Ordinanza n. 234/2001

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ORDINANZA N. 234

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare  RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, primo e secondo comma, e 10 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), promosso con ordinanza emessa il 10 dicembre 1999 dal Tribunale di Roma, sui ricorsi riuniti proposti da de Vito Lodovico ed altri, iscritta al n. 801 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti l'atto di costituzione di de Vito Lodovico ed altri nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 aprile 2001 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto che, con ordinanza del 10 dicembre 1999 (pervenuta alla Corte il 29 novembre 2000) ¾ emessa nel corso di un giudizio di opposizione promosso da taluni consulenti tecnici d’ufficio, nominati in una controversia civile, a motivo dell'esiguità degli onorari liquidati dal giudice istruttore ¾ il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 2, primo e secondo comma, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria);

che l'ordinanza evidenzia, anzitutto, che il provvedimento del giudice istruttore, oggetto di opposizione nel giudizio a quo, nel determinare gli onorari a percentuale da corrispondersi ai nominati consulenti tecnici, in forza degli artt. 2 e 11 del d.P.R. 27 luglio 1988, n. 352, ha, da un lato, escluso la possibilità di liquidare un compenso che vada oltre l'importo determinabile in base all'ultimo scaglione e ciò "qualunque sia il valore superiore oggetto dell'accertamento o della causa" e, dall'altro, affermato "il divieto di attribuzione di separati compensi in relazione all'unitarietà dell'incarico conferito", pur osservando che detto divieto sussiste soltanto per attività materiali "ovvero per la risoluzione di quei quesiti che rivestono carattere necessitato in quanto propedeutici o strumentali allo stesso espletamento dell'indagine";

che, inoltre, il rimettente rileva che, "sulla base della relazione e della stessa motivazione del provvedimento del giudice istruttore", non sussiste contestazione sulla circostanza per cui i consulenti tecnici ricorrenti "abbiano valutato beni per importi complessivamente di molto superiori al miliardo di lire e che la risposta ai numerosi quesiti ... abbia comportato l'esame e l'accertamento del valore di numerose ed autonome opere edili, all'esito di operazioni, di carattere tecnico, revisionale e finanziario, tra di loro diverse";

che, tanto premesso, il giudice a quo osserva che la possibilità di adeguamento periodico della misura degli onorari di cui agli artt. 2 (onorari variabili) e 4 (onorari a vacazione) della legge n. 319 del 1980 è prevista ¾ con cadenza triennale e in relazione alla variazione accertata dall'ISTAT dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati ¾ dall’art. 10 della medesima legge n. 319;

che, tuttavia, dopo l'emanazione delle tabelle degli onorari variabili con il d.P.R. 14 novembre 1983, n. 820, si è provveduto al primo ed unico adeguamento con il d.P.R. 27 luglio 1988, n. 352, sicché, a distanza di dieci anni, l'omissione di qualsiasi ulteriore adeguamento periodico ha determinato una perdita di valore delle tabelle in vigore dell'ordine di circa il 40%, con conseguente irragionevole ed ingiustificata incidenza sui compensi da liquidarsi, non più corrispondenti a quelli degli altri professionisti, "e, in definitiva, sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia, che, di riflesso, risente della difficoltà di trovare validi ausiliari non essendo in grado di compensarli convenientemente";

che, peraltro, non può ipotizzarsi, ad avviso del rimettente, che gli onorari variabili calcolati a percentuale trovino "il loro naturale adeguamento" in virtù del collegamento al valore dei beni o delle altre attività oggetto di accertamento, "che si incrementa nel tempo in termini di valore reale", giacché, "nella maggior parte dei casi, tali valori sono ancorati, nell'ambito del procedimento, ad un accertamento da farsi con riferimento ad epoche, a volte, assai remote";

che, pertanto, il giudice a quo ritiene che l'art. 10 della legge n. 319 del 1980, "nella parte in cui non prevede che la misura degli onorari è automaticamente adeguata ogni tre anni, secondo i criteri previsti dalla stessa norma, a partire dall'ultimo decreto", si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione;

che, inoltre, quanto alla misura ed ai criteri di determinazione dei compensi, il rimettente assume che, in forza del consolidato orientamento della Corte di cassazione, il limite massimo degli onorari stabilito dalle tabelle non può essere in nessun caso superato, né è dato operare, a fronte dell'unicità dell'incarico affidato al consulente, una pluralità di liquidazioni, sulla base di scaglioni calcolati singolarmente, anche quando oggetto della consulenza sia una pluralità di valutazioni sia pure tra di loro autonome;

che, secondo l'ordinanza, tali limitazioni, conseguenti alla normativa primaria di indirizzo fissata dall'art. 2, primo e secondo comma, della legge n. 319 del 1980, comportano "una abnorme contrazione della possibilità di liquidazione degli onorari, nelle ipotesi in cui il valore dell'oggetto della consulenza, o della causa, sia superiore ai limiti massimi imposti dalle tabelle, e quando oggetto della consulenza sia una pluralità di valutazioni, tra di loro del tutto autonome, la cui somma deve interamente rapportarsi agli scaglioni previsti, senza che le limitazioni stesse possano, in casi estremi, essere comunque adeguatamente compensate con l'applicazione della facoltà di cui all'art. 5 della legge n. 319 del 1980, sul raddoppio degli onorari";

 che, pertanto, il denunciato art. 2, primo e secondo comma, determina, ad avviso del giudice a quo, una situazione irragionevole e lesiva della buona funzionalità dell'amministrazione della giustizia, sì da contrastare con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui:

¾ con disposizione asseritamente troppo vaga e generica, "prevede che le tabelle per gli onorari fissi siano redatte con riferimento alle tariffe professionali «contemperate dalla natura pubblicistica dell'incarico» e non invece semplicemente «tenuto conto della natura pubblicistica dell'incarico»";

¾ "non prevede che, nella determinazione degli onorari, i criteri di liquidazione debbano essere rapportati ad ogni singola valutazione, che abbia caratteristiche autonome";

¾ "non prevede che il giudice, in casi estremi e con provvedimento specificatamente motivato, possa prescindere dalle tabelle per adeguare il compenso alla concreta attività svolta dal consulente";

che, con memoria depositata il 6 marzo 2001, si sono congiuntamente costituiti i ricorrenti nel giudizio a quo, nonché l'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, interventore nel medesimo giudizio, chiedendo che la sollevata questione venga dichiarata fondata e ribadendo tali conclusioni con successiva memoria;

 che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale, argomentando più diffusamente con la memoria successivamente depositata, ha concluso per l'inammissibilità o comunque per l'infondatezza della questione medesima.

Considerato, in via preliminare, che la costituzione dei ricorrenti nel giudizio a quo e, congiuntamente ad essi, dell'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma è inammissibile, in quanto effettuata oltre il termine perentorio di venti giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza di rimessione sulla Gazzetta Ufficiale, fissato dagli artt. 25, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte;

che, nel merito, quanto alla questione che investe l'art. 10 della legge 8 luglio 1980, n. 319, denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, "nella parte in cui non prevede che la misura degli onorari è automaticamente adeguata ogni tre anni, secondo i criteri previsti dalla stessa norma, a partire dall'ultimo decreto", va rammentato che, con la sentenza n. 41 del 1996, la Corte ha già ritenuto che l’inadeguatezza degli onorari non dipende da un difetto legislativo, bensì dall'inerzia delle autorità deputate a provvedere a siffatto adeguamento (peraltro, intervenuto, quanto agli onorari liquidati a vacazione, con decreto del Ministro di grazia e giustizia del 5 dicembre 1997); inerzia alla quale può ovviarsi, nella materia in esame, non con l’intervento del giudice delle leggi, ma con altri rimedi;

che, pertanto, alla luce di siffatte considerazioni, non adducendo il rimettente ragioni tali da indurre ad un diverso avviso, la questione va dichiarata manifestamente infondata;

che, relativamente al dedotto contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione dell'art. 2, primo e secondo comma, della stessa legge n. 319 del 1980, "nella parte in cui prevede che le tabelle per gli onorari fissi siano redatte con riferimento alle tariffe professionali <<contemperate dalla natura pubblicistica dell'incarico>> e non invece semplicemente <<tenuto conto della natura pubblicistica dell'incarico>>", la denuncia del giudice a quo, nella sua genericità, si risolve, piuttosto, in una critica dell'esercizio della discrezionalità legislativa, senza che, peraltro, sia dato comprendere in quale modo l'auspicato intervento correttivo, consistente nel sostituire la locuzione della legge con quella proposta dal rimettente, possa valere a ripristinare la legittimità costituzionale asseritamente vulnerata;

che, dunque, come prospettata, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile;

che, quanto al dubbio di costituzionalità che, sempre in riferimento ai predetti parametri, investe il medesimo art. 2, primo e secondo comma, "nella parte in cui non prevede che, nella determinazione degli onorari, i criteri di liquidazione debbano essere rapportati ad ogni singola valutazione, che abbia caratteristiche autonome", va osservato che dall'ordinanza non si evince chiaramente quale sia il criterio seguito, nella specie, con il provvedimento oggetto di opposizione, non potendo, anzi, escludersi che esso sia stato quello della pluralità di liquidazioni degli onorari a fronte di una pluralità di valutazioni tra loro autonome, applicando l'unicità del compenso soltanto alle operazioni peritali puramente ripetitive, donde l’insufficiente motivazione in punto di rilevanza della questione;

che, in ogni caso, il giudice a quo muove dal presupposto che il principio di corrispondenza tra unicità dell'incarico e unicità del compenso sia rigidamente affermato come diritto vivente, pur non disconoscendo egli stesso l'esistenza di altro orientamento, che ritiene possibile una pluralità di compensi in riferimento ad un accertamento avente ad oggetto una pluralità di beni con caratteristiche di autonomia, sì da non assolvere, conclusivamente, all'obbligo di scegliere, tra una pluralità di opzioni ermeneutiche possibili, la soluzione ritenuta conforme a Costituzione;

che, dunque, per l’insieme delle considerazioni svolte, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile;

che, infine, relativamente alla censura che deduce il vulnus degli stessi anzidetti parametri da parte del medesimo art. 2, primo e secondo comma, " nella parte in cui non prevede che il giudice, in casi estremi e con provvedimento specificatamente motivato, possa prescindere dalle tabelle per adeguare il compenso alla concreta attività svolta dal consulente", deve osservarsi che la doglianza investe una materia rimessa alla discrezionalità legislativa, anche in ragione della pluralità di scelte cui essa si presta, mentre esula dai poteri di questa Corte contrastare, con una propria diversa valutazione, la scelta discrezionale del legislatore circa il mezzo più adatto per conseguire il fine, dovendosi arrestare questo tipo di scrutinio alla verifica che il mezzo prescelto non sia, come nel caso di specie, palesemente incongruo o inadeguato;

che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, primo e secondo comma, della citata legge 8 luglio 1980, n. 319, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal medesimo Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, primo e secondo comma, della citata legge 8 luglio 1980, n. 319, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dallo stesso Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2001.