Ordinanza n. 259/2001

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ORDINANZA N. 259

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 21 gennaio 2000 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di L. B. ed altri, iscritta al n. 633 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con ordinanza emessa il 21 gennaio 2000 nel corso di un procedimento penale nei confronti di persone imputate del delitto di cessione illecita di sostanze stupefacenti — ordinanza pervenuta alla Corte il 25 settembre 2000 — il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pesaro ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 76 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui consente al pubblico ministero di disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria soltanto quando gli impianti installati nella procura della Repubblica risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni di urgenza;

 che il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciarsi, in sede di udienza preliminare, sull’eccezione della difesa in ordine all’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 271, comma 1, cod. proc. pen., delle intercettazioni telefoniche eseguite nel corso delle indagini preliminari mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria: inutilizzabilità conseguente alla mancata indicazione, nel decreto del pubblico ministero che disponeva le intercettazioni stesse, delle eccezionali ragioni di urgenza in presenza delle quali soltanto, a norma dell’art. 268, comma 3, cod. proc. pen., le operazioni possono essere compiute con impianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica;

 che il rimettente — dopo aver rilevato come, alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, tale eccezione dovrebbe essere accolta — ritiene, tuttavia, che il citato art. 268, comma 3, cod. proc. pen. risulti viziato da eccesso di delega: e ciò in quanto le condizioni della inidoneità o insufficienza degli impianti esistenti negli uffici di procura e dell’esistenza di eccezionali ragioni di urgenza — condizioni alle quali, in forza della norma impugnata, resta subordinata la possibilità di avvalersi di impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria — non sarebbero in alcun modo ricollegabili alla direttiva di cui al numero 41, lettera d), dell’art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, la quale si limitava a prevedere la semplice «individuazione degli impianti presso cui le intercettazioni possono essere effettuate»;

che la soluzione adottata dal legislatore delegato si porrebbe altresì in contrasto con le direttive che prevedevano, in via generale, la facoltà del pubblico ministero di delegare alla polizia giudiziaria il compimento di atti di indagine (n. 37) e la massima semplificazione nello svolgimento del processo (n. 1);

 che la norma impugnata violerebbe, inoltre, i principi costituzionali di ragionevolezza e dell’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale;

 che, infatti, l’incremento del numero delle linee telefoniche oggetto di intercettazione renderebbe di fatto impossibile l’ascolto di tutte le conversazioni mediante gli impianti ubicati presso le procure della Repubblica, onde potrebbe bene accadere che tali impianti risultino «insufficienti o inidonei», senza tuttavia che sussista l’altro requisito delle «eccezionali ragioni di urgenza» (ad esempio, perché l’indagine è iniziata da tempo): con la conseguenza che, in tal caso, la pubblica accusa non potrebbe avvalersi di una prova decisiva per l’accertamento della verità;

 che un simile regime non risponderebbe, d’altro canto, ad alcuna apprezzabile ratio, in quanto l’ascolto personale delle conversazioni o comunicazioni da parte del pubblico ministero, allorché l’intercettazione abbia luogo presso gli uffici di procura, costituirebbe «quasi un’ipotesi di scuola», essendo egli costretto, per ragioni pratiche, a delegare nella generalità dei casi l’incombenza agli organi di polizia giudiziaria; laddove, per converso, il controllo giurisdizionale e del pubblico ministero, l’obbligo di depositare i cosiddetti brogliacci di ascolto e la facoltà dei difensori degli imputati di ascoltare a loro volta le registrazioni renderebbero «assai poco verosimile» la commissione di abusi da parte della polizia giudiziaria (abusi che non sarebbero comunque scongiurati dalla circostanza che le operazioni si svolgano nei locali del palazzo di giustizia);

 che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di infondatezza della questione.

 Considerato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini della valutazione del vizio di eccesso di delega, le norme della legge di delegazione che determinano i principi e i criteri direttivi devono essere interpretate tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità ispiratrici della delega (v., ex plurimis, sentenze n. 96 del 2001 e n. 276, n. 292 e n. 415 del 2000);

 che, nella specie, in verità, già da un punto vista puramente logico-letterale, la direttiva di cui al numero 41, lettera d), dell’art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale) si presenta incompatibile con quella ampia discrezionalità del pubblico ministero nella scelta della sedes di svolgimento delle operazioni di intercettazione, che il rimettente sostanzialmente postula;

 che nel compito, conferito all’esecutivo dalla direttiva citata, di individuare «gli impianti presso cui le intercettazioni telefoniche possono essere effettuate» è chiaramente insita, difatti, una “regola di selezione” degli impianti stessi, il cui termine di riferimento non può che essere rappresentato dalle esigenze di garanzia evocate nell’art. 15, secondo comma, Cost., in tema di limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni;

 che la validità dell’assunto risulta ancor più evidente, peraltro, ove si tenga conto dello sviluppo normativo che sta a monte del criterio di delega in parola;

 che tale sviluppo prende per vero origine dall’affermazione, fatta da questa Corte nella vigenza del codice di procedura penale del 1930, in forza della quale vanno ricondotte alla previsione dell’art. 15, secondo comma, Cost. anche le «garanzie» di ordine più propriamente «tecnico», attinenti alla predisposizione di servizi tali da consentire all’autorità giudiziaria «anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell’autorizzazione», ed al conseguente auspicio dell’intervento legislativo occorrente a tal fine (v. sentenza n. 34 del 1973);

 che, di seguito a tale pronuncia, il legislatore aveva, quindi, dapprima stabilito che le intercettazioni dovessero effettuarsi esclusivamente mediante impianti installati nelle procure della Repubblica, salva la facoltà di utilizzare, in via transitoria, gli impianti di pubblico servizio, fin quando gli uffici giudiziari non fossero adeguatamente attrezzati (art. 226-quater, primo comma, del codice di procedura penale del 1930, aggiunto dall’art. 5 della legge 8 aprile 1974, n. 98); e poi consentito — a fronte della perdurante insufficienza degli impianti installati presso le procure — di utilizzare, ma solo «per ragioni di urgenza», anche gli «impianti in dotazione agli uffici di polizia giudiziaria» (nuovo secondo comma del citato art. 226-quater, come sostituito dall’art. 8 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, convertito, con modificazioni, nella legge 18 maggio 1978, n. 191);

 che, in questa prospettiva, confermando la regola per cui le intercettazioni «possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica», e puntualizzando ulteriormente i presupposti che legittimano, in via derogatoria, l’utilizzazione di impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria — con la previsione, a fianco delle «ragioni di urgenza» (qualificate peraltro come «eccezionali»), del concorrente requisito dell’insufficienza o inidoneità degli impianti di procura, nonché dell’obbligo di motivazione del provvedimento del pubblico ministero — la disposizione dell’art. 268, comma 3, del nuovo codice di rito si colloca pienamente nel solco tracciato dal legislatore delegante;

 che per quanto attiene, poi, alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., questa Corte ha già di recente chiarito che l’avere il legislatore privilegiato «l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giudiziari, dettando una disciplina volta a circoscrivere con apposite garanzie l’uso di impianti esterni», non può dirsi, in sé, «scelta arbitraria…, avuto anche riguardo alla particolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata»: e ciò proprio perché si tratta di scelta finalizzata ad «evitare che gli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto» possano «operare controlli sul traffico telefonico al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria» (v. ordinanza n. 304 del 2000);

 che manifestamente insussistente appare, infine, l’asserita compromissione dell’art. 112 Cost., trattandosi di disposizione che non incide sull’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, ma stabilisce, con finalità di salvaguardia di un valore di rango costituzionale e conseguenti riflessi sul piano dell’utilizzabilità (ex art. 271, comma 1, cod. proc. pen.), le «garanzie tecniche» di espletamento di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo;

 che, pertanto, la questione di costituzionalità deve essere dichiarata manifestamente infondata.

 Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 76 e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pesaro con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2001.