Ordinanza n. 219/2001

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ORDINANZA N.219

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO            

- Massimo VARI                     

- Riccardo CHIEPPA             

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Fernanda CONTRI               

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Franco BILE             

- Giovanni Maria FLICK                    

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 64, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 3 giugno 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione II, sul ricorso proposto da E. C. ed altri contro la Direzione provinciale del Tesoro di Palermo ed altro, iscritta al n. 621 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti l'atto di costituzione di V. A. ed altri nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 maggio 2001 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;

uditi l'avvocato Sergio Agrifoglio per V. A. ed altri e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione II, ha sollevato, con ordinanza del 3 giugno 1999, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 64, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), in riferimento agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione;

che, nel giudizio principale, i ricorrenti, tutti magistrati ordinari, hanno impugnato le note della Direzione provinciale del Tesoro di Palermo aventi ad oggetto la comunicazione dell'accertamento di un debito imponibile <<per conguaglio stipendio>> e del <<recupero>> del relativo importo <<ai sensi e con le modalità previste dall’art. 10, secondo comma,>> della legge 6 agosto 1984, n. 425, mediante <<congelamento>> della progressione in carriera;

che le somme in oggetto erano state corrisposte ai ricorrenti in esecuzione della sentenza del TAR per la Sicilia del 24 ottobre 1984, n. 2363, che aveva loro riconosciuto ex lege 2 aprile 1979, n. 97 il diritto a sei scatti figurativi sullo stipendio base della qualifica posseduta al 1° gennaio 1979, sentenza passata in giudicato successivamente all’entrata in vigore della legge n. 425 del 1984, il cui art. 10, secondo comma, ha stabilito che gli importi a qualsiasi titolo erogati o da erogare <<in esecuzione di provvedimenti giudiziali passati in giudicato che hanno pronunciato su domande>> fondate, tra l’altro, sull’applicazione della legge n. 97 del 1979 <<sono riassorbiti con la normale progressione economica nelle funzioni, ed inoltre, se necessario, operando le conseguenti detrazioni a conguaglio a carico dell'indennità di buonuscita>>;

che, ad avviso del giudice a quo, la fattispecie in esame sarebbe disciplinata dall’art. 10, secondo comma, della legge n. 425 del 1984, in quanto l’art. 3, comma 64, della legge n. 537 del 1993 ha stabilito che detta norma <<si interpreta nel senso che si applica anche ai provvedimenti giudiziali passati in giudicato in data successiva a quella di entrata in vigore della stessa legge 6 agosto 1984, n. 425>>;

che, secondo il TAR, la norma impugnata violerebbe gli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, recando vulnus ai principi della divisione dei poteri e della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, in quanto non stabilisce una regola astratta, ma <<esercita in sostanza una funzione provvedimentale concreta>>, incidendo <<sugli effetti già prodotti dall'esercizio della funzione giurisdizionale>>, così da <<neutralizzare del tutto - e sostanzialmente vanificare - gli effetti di giudicati già formatisi e addirittura anche già eseguiti>>;

che é intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di manifesta infondatezza della questione;

che, ad avviso della difesa erariale, la censura, così come sollevata dal TAR, riguarderebbe l’art. 10, secondo comma, della legge n. 425 del 1984, in riferimento agli stessi parametri e per gli stessi motivi già esaminati dalla Corte in numerose decisioni (tra le altre: sentenza n. 413 del 1988, ordinanza n. 469 del 1992), che hanno dichiarato non fondata o manifestamente infondata la questione ora nuovamente proposta, in considerazione della finalità perequativa realizzata da detta legge e della strumentalità del riassorbimento rispetto allo scopo di evitare che i vantaggi economici riconosciuti dal giudicato si sommino con i trattamenti attribuiti da questa stessa legge;

che si sono altresì costituiti quattro dei cinque ricorrenti nel processo principale, i quali hanno chiesto l’accoglimento della questione, svolgendo argomenti in larga misura coincidenti con quelli contenuti nell’ordinanza di rimessione e deducendo, inoltre, che la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con l'art. 1 del protocollo n. 1 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848;

che all’udienza pubblica l’Avvocatura e le parti private hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

Considerato che il sindacato della Corte é in questa sede limitato ai parametri costituzionali indicati nell’ordinanza di rimessione, poichè non possono essere presi in considerazione profili di costituzionalità dedotti dalle parti ovvero riferiti a parametri non fatti propri dal giudice a quo (per tutte, ordinanza n. 44 del 2001, sentenza n. 330 del 1999);

che il rimettente impugna formalmente l’art. 3, comma 64, della legge n. 537 del 1993, ma svolge argomentazioni con le quali viene in sostanza a censurare l’art. 10, secondo comma, della legge n. 425 del 1984, eccependo che, a suo avviso, il meccanismo del riassorbimento degli importi retributivi attribuiti da sentenze passate in giudicato si porrebbe in contrasto con gli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione;

che quest’ultima norma, in riferimento agli stessi parametri e sotto gli stessi profili indicati dal giudice a quo, é stata più volte scrutinata da questa Corte, la quale ha dichiarato la relativa questione non fondata o manifestamente infondata, affermando che la disposizione é inserita all’interno di una legge diretta a stabilire l’equilibrio delle retribuzioni per tutte le categorie di magistrati e concorre a realizzare una <<generale finalità perequativa>>, così precludendo situazioni retributive a loro volta riproduttive di disparità non tollerabili (sentenza n. 413 del 1988; ordinanze n. 915 del 1988; n. 1047 del 1988; n. 501 del 1991; n. 253 del 1992; n. 469 del 1992);

che, secondo la giurisprudenza costituzionale, qualora il legislatore disponga <<un riassorbimento di quanto già conseguito, senza incidere su quanto già corrisposto per effetto della sentenza, bensì eliminando, con il meccanismo della gradualità temporale proprio del riassorbimento economico, esiti privilegiati di trattamento economico>> i parametri indicati dal rimettente non possono ritenersi lesi e non é configurabile nè lo svuotamento del contenuto del giudicato, nè l’impiego della funzione legislativa per invadere l’ambito riservato dalla Costituzione alla funzione giudiziaria (sentenza n. 409 del 1995);

che al legislatore non é precluso, eventualmente anche in sede di interpretazione autentica, di modificare sfavorevolmente la disciplina di determinati trattamenti economici, purchè ciò avvenga in modo non irrazionale o arbitrario, come appunto é accaduto nel caso in esame, in considerazione della finalità perequativa realizzata dalla norma e delle modalità del riassorbimento degli effetti economici derivanti dalle sentenze passate in giudicato (sentenza n. 374 del 2000);

che la questione é pertanto manifestamente infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 64, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione II, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2001.