Sentenza n. 354/2001

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SENTENZA N.354

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, promosso, con ordinanza emessa il 21 dicembre 1999, dal Tribunale di Ancona nel procedimento civile vertente tra Mazzoni Guido e l'INPS, iscritta al n. 488 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di costituzione di Mazzoni Guido e dell'INPS nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 25 settembre 2001 il Giudice relatore Massimo Vari;

uditi gli avvocati Rino Pirani per Mazzoni Guido, Paolo Marchini e Fabio Fonzo per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 21 dicembre 1999 (pervenuta alla Corte il 6 luglio 2000), emessa nel corso di un giudizio civile promosso da un assicurato nei confronti dell'INPS, il Tribunale di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3-bis della legge 14 novembre 1992, n. 438 (recte: art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante "Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali", convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438).

Premette il giudice a quo che il ricorrente nel giudizio principale ha versato all'INPS, in relazione agli anni 1993-1994, "oltre la legittima contribuzione dovuta per l'assicurazione I.V.S. Gestione commercianti in qualità di agente di commercio", anche quella relativa al reddito di socio accomandante di una società in accomandita semplice, vedendosi negare, dal medesimo INPS, il rimborso contributivo successivamente richiesto in via amministrativa. E ciò in forza del denunciato art. 3-bis del decreto-legge n. 384 del 1992, il quale dispone che "il contributo annuo per i soggetti iscritti alle gestioni previdenziali degli artigiani e dei commercianti é rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini IRPEF per l'anno al quale i contributi stessi si riferiscono" (comma 1); redditi di impresa tra i quali vanno inclusi, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986, "anche i redditi del socio accomandante di società in accomandita semplice".

2. Secondo il rimettente, la disposizione censurata, "assoggettando dunque alla contribuzione previdenziale anche i redditi di società di persone", come società in nome collettivo e società in accomandita semplice, e non potendosi interpretare nel senso di escludere tali redditi dall'ammontare del contributo percentuale annuo, si pone in contrasto con gli artt. 3, 38, secondo comma, e 53 della Costituzione.

La norma verrebbe, infatti, a determinare una ingiustificata discriminazione tra socio accomandante di società semplice e socio di società di capitali, "in quanto soltanto il reddito societario del primo é sottoposto a contribuzione INPS, e ciò benchè vi sia sostanziale identità di natura tra le due tipologie di reddito (e quindi identità di posizione, sotto il profilo che interessa, tra le due categorie di soci), nel senso che entrambe si determinano senza il concorso di alcuna attività lavorativa, ma in conseguenza della sottoscrizione di quote di capitale sociale con versamento degli importi corrispondenti e a seguito della formazione degli utili".

Quanto all'art. 38, secondo comma, della Costituzione, il rimettente sostiene che tale disposizione, nel prevedere il diritto al trattamento pensionistico per i lavoratori, "esclude che al sistema contributivo previdenziale possa concorrere un reddito non da lavoro"; sicchè, non si comprende "a quale titolo un reddito non ricollegabile ad una prestazione lavorativa, come quello appunto di socio accomandante di una società in accomandita semplice, debba contribuire al sistema pensionistico".

Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata "mal pare accordarsi", inoltre, "con l'art. 53 della Costituzione che sancisce il principio della capacità contributiva complessiva ai soli fini fiscali e non anche contributivo-previdenziali", sicchè, se ai fini fiscali, "é corretto ritenere qualunque reddito oggetto di tassazione", ai fini previdenziali "soltanto i redditi da lavoro possono costituire oggetto di prelievo contributivo".

Secondo l'ordinanza l'art. 3-bis censurato non si sottrae, infine, a dubbi di "manifesta irragionevolezza", giacchè, "al solo malcelato scopo di ampliare la base contributiva, assoggetta a contribuzione quello che nella sostanza, al di là della qualificazione formale operata dall'art. 6, terzo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986 a soli fini fiscali, é un mero reddito da capitale".

3. Si é costituito il ricorrente nel giudizio a quo per sentir "dichiarare l'incostituzionalità dell'interpretazione attribuita dall'INPS" alla disposizione denunciata, ovvero per sentir dichiarare l'illegittimità costituzionale della medesima disposizione, in ragione degli stessi profili di censura argomentati dal rimettente.

4. Si é costituito anche l'INPS, concludendo per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione.

Ad avviso della difesa dell'Ente previdenziale, la censura di violazione dell'art. 3 della Costituzione sarebbe "inammissibile per errata individuazione del tertium comparationis", a causa della sostanziale differenza tra i redditi (ed il relativo regime fiscale) del socio di società di persone e quelli del socio di società di capitali, tale da non consentire di porre in relazione "i due trattamenti" ai fini del giudizio di legittimità costituzionale.

Quanto, poi, all'art. 38, secondo comma, della Costituzione, l'INPS nega che tale norma ponga "limiti al legislatore nella individuazione delle basi imponibili contributive", il cui gettito vale a finanziare la spesa pensionistica.

Nel sostenere, inoltre, che la sollevata questione involge un vaglio sulla discrezionalità legislativa che non può essere rimesso alla Corte costituzionale, la parte osserva, quanto alla censura di violazione dell'art. 53 della Costituzione, che il principio della capacità contributiva, ammesso che sia "invocabile in materia contributivo-previdenziale", postula un "sacrificio in assenza di corrispettività e divisibilità dei servizi sociali approntati dallo Stato; mentre nella fattispecie, all'aumento del montante contributivo" fa riscontro "un miglior trattamento economico previdenziale futuro".

5. E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la manifesta infondatezza della questione.

Secondo la difesa erariale l'asserito vulnus all'art. 3 della Costituzione risulta "ictu oculi insussistente", essendo poste in comparazione due "situazioni giuridiche oggettivamente disomogenee".

Quanto alle ulteriori censure, l'Avvocatura dello Stato ritiene che rientri nella discrezionalità legislativa determinare, razionalmente e tenuto conto delle disponibilità finanziare, l'ammontare delle prestazioni previdenziali, non senza rilevare che lo stesso art. 38 della Costituzione "non garantisce la corrispondenza tra prestazioni e contributi essendo sufficiente che al soggetto destinatario siano attribuite adeguate prestazioni previdenziali".

6. In prossimità dell'udienza hanno depositato memorie illustrative entrambe le parti del giudizio a quo.

6.1. La difesa del ricorrente, nell'insistere nelle conclusioni già rassegnate, rileva che la norma denunciata sottopone a contribuzione previdenziale "un reddito non di lavoro prodotto dal capitale investito in società in accomandita semplice da socio accomandante" che non é nè lavoratore, nè gestore della società.

Donde, in primo luogo, la violazione dell'art. 3 della Costituzione, per ingiustificata disparità di trattamento tra socio di società in accomandita semplice e socio di società di capitali.

La memoria, nel sostenere, altresì, che la disposizione censurata sarebbe "del tutto irrazionale", imponendo l'obbligo di contribuzione a chi non é lavoratore, ma soltanto percettore di un reddito di capitale, e, dunque, "in carenza del presupposto essenziale, costituito dalla prestazione di lavoro nella società", evidenzia, infine, la violazione dell'art. 53 della Costituzione, in quanto la norma denunciata estende "anche a fini contributivi il principio di reddito complessivo da assoggettare a contribuzione, deformando il criterio fissato" dal predetto articolo.

6.2. L'INPS, nell'insistere per l'inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della sollevata questione, ribadisce le eccezioni già proposte, con ulteriori più diffuse argomentazioni, osservando, tra l'altro, che l'eventuale accoglimento della questione comporterebbe "un'irrazionale difformità del sistema normativo", in quanto "i redditi di cui trattasi non verrebbero compresi ... nell'imponibile contributivo, mentre rimarrebbero assoggettati alla disciplina fiscale dei redditi di impresa, proprio nel momento in cui, fra l'altro, il legislatore ha voluto e disciplinato l'armonizzazione degli imponibili fiscali e contributivi".

In riferimento, poi, al prospettato vulnus dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione, la memoria rileva che la norma non pone "vincoli al legislatore quanto alle fonti di finanziamento del sistema previdenziale obbligatorio", sì da consentire l'adozione di "forme alternative di finanziamento che comportino la traslazione di parte degli oneri sociali dalle retribuzioni dei lavoratori (autonomi o subordinati) al cd. valore aggiunto aziendale, ossia al reddito di impresa" (come ad es. nel caso dell'obbligo, stabilito dall'art. 2, comma 29, della legge n. 335 del 1995, di finanziamento dell'intero sistema previdenziale a carico dei lavoratori autonomi parasubordinati).

Considerato in diritto

1. Con l'ordinanza in epigrafe indicata, il Tribunale di Ancona solleva questione di legittimità costituzionale del comma 1 dell'art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438.

La norma denunciata dispone che, per i soggetti di cui all'art. 1 della legge 2 agosto 1990, n. 233 ¾ e cioé quelli iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori ¾ l’ammontare del contributo annuo dovuto a fini pensionistici "é rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini IRPEF per l'anno al quale i contributi stessi si riferiscono". Redditi di impresa, fra i quali vanno annoverati, secondo l’art. 6 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, "i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale sia l’oggetto sociale".

2. Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione denunciata si pone in contrasto con:

- l'art. 3 della Costituzione, per l'ingiustificata discriminazione tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali, "in quanto soltanto il reddito societario del primo é sottoposto a contribuzione INPS, e ciò benchè vi sia sostanziale identità di natura tra le due tipologie di reddito", ... "nel senso che entrambe si determinano senza il concorso di alcuna attività lavorativa";

- l'art. 38, secondo comma, della Costituzione, che, nel prevedere il diritto al trattamento pensionistico per i lavoratori, "esclude che al sistema contributivo previdenziale possa concorrere un reddito non da lavoro";

- l'art. 53 della Costituzione ¾ "che sancisce il principio della capacità contributiva complessiva ai soli fini fiscali e non anche contributivo-previdenziali" ¾ sicchè, se ai fini fiscali "é corretto ritenere qualunque reddito oggetto di tassazione", ai fini previdenziali "soltanto i redditi da lavoro possono costituire oggetto di prelievo contributivo";

- il principio di "ragionevolezza", giacchè, "al solo malcelato scopo di ampliare la base contributiva, assoggetta a contribuzione quello che nella sostanza, al di là della qualificazione formale operata dall'art. 6, terzo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986 a soli fini fiscali, é un mero reddito da capitale".

3.- La questione non é fondata, sotto alcuno dei prospettati profili.

4.- Nell'ipotizzare, anzitutto,la discriminazione tra socio di società in accomandita semplice e socio di società di capitali, in vista dell'apporto al sistema contributivo della gestione previdenziale degli esercenti attività commerciali previsto dalla disposizione denunciata per i redditi di impresa di cui sia titolare l'iscritto, il rimettente muove dal presupposto della "sostanziale identità di natura tra le due tipologie di redditi" e, quindi, di una identità di posizioni fra i relativi percettori, giacché in entrambi i casi non vi sarebbe "il concorso di alcuna attività lavorativa", bensì la mera sottoscrizione di quote del capitale sociale.

Giova rammentare che, secondo il d.P.R. n. 917 del 1986, cui la norma denunciata fa rinvio, mentre i redditi da capitale costituiscono gli utili che il socio consegue per effetto della partecipazione in società dotate di personalità giuridica (art. 41), soggette, a loro volta, all’imposta sul reddito dalle stesse conseguito, i redditi c.d. di impresa di cui fruisce il socio delle società in accomandita semplice (così come, del resto, il socio delle società in nome collettivo) sono i redditi delle stesse società, inclusi nella predetta categoria, come già visto, dall'art. 6 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, e, al tempo stesso, da imputare "a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione", proporzionalmente alla "quota di partecipazione agli utili", in forza del precedente art. 5 (redditi prodotti in forma associata). Ciò fa sì, appunto, che il reddito prodotto dalle società in accomandita semplice sia reddito proprio del socio, realizzandosi, in virtù del predetto art. 5, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, sia pure agli specifici fini tributari, "l’immedesimazione" fra società partecipata e socio (ordinanza n. 53 del 2001).

Così richiamato, sia pure in estrema sintesi, il quadro normativo in cui si collocano le situazioni poste a raffronto, non può reputarsi discriminatoria una disposizione quale quella denunciata, atteso il preminente rilievo che, nell'ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo), assume, a differenza delle società di capitali, l'elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di una attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante.

5.- Le ragioni di cui sopra portano ad escludere, al tempo stesso, la fondatezza della censura formulata sotto il profilo della "manifesta irragionevolezza" della disposizione medesima, che avrebbe assoggettato "a contribuzione quello che nella sostanza ... é un mero reddito da capitale"; censura che, a ben vedere, non rappresenta altro che una riproposizione, in termini diversi, di quella testè esaminata.

Ad ulteriore e decisivo supporto della non irragionevolezza della scelta operata dal legislatore, nell'esercizio della discrezionalità di cui gode in materia, va soggiunto che all'onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazione previdenziale, essendo, in virtù dell'art. 5 della legge n. 233 del 1990, anche la misura dei trattamenti rapportata al reddito annuo di impresa. Sicchè, all'ampliamento della base contributiva corrisponde, appunto, l'ampliamento della base pensionabile, con evidente riflesso positivo sulla misura della prestazione e, dunque, in armonia con la garanzia previdenziale assicurata dall'art. 38, secondo comma, della Costituzione.

6.- Del pari infondata é la censura di violazione dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione, prospettata dal rimettente sul presupposto che detta norma, prevedendo il diritto al trattamento pensionistico per i lavoratori, escluderebbe che al sistema contributivo possa concorrere un reddito non di lavoro.

Senonchè l'intima ed indefettibile correlazione, postulata dal rimettente, tra contribuzione e reddito di lavoro non trova riscontro nel modello di previdenza sociale che é dato desumere dall'invocato precetto costituzionale. Precetto, rivolto, oltretutto, più che a definire le fonti di finanziamento del sistema, a segnare il livello di tutela che deve essere garantito attraverso le prestazioni previdenziali.

Un modello, dunque, che, come si evince dall'evoluzione legislativa avutasi in materia, non ha impedito, in virtù dei principi solidaristici cui si ispira, da un lato, l'estensione della protezione a categorie contigue a quelle caratterizzate dagli schemi più consolidati in cui si risolve lo svolgimento di attività lavorativa; e dall'altro, accanto alla previsione di un apporto finanziario al sistema da parte della stessa collettività generale, anche la commisurazione della contribuzione a basi di riferimento non costituite, solo ed esclusivamente, dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro. In proposito, é sufficiente rifarsi alle più recenti riforme in materia che evidenziano, infatti, il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell'attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nell'attività stessa rinvengono soltanto mera occasione.

Ed é in forza di siffatta evoluzione che si é venuta a realizzare, nel tempo, anche la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale, quanto alla definizione proprio della base imponibile, a testimonianza di una esigenza di tendenziale armonizzazione in materia. Convergenza ascrivibile, in primo luogo, proprio alla disposizione censurata, la quale, nel rapportare la contribuzione previdenziale alla totalità dei redditi d'impresa denunciati ai fini IRPEF, e non più soltanto al reddito annuo derivante dall'attività d'impresa che dà titolo all'iscrizione (art. 1 della legge n. 233 del 1990), assume una base imponibile corrispondente a quella dell'ambito tributario; e, successivamente, al decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314, recante "Armonizzazione, razionalizzazione e semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali concernenti i redditi di lavoro dipendente e dei relativi adempimenti da parte dei datori di lavoro", che ha accolto una nozione di reddito da lavoro utilizzabile, in linea di massima, sia a fini contributivi che a fini tributari.

7.¾ Infine, é da ritenere inconferente il riferimento all'art. 53 della Costituzione. E ciò a causa della non assimilabilità all'imposizione tributaria vera e propria della contribuzione previdenziale (da ultimo, cfr. sentenza n. 178 del 2000); contribuzione, nel cui ambito, una volta disatteso il presupposto della imprescindibile correlazione tra prelievo contributivo e reddito di lavoro dal quale muove il giudice a quo, va fatto rientrare l'obbligo imposto dalla norma denunciata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 38, secondo comma, e 53 della Costituzione, dal Tribunale di Ancona, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2001.