Ordinanza n. 423/2001

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ORDINANZA N. 423

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI         

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, primo e terzo comma, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, promosso con ordinanza emessa il 28 dicembre 2000 dal Pretore di Venezia, iscritta al n. 258 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 novembre 2001 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 28 dicembre 2000, pervenuta a questa Corte il 19 marzo 2001, il Pretore di Venezia, nel corso di un procedimento penale a carico di un imputato del reato di usurpazione di titolo (art. 498 cod. pen.) per avere assunto il titolo di procuratore legale senza essere iscritto al relativo albo professionale, ma avendo superato l'esame di idoneità all'esercizio della professione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 33, quinto comma, e 3 della Costituzione, dell'art. 1, primo e terzo comma, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, ai cui sensi "nessuno può assumere il titolo, nè esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non é iscritto nell'albo professionale" (primo comma), divieto la cui violazione é punita, nel caso di usurpazione del titolo di avvocato o di procuratore, a norma dell'art. 498 del codice penale (terzo comma);

che detta questione era stata già sollevata dallo stesso Pretore di Venezia con ordinanza emessa il 23 marzo 1999, iscritta al n. 363 del reg. ord. 1999;

che nella predetta ordinanza si osservava anzitutto che l'art. 33, quinto comma, della Costituzione, prescrivendo, per l'abilitazione all'esercizio professionale, esclusivamente il superamento di un esame di Stato, senza menzionare l'iscrizione in albi professionali come condizione per l'esercizio professionale medesimo, e tanto meno per la semplice utilizzazione del titolo, non consentirebbe di sanzionare addirittura come delitto il comportamento di chi, avendo superato l'esame di abilitazione, utilizzi il relativo titolo pur non essendo iscritto all'albo, il quale avrebbe funzioni di mera pubblicità; e che tale normativa appare irragionevole, tenuto conto che l'iscrizione all'albo, una volta superato l'esame, costituirebbe sostanzialmente un atto dovuto;

che, sempre nella ordinanza del 23 marzo 1999, si affermava che la normativa in questione realizzerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento, con violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, fra i procuratori legali ed i dottori commercialisti, per i quali l'art. 2 del d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 stabilisce che il relativo titolo spetta a chi abbia superato l'esame di abilitazione; e che essa sarebbe irragionevole anche sotto l'aspetto che il medesimo art. 1 del r.d.l. n. 1578 del 1933, al secondo comma, consente agli avvocati e procuratori, cancellati dall'albo per causa che non sia di indegnità, di usare il titolo;

che sulla questione così sollevata questa Corte si é pronunciata con l'ordinanza n. 192 del 2000, disponendo la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza, a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), il quale, all'art. 43, ha modificato l'art. 498 cod. pen., stabilendo, per le violazioni ivi previste, l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria;

che il Pretore di Venezia, con l'ordinanza introduttiva del presente giudizio, richiamate per intero le motivazioni espresse nella precedente ordinanza del 23 marzo 1999, considera che la questione conserverebbe piena rilevanza, poichè l'avvenuta depenalizzazione imporrebbe al giudice, qualora la norma fosse conforme alla Costituzione, di assolvere l'imputato perchè il fatto non é più previsto come reato, e contestualmente di trasmettere gli atti all'autorità amministrativa, laddove, invece, nel caso in cui venisse accertata l'incostituzionalità della norma incriminatrice, il giudice dovrebbe assolvere sic et simpliciter l'imputato, senza trasmettere gli atti all'autorità amministrativa;

che é intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, chiedendo di dichiarare la questione inammissibile o comunque infondata;

che, in una successiva memoria, l'interveniente osserva, quanto alla lamentata violazione dell'art. 33, quinto comma, della Costituzione, che l'esame di Stato sarebbe necessario al fine di ottenere l'abilitazione professionale, ma non sarebbe escluso che per tale abilitazione e per fregiarsi del relativo titolo occorra l'iscrizione ad un apposito albo; e, quanto alla lamentata disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata per i dottori commercialisti, che le due situazioni sarebbero differenti, o come tali sarebbero state discrezionalmente valutate dal legislatore, atteso anche che gli avvocati svolgerebbero un servizio pubblico.

Considerato che, ai sensi dell'art. 102, comma 1, del d. lgs. n. 507 del 1999, l'autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto, doveva disporre la trasmissione all'autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali in corso, relativi a reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo solo il caso che il reato risultasse prescritto o estinto per altra causa alla medesima data; e che, ai sensi del successivo comma 3, se l'azione penale, come nella specie, é stata già esercitata, il giudice, ove l'imputato o il pubblico ministero non si opponga, pronuncia in camera di consiglio sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere perchè il fatto non é previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa;

che, dunque – a differenza di quanto aveva stabilito a suo tempo l'art. 41, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, per le ipotesi di depenalizzazione ivi previste, condizionando la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa al fatto che il giudice stesso non dovesse pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di proscioglimento – il legislatore delegato del 1999 ha escluso che in capo al giudice dei processi pendenti rimanga il potere-dovere di valutare la condotta contestata sotto il profilo della sua sussistenza e della sua corrispondenza alla fattispecie della norma incriminatrice, sia pure al solo fine di una eventuale sentenza di proscioglimento nel merito;

che, pertanto, il giudice a quo non é più chiamato ad applicare la norma che prevede la condotta costituente illecito, un tempo penale e ora amministrativo, ma semplicemente a verificare che la violazione contestata non é prevista come reato ed é quindi sottratta alla giurisdizione del giudice penale, e a trasmettere gli atti (salvo che il reato risultasse già estinto alla data di entrata in vigore del d. lgs. n. 507 del 1999) alla competente autorità amministrativa, alla quale soltanto spetta, ora, fare applicazione della norma che prevede l'illecito e stabilisce la sanzione: onde anche le eventuali questioni di legittimità costituzionale di tale norma, o di norme che ne condizionano l'applicazione, potranno essere rilevanti solo nei giudizi instaurati davanti al giudice civile a seguito della eventuale applicazione della sanzione amministrativa;

che la determinazione di trasmettere gli atti all'autorità amministrativa non costituisce a sua volta applicazione, nemmeno parziale, della norma (già) incriminatrice, ma solo applicazione vincolata (e per questo assoggettata ad un breve termine: art. 102, comma 1, cit.) della statuizione legislativa che ha abrogato detta norma incriminatrice, sostituendola con la previsione dell'illecito amministrativo e della relativa sanzione;

che la questione é dunque manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, sollevata, in riferimento agli articoli 33, quinto comma, e 3 della Costituzione, dal Pretore di Venezia con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2001.