Ordinanza n. 146/2001

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ORDINANZA N. 146

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare                         RUPERTO                      Presidente

- Fernando                    SANTOSUOSSO             Giudice

- Massimo                     VARI                                      "

- Gustavo                      ZAGREBELSKY                  "

- Valerio                        ONIDA                                  "

- Carlo                           MEZZANOTTE                    "

- Guido                          NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto              CAPOTOSTI                         "

- Annibale                     MARINI                                "

- Franco                         BILE                                      "

- Giovanni Maria          FLICK                                    "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa l’8 marzo 2000 dal Tribunale di sorveglianza di Caltanissetta, iscritta al n. 484 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2001 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto che, con ordinanza emessa l’8 marzo 2000, pervenuta a questa Corte il 5 luglio 2000, il Tribunale di sorveglianza di Caltanissetta ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 4, 16 e 27 della Costituzione, dell’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che disciplina l’affidamento in prova al servizio sociale, nella parte in cui non prevede che l’esecuzione della misura possa aver luogo anche nel territorio di un altro Stato appartenente all’Unione europea;

che il remittente, premesso di doversi pronunciare sulla istanza di affidamento al servizio sociale di un condannato residente in Germania, che ivi ha un lavoro e vive con la famiglia, e che si troverebbe nelle condizioni soggettive che consentirebbero la concessione del beneficio, dà atto che sia l’amministrazione penitenziaria, sia la giurisprudenza della Corte di cassazione escludono che la misura possa essere applicata fuori del territorio nazionale, potendo essere destinatari dell’affidamento solo i centri di servizio sociale, privi di competenza e non operanti all’estero;

che, tuttavia, il giudice a quo ritiene che la prassi amministrativa – che vede le strutture deputate non predisposte per eseguire la misura fuori del territorio nazionale – debba cedere ai principi di diritto; e che, dovendo la pena avere una funzione anzitutto rieducativa, sul piano personale e del reinserimento sociale (art. 27, terzo comma, Cost.), l’ordinamento dovrebbe rendere operativo tale principio, assicurare la garanzia della "parità lavorativa" fra tutti i cittadini, residenti o meno nello Stato (art. 3 Cost.), assicurare la tutela del principio costituzionale del diritto al lavoro, con la promozione delle condizioni che lo rendano effettivo (art. 4 Cost.), nonchè assicurare che la libertà di uscire dal territorio nazionale e di rientrarvi (art. 16, secondo comma, Cost.) non venga di fatto vanificata dall’impossibilità di svolgere attività lavorativa all’estero;

che, inoltre, ad avviso del remittente, nella ormai consolidata prospettiva della cittadinanza europea e della cooperazione europea in campo penale e della sicurezza, sarebbe antistorico escludere un beneficio, cui il condannato potrebbe legittimamente aspirare, sol perchè i centri di servizio sociale non potrebbero coordinarsi con i consolati italiani all’estero o con omologhi organismi operanti all’estero;

che é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale conclude chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata, osservando che nessuna norma costituzionale imporrebbe che l’esecuzione di una misura alternativa alla detenzione possa aver luogo fuori del territorio dello Stato in cui si manifesta la potestà punitiva; e che comunque, per potere eseguire la pena all’estero, occorrerebbe una normativa apposita, la quale a sua volta presupporrebbe un accordo internazionale che disciplinasse questo aspetto della cooperazione penale, accordo oggi mancante nei rapporti fra Italia e Germania.

Considerato che l’esecuzione di una misura restrittiva di carattere penale, come l’affidamento in prova, comporta l’esercizio di poteri autoritativi per il controllo sull’osservanza delle prescrizioni imposte (art. 47, commi 5, 6 e 9, della legge 26 luglio 1975, n. 354), sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza (art. 47, comma 10), e con informazione dell’autorità di pubblica sicurezza (art. 58 della stessa legge), poteri che non potrebbero essere esercitati al di fuori del territorio nazionale in mancanza di accordi con le autorità di altro Stato;

che la possibilità di espiare le pene nel territorio di Stati diversi da quello che ha emesso la condanna é bensì prevista da strumenti convenzionali internazionali (cfr. la convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983, e resa esecutiva in Italia con la legge 25 luglio 1988, n. 334, nonchè la legge 3 luglio 1989, n. 257, recante "Disposizioni per l’attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali"), e che, in questo ambito, é prevista anche la possibilità che cittadini italiani condannati in Italia siano trasferiti in altro Stato dell’Unione europea, tenuto conto della loro residenza abituale (art. 2 dell’Accordo relativo all’applicazione, tra gli Stati membri delle Comunità europee, della convenzione del Consiglio d’Europa sul trasferimento delle persone condannate, reso esecutivo in Italia con la legge 27 dicembre 1988, n. 565, ma non ancora operativo nei confronti della Germania, che non risulta averlo ratificato);

che, in ogni caso, tale eventualità é diversa da quella della esecuzione di una misura penale, ad opera delle autorità italiane, sul territorio di un altro Stato, comportando piuttosto l’esecuzione della stessa o di analoga misura ad opera delle autorità di un altro Stato;

che peraltro, in assenza di pur auspicabili sviluppi della normativa comunitaria e degli accordi di cooperazione con altri Stati per l’esecuzione di misure penali, non può ritenersi contrastante con alcuna norma della Costituzione la limitazione della esecuzione di misure penali nazionali all’ambito territoriale dello Stato italiano;

che, infatti, la disuguaglianza fra cittadini condannati che vivono e lavorano in Italia e cittadini condannati che vivono e lavorano all’estero, come ogni altra disparità che può derivare dalle diverse condizioni personali di vita e di lavoro del condannato, é di mero fatto, e non discende dalla norma impugnata, che non può pertanto ritenersi in contrasto con l’art. 3, primo comma, della Costituzione;

che, parimenti, é di mero fatto, e non é imputabile alla norma denunciata, l’ostacolo rispetto all’esercizio del diritto al lavoro, discendente dalla necessità di dare esecuzione ad una condanna penale e dalle modalità con cui tale esecuzione deve avvenire;

che il diritto a lasciare il territorio nazionale ed a rientrarvi, anche per motivi di lavoro, garantito ai cittadini dall’art. 16, secondo comma, della Costituzione, non ha nulla a che fare con le conseguenze restrittive discendenti da una condanna penale;

che, infine, non é violato il principio di rieducatività della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, per il solo fatto che l’affidamento in prova al servizio sociale – come ogni altra misura restrittiva di esecuzione penale ( può avvenire solo sul territorio nazionale e può perciò rivelarsi, in fatto, di più difficile applicazione, pur essendo, in diritto, sempre possibile, nei confronti di un condannato che vive e lavora all’estero;

che, pertanto, la questione appare manifestamente infondata sotto tutti i profili.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 4, 16 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Caltanissetta con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2001.