzi al Tribunale di Roma il giudizio civile promosso nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, di cui al ricorso in epigrafe, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; conseguentemente

annulla la deliberazione in tal senso adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 18 marzo 1998.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 18 ottobre 2002.