Sentenza n. 329/2001

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SENTENZA N.329

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia, nelle parti relative al matrimonio), dell'art. 8, numero 2, comma 2, della legge 25 marzo 1985 n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), recte dell'Accordo ratificato da tale legge, e degli artt. 129 e 129-bis del codice civile, promossi con ordinanze emesse il 25 febbraio 2000 dal Tribunale di Vicenza, il 24 febbraio 2000 dalla Corte d'appello di Roma e il 5 maggio 2000 dal Tribunale di Roma, rispettivamente iscritte ai numeri 359 e 425 del registro ordinanze 2000 ed al n. 82 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 27 e 30, prima serie speciale, dell'anno 2000 e n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2001.

Visti gli atti di costituzione di Paola Landi, di Luigi Calzavara e di Fabio Belli, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 maggio 2001 e nella camera di consiglio del 9 maggio 2001 il Giudice relatore Franco Bile;

uditi l'avvocato Carlo Tricerri per Luigi Calzavara e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con l’ordinanza iscritta al n. 359 del 2000, il Tribunale di Vicenza, provvedendo direttamente a seguito di rimessione in decisione della causa, ha proposto - in riferimento all’art. 3 della Costituzione ed al <<principio supremo della laicità dello Stato>> - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 27 maggio 1929, n. 847(Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia, nelle parti relative al matrimonio), <<laddove prevede (secondo il diritto vivente) l’applicazione della disciplina di cui all’art. 129 del codice civile ai casi nei quali venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico, anche allorquando sia decorso il termine per la proposizione della azione di nullità innanzi al giudice italiano o comunque si siano consolidate situazioni di comunione di vita>>, anzichè della disciplina di cui all’art. 5, commi 6 e seguenti, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio).

L’ordinanza é stata pronunziata in un giudizio nel quale - dopo che un matrimonio celebrato con il rito concordatario era stato dichiarato nullo dalla giurisdizione ecclesiastica per <<difetto di consenso da parte dell’uomo, per incapacità del medesimo ad esprimere un consenso libero e responsabile>>, e la relativa sentenza era stata resa esecutiva in Italia, con applicazione in via provvisoria a carico del marito (nel presupposto dell’applicabilità dell’art. 129 cod. civ.) della corresponsione di una somma mensile <<fino alla definizione dell’instaurando giudizio di merito>> - la moglie aveva chiesto la condanna del marito al pagamento di un assegno mensile per un periodo non inferiore a tre anni <<ai sensi e per gli effetti dell’art. 129 cod. civ.>>, ed il marito convenuto aveva eccepito, fra l’altro, la mala fede dell’attrice, che era stata consapevole della sua <<inidoneità a contrarre il matrimonio>>.

Il Tribunale - dopo avere dato atto che, in sede di precisazione delle conclusioni, la parte attrice aveva modificato la domanda, chiedendo l’imposizione al marito di un contributo mensile di mantenimento volto ad assicurarle la permanenza del tenore di vita pregresso, senza alcuna limitazione temporale e che la causa era passata in decisione - osserva preliminarmente che le precisate conclusioni dovrebbero comportare il rigetto della domanda, in quanto volte ad ottenere il riconoscimento di un assegno oltre il triennio previsto dall’art. 129 cod. civ., oppure il suo accoglimento nel limite di tale triennio. Peraltro, esse - ad avviso del rimettente - non potrebbero essere interpretate in questo senso riduttivo, sia per l’espressa esclusione della limitazione temporale, sia per il fatto che l’attrice ha chiesto commisurarsi il contributo al tenore di vita pregresso.

L’art. 129 cod. civ., tuttavia, laddove prevede il pagamento di somme periodiche in proporzione alle sostanze del coniuge tenuto, quando l’altro coniuge <<non abbia adeguati mezzi propri>>, attribuirebbe a tale contribuzione non la funzione di consentire al coniuge debole di proseguire nel tenore di vita precedente, non prendendo in considerazione <<la situazione economica pregressa relativa al periodo di convivenza>>, ma soltanto - con riferimento al coniuge di buona fede ma meno fornito di redditi - quella di assicurare la possibilità di poter far fronte al mutamento che la sua vita subisce per effetto della dichiarazione di nullità del matrimonio, rispetto alle aspettative pregresse. La temporaneità della misura, d’altro canto, si spiegherebbe sia per l’assenza di individuazione di una responsabilità, sia per la contingenza della situazione creatasi, sia per la mancanza di un pregresso consistente rapporto di coabitazione. Il distacco dalla logica dell’assicurazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio sarebbe, d’altronde, evidenziato anche dal fatto che nella maggior parte dei casi l’azione di nullità non é più esercitabile quando vi é stata coabitazione per più di un anno e, dunque, la comparazione con il tenore di vita mantenuto antecedentemente sarebbe ristretta ad un periodo estremamente limitato e poco significativo.

Dopo avere offerto tale ricostruzione del significato dell’art. 129 cod. civ., il Tribunale rileva che l’art. 18 della legge n.847 del 1929 - laddove, per il caso del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico dichiarato nullo dalla giurisdizione canonica con sentenza resa esecutiva nello Stato, prevedeva l’applicabilità dell’art. 116 cod. civ. del 1865, contenente la disciplina del matrimonio putativo - é stato ed é interpretato secondo il <<diritto vivente>> nel senso che il rinvio alla disciplina del matrimonio putativo si debba intendere trasferito alla corrispondente disciplina del codice civile del 1942, dapprima nella sua consistenza originaria, ed ora in quella emergente dalla riforma del diritto di famiglia, ivi comprese le conseguenze patrimoniali introdotte da tale riforma e regolate nell’attuale testo dell’art. 129 cod. civ. (nonchè nell’art. 129-bis).

Secondo il rimettente, tuttavia, mentre la regolamentazione delle conseguenze patrimoniali emergente da detta disciplina, specificamente dettata in relazione alla nullità del matrimonio civile, troverebbe giustificazione nell’ordinamento italiano proprio in quanto la nullità di tale matrimonio dovrebbe essere fatta valere, nella maggior parte dei casi, in un tempo tanto breve da escludere l’instaurazione di una vera e propria convivenza o da consentirne solo una di scarsa consistenza, essa non sarebbe adeguata alla nullità del matrimonio concordatario.

Se, infatti, sul piano formale la dichiarazione di nullità civile e quella canonica fanno entrambe venir meno il vincolo coniugale e se il vizio accertato nella specie dall’autorità canonica richiama quello disciplinato dall’art. 120 cod. civ., tuttavia i relativi giudizi si basano su <<situazioni profondamente differenti>>, potendo la dichiarazione di nullità canonica essere pronunciata a notevole distanza di tempo dalla celebrazione del matrimonio, e anche dopo l’instaurazione fra i coniugi del consortium totius vitae e la nascita di figli.

Da tanto, secondo il rimettente, conseguirebbe:

a) che, quando la dichiarazione di nullità canonica interviene a notevole distanza di tempo dalla celebrazione del matrimonio, l’applicazione della disciplina di cui all’art. 129 cod. civ. - <<per i suoi presupposti e per i suoi contenuti>> - <<non appare idonea a garantire una tutela adeguata>> al coniuge privo di redditi sufficienti;

b) che tale inadeguatezza risulta in particolare dal raffronto della disciplina in esame con quella <<dettata in ipotesi che, pur avendo alla base situazioni di fatto simili, risultano tuttavia diversamente e maggiormente tutelate dall’ordinamento statale>>;

c) che tali ipotesi dovrebbero, in particolare, individuarsi in quelle per cui é prevista la tutela accordata dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, per il caso di scioglimento del matrimonio civile e di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, con la previsione della corresponsione al coniuge economicamente più debole di contribuzioni periodiche senza limiti di tempo, idonee ad assicurare un tenore di vita corrispondente a quello prima goduto;

d) che, quando la nullità canonica del matrimonio concordatario viene dichiarata a notevole distanza di tempo dalla celebrazione del matrimonio, l’applicazione dell’art. 129 cod. civ., imposta dall’art. 18 della legge n. 847 del 1929, farebbe sorgere, quindi, il dubbio della conformità di tale disciplina al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione ed al principio supremo di laicità dello Stato;

e) che la violazione dell’art. 3 della Costituzione risiederebbe, per un verso, nella non giustificata disparità di trattamento tra casi simili determinata dalla <<minore tutela che il coniuge economicamente debole riceve nel caso della delibazione della sentenza canonica di nullità rispetto a quella che riceve il coniuge debole nel caso di divorzio>>, e - per altro verso - nel fatto stesso dell’applicazione dell’art. 129 cod. civ. al caso dei <<coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo dopo molti anni di convivenza>>, che, invece, sarebbe <<più complesso>> rispetto a quello oggetto dell’originaria previsione della norma (cioé quello <<dei coniugi che chiedono la pronunzia di nullità al giudice civile entro il termine di decadenza previsto dalle varie ipotesi>>);

f) che il principio supremo di laicità dello Stato sarebbe violato, in quanto dalla <<scelta confessionale (di avvalersi della giurisdizione matrimoniale canonica)>> deriverebbero conseguenze di natura strettamente patrimoniale.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, il rimettente rileva che il coniuge economicamente più forte potrebbe non solo aggirare legittimamente le decadenze previste per l’azione civile di nullità, evitando di dover ricorrere all’azione di divorzio, ma anche ottenere il vantaggio di potersi sottrarre a parte consistente delle sue responsabilità patrimoniali verso il coniuge debole, senza che possa avere alcun rilievo una convivenza protrattasi magari per molti anni, con le sue implicazioni <<a livello di scelte economiche e patrimoniali personali>>.

Ad ovviare alla disparità di trattamento non sarebbe sufficiente, d’altronde, l’art. 8, numero 2, dell’Accordo del 1984 di modificazione del Concordato, atteso che esso si limiterebbe a consentire - con norma soltanto processuale - una pronuncia anticipatoria in sede delibatoria e non integrerebbe una disciplina sostanziale, che competeva al legislatore introdurre.

In chiusura, l’ordinanza di rimessione ricorda: aa) che all’atto della revisione del Concordato si era sottolineata l’esigenza che si prevedesse pattiziamente che, in caso di delibazione di sentenze canoniche di nullità dopo convivenze protrattesi per anni, fosse applicabile la disciplina delle conseguenze patrimoniali del divorzio; bb) che non essendosi recepito tale auspicio nel suddetto accordo di revisione ed in assenza dell’emanazione di una legge statale, la Corte di cassazione aveva tentato di risolvere il problema negando la delibazione di sentenze canoniche pronunciate a seguito di convivenza coniugale, a questa attribuendo rilievo sotto il profilo del limite dell’ordine pubblico, ma le Sezioni unite avevano poi censurato tale orientamento; cc) che, tuttavia, le stesse sezioni unite avevano sottolineato che l’indirizzo giurisprudenziale disatteso era mosso da ragioni apprezzabili, avvertendo che spettava al legislatore ordinario farsi carico del problema ed introdurre una legislazione di tutela del coniuge economicamente debole, in modo da evitare che il ricorso alla tutela canonica servisse a sottrarsi ad ogni responsabilità patrimoniale.

1.1. - Si é costituita la parte privata convenuta nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata non rilevante ed infondata.

In via preliminare, ha sostenuto che erroneamente il rimettente avrebbe impugnato l’art. 18 della legge del 1929, invece che l’art. 129 cod. civ. e che comunque tale normativa, costituzionalmente protetta, avrebbe potuto essere impugnata solo in riferimento ai principi supremi dell’ordinamento.

Nel merito, ha, quindi, rilevato che la tesi del rimettente - secondo cui l’azione di nullità civile dovrebbe sempre essere introdotta in un termine breve, decorrente dalla celebrazione del matrimonio - sarebbe erronea, posto che, talvolta, essa può essere proposta a partire da un momento in cui si avverino specifiche circostanze, anche dopo molti anni di convivenza.

Altrettanto erronea sarebbe l’affermazione secondo cui la nullità canonica suppone la perpetuatio del matrimonio per un lungo tempo, potendo essa, ancorchè non soggetta a termini di decadenza o prescrizione, essere proposta anche subito dopo le nozze o senza che si sia instaurata la convivenza, mentre la lamentata violazione dell’art. 3 non sussisterebbe, perchè l’introduzione della tutela patrimoniale divorzistica per il caso di nullità si risolverebbe in un privilegio per chi contrae il matrimonio concordatario rispetto a chi contrae solo quello civile.

La normativa concordataria, del resto, in quanto costituzionalmente protetta, non consentirebbe di applicare in via analogica od estensiva alla fattispecie della delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale <<norme di altri istituti (come quello divorzista) e per legge ordinaria>>.

Infine, dovendosi necessariamente distinguere tra varie situazioni (come quelle del coniuge di buona o mala fede), il problema potrebbe essere risolto solo dal legislatore od in sede di ulteriore revisione pattizia, e non da parte della Corte, poichè altrimenti si creerebbe il rischio di discriminazioni esse stesse contrarie ai principi costituzionali.

1.2. - Nell’imminenza dell’udienza pubblica, ma tardivamente, il convenuto nel giudizio a quo ha depositato una memoria illustrativa, riprendendo i già illustrati argomenti.

1.3. - Si é pure costituita, tardivamente, la parte attrice nel giudizio a quo, insistendo per l’accoglimento della questione.

2. - Con l’ordinanza iscritta al n. 425 del 2000 la Corte di appello di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale <<dell’art. 8 penultimo comma>> della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

La Corte rimettente non fornisce alcuna notizia sull’oggetto della controversia avanti ad essa pendente, se non quelle desumibili dall’intestazione dell’ordinanza, dalla quale si apprende che il giudizio a quo pende fra un appellante ed un'appellata (e, quindi, in grado d’appello), con l’intervento del pubblico ministero.

Premesso che il giudice della delibazione può statuire sui provvedimenti economici ai sensi del citato art. 8, nei limiti previsti dagli artt. 129 e 129-bis cod. civ., il rimettente sottolinea che la nullità del matrimonio nell’ordinamento italiano sarebbe prevista solo per ipotesi limitate e tassative e che l’azione <<nella maggior parte dei casi>> non può più essere proposta una volta decorso un anno di coabitazione dalla celebrazione o dalla cessazione della causa di nullità. Il limitato trattamento patrimoniale previsto dagli artt. 129 e 129-bis sarebbe motivato, nei casi di buona fede dell’altro coniuge, proprio dal fatto che, per la sua limitata durata, il rapporto matrimoniale non potrebbe aver turbato in modo rilevante la vita e i rapporti economico-sociali del coniuge incolpevole.

Viceversa, il tribunale ecclesiastico potrebbe pronunciare la nullità del matrimonio concordatario anche <<per ragioni ed in termini che nel nostro ordinamento non sarebbero ammissibili (ad esempio, esclusione del bonum sacramenti o del bonum prolis), anche dopo trascorso l’anno dalla coabitazione>> ed emergerebbe così <<una situazione di ingiustificata sperequazione>> fra il coniuge economicamente debole convenuto in un giudizio ecclesiastico di nullità e quello convenuto con un giudizio di declaratoria della cessazione degli effetti civili, tenuto conto che la declaratoria della nullità da parte del tribunale ecclesiastico é efficace nell’ordinamento italiano anche per ragioni che, secondo il nostro ordinamento, non sarebbero ammissibili e comunque accertabili senza limiti di tempo. Infatti, al matrimonio dichiarato nullo in sede ecclesiastica troverebbe applicazione il regime degli artt. 129 e 129-bis cod. civ. in ipotesi che, se fossero fatte valere secondo l’ordinamento italiano, sarebbero deducibili solo a fondamento di un’azione di divorzio e darebbero luogo alla tutela economica di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970.

Pertanto, situazioni uguali o comunque analoghe sarebbero trattate diversamente, secondo che, si adisca il giudice ecclesiastico per la declaratoria di nullità o quello civile per la declaratoria della cessazione degli effetti civili, senza che ciò possa trovare giustificazione nella diversità delle azioni esercitate e nella scelta (espressione di convinzioni religiose) di contrarre matrimonio con il rito concordatario, poichè tale scelta non potrebbe comunque comportare conseguenze giuridicamente pregiudizievoli in danno del coniuge debole, pena la violazione del principio di eguaglianza avanti alla legge senza distinzioni di religione, posto dall’art. 3, primo comma, della Costituzione.

2.1. - E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, depositando memoria, nella quale ha sostenuto l’inammissibilità e l’infondatezza della questione.

2.2. - Si é pure costituita la parte privata appellante nel giudizio a quo, depositando memoria, nella quale, preliminarmente, dà ampio conto della vicenda alla quale si riferisce il giudizio a quo, rilevando in particolare:

a1) che nel 1992 la Corte d’appello di Roma, nel dichiarare efficace la dichiarazione di nullità di un matrimonio concordatario per la riconosciuta esclusione del bonum sacramenti ex parte viri, aveva stabilito in favore della moglie - ex art. 8 dell’Accordo del 1984 - un assegno mensile provvisorio, rimettendo le parti avanti al tribunale per la determinazione di quelle definitivo;

a2) che, successivamente, il marito aveva chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare che dal momento della domanda l’assegno non era più dovuto;

a3) che il Tribunale aveva rigettato la domanda, nel presupposto che, con la citata norma dell’art. 8, si fosse inteso attribuire al coniuge un diritto soggettivo al mantenimento non diverso da quello a lui spettante in caso di divorzio;

a4) che egli aveva proposto appello, ponendo in evidenza che l’assegno cui allude l’art. 8 non prevedeva il mantenimento e che l’unico referente normativo erano gli artt. 129 e 129-bis cod. civ., che, peraltro, non avrebbero potuto, in particolare la seconda norma, giustificare alcun indennizzo, in quanto la moglie era stata a conoscenza della causa di nullità canonica.

Nel merito, ha sostenuto l’infondatezza della questione.

3. - Con lordinanza iscritta al n. 82 del 2001, il Tribunale di Roma ha proposto - in riferimento all’art. 3 della Costituzione - la questione di legittimità costituzionale degli artt. 129 e 129-bis cod. civ., nella parte in cui non prevedono che, in ipotesi di matrimonio nullo sulla base di sentenza ecclesiastica delibata in Italia, le conseguenze patrimoniali siano disciplinate alla stessa stregua degli artt. 5 e seguenti della legge n. 898 del 1970, <<quando la nullità sia stata dichiarata dopo che si sia consolidata una concreta comunanza di vita>>.

L’ordinanza é stata pronunziata in un giudizio di cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario promosso dalla moglie, la quale aveva anche chiesto l’imposizione al marito di un assegno di mantenimento nella misura stabilita in sede di separazione consensuale. Il marito aveva dedotto che, con sentenza ecclesiastica, il matrimonio era stato dichiarato nullo e che era in corso avanti alla Corte di appello di Roma il giudizio da lui instaurato per la dichiarazione di efficacia della sentenza. Avendo poi detta Corte dichiarato esecutiva la sentenza ecclesiastica, il Tribunale rimettente ha ritenuto di rigettare la domanda di divorzio e di disporre nel contempo <<con separata ordinanza la valutazione della legittimità costituzionale degli artt. 129 e 129-bis cod. civ.>>.

Quanto alla non manifesta infondatezza della proposta questione, il giudice rimettente rileva in particolare:

1a) che - pur in presenza di situazioni per molta parte simili, in ragione della medesima ricorrenza di una concreta comunità di vita tanto in caso di divorzio che in caso di nullità - in questa seconda ipotesi <<le disposizioni in questione tutelano in misura minima il coniuge più debole (art. 129 cod. civ.) e solo a condizione che egli non abbia dato causa alla nullità>>;

1b) che il principio di eguaglianza imporrebbe di prevedere una parificazione di trattamento <<fra matrimonio concordatario nullo alla stregua del diritto canonico e scioglimento del matrimonio>>;

1c) che tale parificazione non dovrebbe essere <<necessariamente identità>>, e sarebbe fondata <<sulla impossibilità per la dichiarazione di nullità del matrimonio di distruggere retroattivamente il rapporto, la eventuale comunione di vita che possa essersi protratta per anni>>.

In punto di rilevanza, il rimettente osserva che le denunciate disposizioni precluderebbero ogni possibilità <<di dare risposta positiva alla istanza>> della parte attrice del giudizio a quo, volta ad ottenere un assegno in suo favore, mentre la condizione economica della stessa, aveva dato luogo in sede di separazione consensuale all’attribuzione di un assegno in suo favore, a carico del coniuge>> e, d’altro canto, <<la situazione di convivenza coniugale si é protratta in ogni caso per otto anni, dal matrimonio contratto il 18.10.1986, alla separazione consensuale in data 22.12.1994>>.

Da tanto - secondo il rimettente - conseguirebbe che, ove alla fattispecie fossero applicati parametri analoghi a quelli previsti dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, non potrebbe <<escludersi che in concreto, dopo l’esame della situazione attuale della donna, l’assegno in questione possa essere attribuito>>.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Vicenza, con l’ordinanza n. 359 del 2000, propone - in riferimento all’art. 3 della Costituzione ed al <<principio supremo della laicità dello Stato>> - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), laddove, secondo il diritto vivente, assoggetta i casi nei quali venga resa esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico, anche quando sia decorso il termine per la proposizione dell’azione di nullità innanzi al giudice italiano o comunque si siano consolidate situazioni di comunione di vita, alla disciplina del matrimonio putativo di cui all’art. 129 del codice civile anzichè alla disciplina del divorzio di cui all’art. 5, commi 6 e seguenti, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio).

Il Tribunale di Roma, con l’ordinanza n. 82 del 2001, propone - in relazione all’art. 3 della Costituzione - la questione di legittimità costituzionale degli artt. 129 e 129-bis cod. civ., nella parte in cui non prevedono che, in ipotesi di matrimonio concordatario nullo sulla base di sentenza delibata in Italia, gli effetti patrimoniali del venir meno del matrimonio siano disciplinati dagli artt. 5 e seguenti della legge n. 898 del 1970, quando la nullità sia stata dichiarata dopo che si sia consolidata una concreta comunanza di vita.

La Corte d’appello di Roma, con l’ordinanza n. 425 del 2000, propone, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale <<dell’art. 8, penultimo comma, della legge 25 marzo 1985, n. 121>> (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), nella parte in cui - disponendo che la corte d'appello può, nella sentenza intesa a rendere esecutiva la sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia - non prevede, per il caso in cui la nullità sia stata dichiarata per ragioni non previste dall’ordinamento dello Stato, che il giudice italiano possa disporre conseguenze economiche identiche a quelle di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970, e debba fare invece applicazione degli artt. 129 e 129-bis cod. civ. (in realtà la norma impugnata va correttamente identificata nella legge n. 121 del 1985, in quanto dà esecuzione all’art. 8, numero 2, comma 2, dell’Accordo).

2. - I giudizi introdotti dalle tre ordinanze, benchè formalmente concernenti norme diverse, pongono nella sostanza la medesima questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto le norme che - in tutti i casi in cui il matrimonio cosiddetto concordatario, celebrato davanti al ministro del culto cattolico, sia dichiarato nullo dalla giurisdizione ecclesiastica con sentenza resa esecutiva nello Stato - prevedono, pur in presenza di una consolidata comunione di vita fra i coniugi, l’applicabilità del regime patrimoniale dettato dall’ordinamento italiano per il matrimonio putativo, e non di quello (dai rimettenti ritenuto più favorevole per il coniuge sprovvisto di redditi adeguati) di cui alla legge n. 898 del 1970, in tema di scioglimento del matrimonio civile e di cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio concordatario.

I giudizi, pertanto, devono essere riuniti.

3. - La scelta legislativa censurata dai rimettenti risale all’art. 18 della legge n. 847 del 1929, il quale aveva previsto - per il caso in cui fossero rese esecutive nello Stato sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità di matrimoni concordatari - l’applicabilità dell’art. 116 del codice civile del 1865 allora vigente, secondo cui il matrimonio nullo era considerato produttivo di effetti civili per i coniugi in buona fede (ovvero solo per quello in buona fede) e per i figli.

Entrato in vigore il codice civile del 1942, dottrina e giurisprudenza riferirono il rinvio contenuto nell’art. 18 all’art. 128 del nuovo testo, espressamente intitolato al matrimonio putativo, che conteneva l’intera disciplina di tale figura, senza previsioni in tema di conseguenze patrimoniali.

Nella stessa prospettiva, sopraggiunta la riforma del diritto di famiglia del 1975, il rinvio é stato riferito alla nuova disciplina del matrimonio putativo, oggi articolata nell’art. 128 (per gli effetti personali) e negli artt. 129 e 129-bis (che, con scelta innovativa, disciplinano gli effetti patrimoniali per i coniugi, o per il coniuge, in buona fede).

3.1. - La vigenza dell’art. 18 non é venuta meno a seguito dell’Accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984, recante modificazioni al Concordato del 1929, reso esecutivo in Italia con la legge n. 121 del 1985.

E’ ben vero che questa Corte, nella sentenza n. 421 del 1993, ha affermato che l’Accordo <<disciplina l’intera materia matrimoniale concordataria nei suoi aspetti sostanziali e processuali, e impedisce quindi di fare ricorso, per tale materia, a testi legislativi precedenti>> (come la legge 27 maggio 1929, n. 810, di esecuzione del Concordato del 1929). Siffatto discorso peraltro non può riguardare l’art. 18 della legge n. 847 del 1929, che non é la legge di esecuzione del Concordato, recando disposizioni per la sua applicazione in materia matrimoniale. E tali disposizioni ben possono ritenersi tuttora vigenti, nella parte in cui siano compatibili con il contenuto dell’Accordo. Orbene tale contenuto non consente di ravvisare, a proposito dell’art. 18, nessuna delle ipotesi di abrogazione di cui all’art. 15 disp. att. cod. civ.

Di abrogazione espressa l’Accordo sicuramente non parla. E per la configurabilità di un’abrogazione tacita occorrerebbe che le disposizioni inserite nell’ordinamento con la legge n. 121 del 1985 contenessero una normativa incompatibile con quella dell’art. 18 o tale da risolversi in una nuova disciplina della intera materia.

Non ricorre, peraltro, nè l’uno nè l’altro caso. Ed anzi l’art. 8, numero 2, comma 2, dell’Accordo - prevedendo che la corte di appello, adita per la dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità, possa dare provvedimenti economici provvisori, in funzione anticipatoria di una futura decisione di merito da emettersi da un non meglio individuato giudice competente - induce a ritenere che tale tutela di merito, in assenza di altre previsioni ed in attesa di un nuovo intervento del legislatore statale, sia proprio quella delineata fin dal 1929 dall’art. 18 della legge n. 847.

3.2 - La questione proposta dall’ordinanza n. 425 del 2000 é manifestamente inammissibile, in quanto - come esattamente eccepito dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri - é stata sollevata senza alcuna indicazione in ordine all’oggetto della vicenda del giudizio a quo e, quindi, mancano gli elementi che permettano di apprezzarne la rilevanza ai fini della decisione.

Nè - in applicazione del consolidato principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione - il vizio può essere sanato dall’allegazione che di tali elementi é stata fatta dalla parte costituita.

4. - Le ordinanze n. 359 del 2000 e n. 82 del 2001 differiscono solo sul piano formale, in quanto la prima pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge n. 847 del 1929 (che per comune opinione estende oggi al matrimonio concordatario, dichiarato nullo in sede ecclesiastica, il regime delle conseguenze patrimoniali del matrimonio putativo, previsto dagli artt. 129 e 129-bis cod. civ.), mentre la seconda impugna direttamente tali articoli (implicitamente considerandoli applicabili in ragione del rinvio operato appunto dall’art. 18).

Entrambe, del resto, chiedono a questa Corte una sentenza additiva che - in caso di dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, da cui sia nata una consolidata comunione di vita - ne sottragga gli effetti patrimoniali alla disciplina del matrimonio putativo, che non tutelerebbe sufficientemente il coniuge privo di redditi adeguati, e perciò lederebbe i principi costituzionali di eguaglianza e di laicità dello Stato, e li assoggetti ad una disciplina diversa, ad essi conforme.

5. - La difesa della parte costituita nel giudizio di cui all’ordinanza n. 359 del 2000 sostiene che la questione di legittimità costituzionale non sarebbe ammissibile, in quanto il rinvio alla disciplina del matrimonio putativo - contenuto nell’art. 18 della legge n. 847 del 1929 e sostanzialmente confermato dall’art. 8 dell’Accordo del 1984 - sarebbe costituzionalmente protetto e non consentirebbe di applicare in via analogica od estensiva alla fattispecie della delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità <<norme di altri istituti (come quello divorzista) e per legge ordinaria>>.

L’eccezione é infondata.

Già nel Concordato del 1929 non vi era alcuna norma che imponesse allo Stato di disciplinare le conseguenze del matrimonio concordatario dichiarato nullo dal tribunale ecclesiastico mediante l’applicazione dell’art. 116 cod. civ. del 1865. Ne consegue che l’art. 18 della legge n. 847 del 1929, nella parte in cui rinviava a quella norma, non poteva reputarsi espressione di impegno pattizio, e che, entrata in vigore la Costituzione, la relativa previsione, ormai riferibile alla disciplina del codice civile del 1942, é del tutto estranea all’art. 7 della Costituzione.

Tale conclusione resta ferma anche dopo l’Accordo del 1984. Esso si limita infatti ad esprimere a livello pattizio non già l’impegno dello Stato a prevedere una disciplina delle conseguenze patrimoniali del matrimonio concordatario dichiarato nullo in sede ecclesiastica, ma solo la facoltà di disporre in tal senso, come rivela l’uso del verbo <<potrà>>, e comunque nulla dice sul suo contenuto, affidato alla discrezionalità del legislatore statale.

Perciò la norma che rinvia, per il matrimonio concordatario dichiarato nullo dal tribunale ecclesiastico, alla disciplina del matrimonio (civile) putativo può essere sottoposta al controllo di costituzionalità delle leggi ordinarie, senza alcuna limitazione.

6. - Nel merito, la questione non é fondata.

Allo scopo di ottenere da questa Corte la sentenza additiva dal contenuto prima delineato - idoneo ad emendare la normativa impugnata dai lamentati profili di contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza e con quello di laicità dello Stato - i rimettenti non sottopongono al sindacato di costituzionalità la disciplina generale degli effetti che nel diritto interno conseguono alla nullità del matrimonio civile, sotto il profilo della sua applicabilità al matrimonio concordatario dichiarato nullo dalla giurisdizione canonica con sentenza esecutiva nello Stato; in particolare, non chiedono alla Corte di verificare se ed in quale grado siffatta disciplina tuteli le situazioni caratterizzate dall’esistenza fra i coniugi di una consolidata comunione di vita, la cui dissoluzione arrechi pregiudizio al soggetto economicamente più debole.

In realtà, l’esigenza di tutela di questo soggetto può porsi non soltanto nel caso di nullità del matrimonio concordatario, ma anche in quello di nullità del matrimonio celebrato ai sensi del codice civile (o eventualmente ai sensi di un ordinamento straniero, ove degli effetti di tale nullità si debba tener conto in Italia, in base al nostro diritto internazionale privato).

Per garantire effettività di tutela al soggetto economicamente più debole, il legislatore - nell’esercizio della sua discrezionalità - ben potrebbe intervenire sulla disciplina attuale degli effetti patrimoniali della nullità del matrimonio, affrancandola dalle rigidità che nel sistema vigente ne circoscrivono il contenuto entro limiti angusti (cfr., ad es., l’art. 129 cod. civ.).

Ma non é questa la questione rimessa alla Corte dalle ordinanze in esame.

Esse - sia pure con impostazioni per taluni aspetti differenziate - ritengono, nella sostanza, che l’assoggettamento del matrimonio concordatario nullo alla disciplina del matrimonio putativo, previsto dall’art. 18 della legge n. 847 del 1929, sarebbe oggi adeguato per il solo art. 128 cod. civ., relativo agli effetti personali, il cui contenuto si adatterebbe indifferentemente sia al matrimonio civile che a quello concordatario, ma non anche per gli artt. 129 e 129-bis cod. civ., relativi agli effetti patrimoniali.

Infatti, secondo i rimettenti, la disciplina contenuta in tali ultimi articoli, ed in particolare la ridotta tutela accordata agli interessi patrimoniali del coniuge sprovvisto di redditi adeguati - limitata nel tempo e sottoposta alla condizione che egli versi in buona fede, ossia non abbia dato causa alla nullità - troverebbe giustificazione nell’ordinamento italiano, nel quale la nullità del matrimonio deve essere fatta valere in termini di decadenza tanto brevi da escludere l’instaurazione di una vera e propria convivenza o da consentirne solo una di scarso rilievo, dalla cui fine non potrebbero derivare nocumenti economici rilevanti al coniuge meno provvisto; ma sarebbe, al contrario, del tutto incongrua rispetto alla dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, che può essere pronunciata, secondo l’ordinamento canonico, a notevole distanza di tempo dalla celebrazione, anche dopo l’instaurazione fra i coniugi del consortium totius vitae e la nascita di figli. In tali casi, ad avviso dei rimettenti, la disciplina patrimoniale del matrimonio putativo (in particolare quella contenuta nell’art. 129 cod. civ.) non sarebbe idonea, per i suoi presupposti e per i suoi contenuti, a tutelare convenientemente il coniuge privo di redditi adeguati; e questa inadeguatezza sarebbe dimostrata dal raffronto con la disciplina apprestata dalla legge sul divorzio, n. 898 del 1970, che all’art. 5 prevede la corresponsione al coniuge economicamente più debole di contribuzioni periodiche senza limiti di tempo, idonee ad assicurargli un tenore di vita corrispondente a quello goduto durante il matrimonio.

7. - Sulla base di tali considerazioni, i rimettenti chiedono alla Corte una sentenza additiva che comporti la totale e indiscriminata estensione al matrimonio concordatario dichiarato nullo della disciplina dei profili patrimoniali della cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio concordatario, di cui alla legge n. 898 del 1970.

L’accoglimento della richiesta avrebbe un duplice effetto: per un verso, di ritagliare - nel più ampio quadro degli aspetti patrimoniali delle vicende relative alla patologia del matrimonio - una disciplina comune alla nullità del matrimonio concordatario ed al divorzio; per altro verso, di assoggettare la nullità del matrimonio concordatario ad una disciplina avente contenuti differenti rispetto a quella della nullità del matrimonio civile.

Sotto entrambi i profili, la questione, così come posta dai giudici rimettenti, non può essere accolta.

7.1. - In ordine al primo profilo, le due fattispecie della nullità del matrimonio e del divorzio presentano elementi di diversità non meramente formali, ma sostanziali.

L’una si fonda - tanto nell'ordinamento civile quanto in quello canonico, sia la causa di nullità prevista da entrambi o da uno solo di essi - sulla constatazione giudiziale di un difetto originario dell'atto. L'altro, viceversa, si fonda, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 898 del 1970, sull'accertamento, ad opera del giudice, <<che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste dall'art. 3>>, e quindi presuppone una crisi dello svolgimento del rapporto coniugale.

La diversità strutturale delle due fattispecie vale di per sè ad escludere la violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento, in quanto, a cagione di essa, non é costituzionalmente necessario che le situazioni di declaratoria della nullità canonica alle quali fanno riferimento i rimettenti debbano ricevere lo stesso trattamento che l’ordinamento assegna alla disciplina delle conseguenze patrimoniali della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario (o dello scioglimento del matrimonio civile).

Benvero, tanto nell’ipotesi della nullità, quanto in quella del divorzio, é possibile che dal matrimonio sia derivata l’instaurazione fra i coniugi di una consolidata comunione di vita. Ma spetta solo al legislatore - nell’esercizio della sua discrezionalità, e salvo il sindacato di costituzionalità - il potere di modificare il sistema vigente nella prospettiva di un accostamento tra la disciplina della nullità del matrimonio concordatario e quella della cessazione degli effetti civili conseguenti alla sua trascrizione, per effetto di divorzio.

7.2. - Sotto il secondo profilo, invece, la statuizione chiesta dai rimettenti determinerebbe essa stessa un’ingiustificata disparità di trattamento, circa gli effetti patrimoniali, della nullità del matrimonio concordatario rispetto alla nullità del matrimonio civile.

7.3. - Tanto basta ai fini della dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale proposta da entrambe le ordinanze in riferimento all’art. 3 della Costituzione, e dall’ordinanza n. 359 del 2000, anche sotto il profilo della contrarietà al principio supremo di laicità dello Stato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia, nelle parti relative al matrimonio), sollevata dal Tribunale di Vicenza, in riferimento all’art. 3 della Costituzione ed al principio supremo di laicità dello Stato, e degli artt. 129 e 129-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale di Roma, in riferimento all’art. 3 della Costituzione;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), nella parte in cui dà esecuzione all'art. 8, numero 2, comma 2, dell'Accordo, sollevata dalla Corte d’appello di Roma, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Franco BILE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 27 settembre 2001.