Ordinanza n. 442/2001

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ORDINANZA N.442

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), promossi con ordinanze emesse il 7 e il 21 febbraio 2001 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani nei procedimenti penali a carico di F. B. e M. A., iscritte ai nn. 273 e 305 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 17, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 novembre 2001 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto che con ordinanza del 7 febbraio 2001 (r.o. 273/2001), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani ha sollevato questioni di legittimità costituzionale (a) dell’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in riferimento all’art. 3 della Costituzione, e (b) dell’art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982, in riferimento all’art. 27 della Costituzione;

che, relativamente alla prima questione, il rimettente muove dalla formulazione dell’art. 30 impugnato, il cui primo comma fa obbligo alle persone "già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575", di comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore a venti milioni di lire e altresì di comunicare entro il 31 gennaio di ciascun anno le variazioni intervenute nell’anno precedente, sempre se al di sopra della soglia di valore anzidetta; mentre il secondo comma stabilisce che il suddetto termine di dieci anni decorre "dalla data del decreto" applicativo della misura di prevenzione e il terzo comma dispone che "gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione é revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione";

che pertanto – prosegue il rimettente - dalla formulazione complessiva della norma si traggono due diverse e tra loro contraddittorie prescrizioni nell’ambito della medesima disposizione legislativa, giacchè, mentre dal primo comma si desume chiaramente che l’obbligo di comunicazione é imposto a soggetti sottoposti con provvedimento definitivo alla misura preventiva, dai commi successivi si desume invece che lo stesso obbligo decorre già dalla data dell’emanazione del decreto o comunque dal momento, immediatamente successivo, della sua esecuzione, e ciò sia per la formulazione testuale del secondo comma, sia implicitamente per la previsione del terzo comma, poichè la cessazione dell’obbligo in caso di revoca della misura a seguito di gravame fa necessariamente presupporre che l’obbligo sia operante prima che il decreto divenga definitivo, in pendenza delle impugnazioni;

che il rimettente - chiamato a trattare l’udienza preliminare per il reato di violazione dell’obbligo in discorso di cui all’art. 31 della legge n. 646, anch’esso censurato con la seconda questione – rileva che nel caso di specie la persona imputata ha omesso di comunicare operazioni di alienazione di immobili effettuate in date 30 gennaio 1997, 28 febbraio 1997 e 9 luglio 1998, mentre il decreto di applicazione della misura di prevenzione é divenuto definitivo, a seguito di appello, in data 28 aprile 1998, e dunque che due operazioni su tre sono anteriori alla definitività del provvedimento;

che il giudice a quo sottolinea inoltre che il primo comma dell’art. 30, nella sua versione originaria, non conteneva l’inciso "con provvedimento definitivo", che é stato aggiunto dall’art. 11 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), ma senza che a tale modifica si accompagnasse alcun contestuale intervento sugli altri due commi, e che dunque la contraddizione normativa che egli lamenta deriva dall’intervento di riforma; un intervento peraltro valutato dallo stesso rimettente come opportuno, in quanto finalizzato a correggere la discriminazione, prima esistente, tra soggetti condannati per il reato associativo di stampo mafioso (per i quali l’obbligo della comunicazione decennale presupponeva e continua a presupporre la condanna definitiva) e soggetti sottoposti a una misura preventiva (per i quali in precedenza non era richiesto un provvedimento definitivo), con paradossale vantaggio dei primi;

che, a ulteriore riprova dell’incongruenza della previsione nel suo assieme, il giudice rimettente osserva che ulteriori effetti distorsivi possono determinarsi nell’ipotesi in cui il decreto applicativo della misura venga revocato a seguito di ricorso in appello o in cassazione, poichè, supponendo l’operatività immediata dell’obbligo di comunicazione già a partire dall’adozione del decreto, si potrebbe verificare la definitiva realizzazione del reato omissivo, con le severe conseguenze sanzionatorie che ne derivano (art. 31 della legge n. 646 del 1982), benchè la successiva revoca del decreto faccia venire meno lo stesso presupposto sulla base del quale gli obblighi di comunicazione in argomento sono posti;

che, alla stregua di tutti i rilievi che precedono, il rimettente conclude denunciando di incostituzionalità l’art. 30 della legge n. 646 del 1982 in riferimento all’art. 3 della Costituzione, perchè dalla sua formulazione e dalla duplicità di interpretazioni inconciliabili che esso consente, si genera "incertezza del diritto, con conseguente impossibilità di assicurare ai soggetti destinatari parità di trattamento dinanzi alla legge" qualora si ritenga che vi sia immediata decorrenza degli obblighi di comunicazione per i soggetti sottoposti a misura di prevenzione;

che con la seconda questione il giudice a quo, deducendo la violazione dell’art. 27 della Costituzione, lamenta che la sanzione prevista dall’art. 31 della legge n. 646 del 1982 per il caso di inosservanza dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali – la reclusione da due a sei anni e la multa da lire venti milioni a lire quaranta milioni, e la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonchè del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati – sia eccessiva e sproporzionata e contemporaneamente inefficace rispetto allo scopo;

che il rimettente svolge al riguardo critiche circa l’utilità effettiva della previsione, che, pur se finalizzata a una sorta di difesa avanzata dall’infiltrazione della criminalità mafiosa nell’economia, attraverso il controllo decennale dei trasferimenti, a suo avviso porrebbe un obbligo puramente formale, sia perchè dalla inosservanza di esso non discenderebbe alcun effetto negativo apprezzabile per l’interessato, sia perchè i dati concernenti le operazioni oggetto di comunicazione sarebbero comunque conoscibili per altra via, essendo acquisti e alienazioni di immobili – cioé le operazioni di cui si tratta nel caso di specie – realizzati attraverso atti soggetti a forme legali di pubblicità;

che, inoltre, valorizzando una deduzione difensiva dell’imputato - il quale ha sostenuto di non essere a conoscenza dell’obbligo legale – il giudice a quo argomenta la plausibile esistenza della buona fede, non solo nel caso concreto, ma più in generale in ogni ipotesi, perchè non vi sarebbe motivo - per chi sia ad esso sottoposto - di non osservare l’obbligo in questione;

che anzi – prosegue il rimettente - l’adempimento dell’obbligo posto dalla normativa finirebbe per costituire, di fatto, una copertura di apparente liceità delle operazioni, avendo il soggetto tutto l’interesse a rispettarlo, sia perchè esso non comporta alcun costo sia perchè dal suo formale assolvimento si può ingenerare un effetto di apparente liceità delle operazioni che comportano variazioni patrimoniali, cosicchè neppure sotto questa visuale la norma sarebbe in grado di assicurare i risultati di controllo e di prevenzione in vista dei quali é stata posta dal legislatore;

che, per queste considerazioni, l’applicazione delle pene stabilite dalla disposizione, che concerne obblighi puramente formali, che non assicura la conoscenza delle reali variazioni dei patrimoni dei mafiosi e che essenzialmente colpisce soggetti che in buona fede ignoravano l’esistenza dei termini esatti dell’obbligo, finirebbe per contrastare – specificamente per "la pena minima edittale" e per la sanzione della confisca – con il principio di proporzionalità della pena e suo tramite con la finalità rieducativa che della pena é carattere essenziale (art. 27 della Costituzione);

che, relativamente a quest’ultima deduzione, il giudice a quo fa ampio richiamo a decisioni della Corte costituzionale – il cui intervento, precisa, non avrebbe carattere di incidenza nell’ambito della discrezionalità legislativa, poichè sarebbe da rinvenire nello stesso sistema penale la sanzione minima, pari a quindici giorni di reclusione ex art. 23, primo comma, cod. pen. – nelle quali si é rilevato il superamento del limite di ragionevolezza in previsioni di pene del tutto sproporzionate rispetto al fatto (sentenza n. 409 del 1989) e si é ribadita l’esigenza della costante relazione di adeguatezza tra qualità e quantità della sanzione e offesa (sentenze n. 422 del 1993, n. 343 del 1993, n. 313 del 1990), sullo sfondo della finalità rieducativa prescritta dalla Costituzione, oltre che nella fase dell’esecuzione, già dalla previsione della pena in astratto;

che nel giudizio così promosso é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza di entrambe le questioni sollevate;

che con altra ordinanza, del 21 febbraio 2001 (r.o. 305/2001), lo stesso Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani ha sollevato, in riferimento all’art. 27 della Costituzione, questione di costituzionalità del solo art. 31 della legge n. 646 del 1982, con formulazione testualmente identica a quella precedentemente esposta in relazione al citato articolo;

che anche in questo giudizio si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha fatto richiamo per relationem, allegandolo, all’atto di intervento depositato nel precedente giudizio, concludendo nel medesimo senso.

Considerato che le due ordinanze sollevano questioni che attengono alla medesima disciplina e che sono in parte coincidenti tra loro, cosicchè i relativi giudizi possono essere riuniti per essere definiti con unica pronuncia;

che, quanto alla questione concernente l’art. 30 della legge n. 646 del 1982, il giudice a quo denuncia la possibilità di trarre dalla norma impugnata due contraddittorie determinazioni circa il momento di decorrenza iniziale dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali a carico di chi sia sottoposto a una misura di prevenzione a norma della legge n. 575 del 1965, e precisamente: (a) la data in cui il provvedimento che applica la misura preventiva diviene definitivo, e (b) la data di emanazione o di esecuzione della misura preventiva, lamentando l’oscurità della legge per il soggetto destinatario dell’obbligo e le differenti conseguenze che dall’una o dall’altra delle due possibili letture derivano quanto alla commissione del reato di inosservanza di detto obbligo, previsto nel successivo art. 31 della stessa legge n. 646 del 1982;

che, impostando in tal modo la questione, il giudice rimettente non solleva in realtà un dubbio di costituzionalità della disposizione ch’egli é chiamato ad applicare nel caso concreto, bensì prospetta a questa Corte un dubbio interpretativo, derivante da una contraddizione tra la lettera del primo comma e il tenore dei successivi due commi dell’art. 30;

che l’"incertezza del diritto" che il rimettente lamenta come conseguenza della formulazione testuale della norma – e quindi come ragione, a sua volta, della disparità di trattamento tra soggetti in dipendenza della duplicità di possibili interpretazioni – costituisce semplicemente la premessa che fonda il dovere del giudice di ricercare, tra più possibili letture, quella maggiormente adeguata secondo i criteri che l’ordinamento nel suo complesso, Costituzione inclusa, mette a disposizione, potendosi prospettare un dubbio di legittimità costituzionale solo dopo che questo compito sia stato svolto;

che pertanto la questione sollevata relativamente all’art. 30 della legge n. 646 del 1982, in quanto si configura come un modo per ottenere da questa Corte la risoluzione di un dubbio di carattere interpretativo e come impropria utilizzazione dello strumento del giudizio di costituzionalità della legge per un fine a esso estraneo, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile (tra molte, ordinanze n. 351 del 2001, n. 233 del 2000, n. 7 del 1998, n. 360 del 1997);

che, relativamente alla questione, sollevata con entrambe le ordinanze di rimessione, sull’art. 31 della legge n. 646 del 1982, deve osservarsi che le censure prospettate costituiscono critiche circa l’opportunità o la pratica efficacia della disposizione incriminatrice, che non si prestano come tali a essere tradotte in profili apprezzabili sul piano della verifica di costituzionalità della norma (sentenza n. 518 del 2000);

che, infatti, le deduzioni del giudice di merito circa la caratterizzazione "formale" del reato in questione, o circa il possibile rovesciamento del rispetto dell’obbligo legale in un risultato che finirebbe per essere contraddittorio rispetto all’obiettivo legislativo, rappresentano considerazioni di inopportunità o inutilità della legge che non si traducono nella violazione di alcun parametro costituzionale definito, ma solo della ragionevolezza quale soggettivamente intesa dal rimettente;

che, inoltre, quanto alle argomentazioni delle ordinanze di rinvio concernenti da un lato la possibile buona fede dei destinatari dell’obbligo e dall’altro la possibilità che l’autorità ha di conoscere per via diversa i dati ai quali si riferisce l’obbligo di informazione (attraverso le forme di pubblicità legale alle quali sono generalmente soggette le operazioni patrimoniali), il sistema fornisce elementi che conducono la giurisprudenza, alla stregua della ratio dell’incriminazione e attraverso una lettura conforme a Costituzione, a escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e dunque sia di per sè impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione;

che più in generale – tanto più considerando i correttivi interpretativi sopra accennati - non può censurarsi la previsione sanzionatoria, la quale consente al giudice una graduazione secondo le particolarità del caso concreto e costituisce esercizio, in sè non manifestamente arbitrario o irragionevole, della ampia discrezionalità che al legislatore é da riconoscersi quanto alla configurazione degli illeciti penali e alla determinazione delle relative sanzioni (per tutte, da ultimo, sentenza n. 169 e ordinanze n. 282, n. 260, n. 144 e n. 68 del 2001);

che per queste considerazioni la questione di costituzionalità posta sull’art. 31 della legge n. 646 del 1982 deve essere dichiarata manifestamente infondata;

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani, con l’ordinanza in epigrafe (r.o. 273/2001);

2) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982, sollevate, in riferimento all’art. 27 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2001.