Ordinanza n. 107/2001

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ORDINANZA N. 107

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 341 del codice penale e del combinato disposto degli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 28 ottobre 1999 e il 20 gennaio 2000 dal Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, iscritte al n. 151 e al n. 524 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16 e n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 marzo 2001 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che, nel corso di un procedimento di esecuzione avente ad oggetto la richiesta di revoca parziale di una sentenza penale di condanna per vari reati, tra i quali quello di oltraggio a pubblico ufficiale, e conseguente rideterminazione della pena sulla base dell’intervenuta abrogazione dell’articolo 341 del codice penale disposta dall’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), il Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, con ordinanza in data 28 ottobre 1999 (r.o. n. 151 del 2000), solleva due questioni di legittimità costituzionale: l’una, avente ad oggetto l’art. 341 cod. pen., in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 2, 3, primo e secondo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 28, 54 e 97, primo comma, della Costituzione; l’altra, relativa al combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione;

che, quanto alla prima questione, il remittente, muovendo dalla premessa che l’articolo 18 della legge n. 205 del 1999 non avrebbe comportato una vera e propria abolitio criminis, ma una semplice successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, poiché tutti i comportamenti previsti dall’art. 341 cod. pen. devono ormai essere ricondotti alla più generale fattispecie dell’ingiuria di cui all’art. 594 cod. pen., eventualmente aggravata ai sensi dell’art. 61, numero 10, cod. pen., rileva che se “in tutti i giudizi di cognizione in corso per effetto dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod. pen. dovrà trovare applicazione la più mite disciplina di cui all’art. 594 cod. pen., ai sensi dell’art. 2, comma 3, cod. pen.”, al contrario, nei procedimenti di esecuzione, relativi a sentenze di condanna passate in giudicato, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 341 cod. pen. comporterebbe l’applicazione, in luogo della disciplina di cui all’art. 2 cod. pen., dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87;

che, prosegue il remittente precisando la sua tesi, mentre gli effetti del sopravvenire di un atto legislativo andrebbero distinti a seconda che si tratti di abolitio criminis o di mera successione nel tempo di leggi penali, riconducibili rispettivamente al secondo e al terzo comma dell’art. 2 cod. pen., nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge l’art. 30 della legge n. 87 del 1953 non consentirebbe distinzione alcuna, poiché si imporrebbe sempre e comunque l’efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità senza alcun limite di carattere processuale;

che sarebbe appunto questa la ragione per la quale l’art. 341 cod. pen., anche se abrogato, potrebbe formare oggetto di una questione dotata del requisito della rilevanza: l’eventuale accoglimento di tale questione comporterebbe l’applicabilità, non più dell’art. 2 cod. pen., ma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953 e, quindi, sul piano processuale, dell’art. 673 cod. proc. pen., con la conseguente revoca, nel giudizio principale, della sentenza di condanna;

che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il remittente dubita, in riferimento ai suindicati parametri, della legittimità costituzionale: a) della configurazione dell’oltraggio a un pubblico ufficiale come autonomo reato, anziché quale aggravante del reato di ingiuria; b) in subordine, del tipo e della entità delle pene stabilite per tale reato, a causa della mancata previsione della pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva, e del regime di procedibilità d’ufficio anziché a querela di parte;

che, con la seconda questione, il remittente dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la modifica del giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo con effetto meramente modificativo e conseguente abrogazione di una norma incriminatrice, perlomeno nei casi in cui l’intervento legislativo viene a porre in discussione l’an della sanzione, mediante la modifica del regime di procedibilità del reato, ovvero il quantum o la species della pena, prevedendo la nuova disciplina la pena pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva;

che ad avviso del remittente, la ratio sottesa al limite del giudicato posto dall’art. 2, terzo comma, cod. pen. sarebbe “eminentemente pratica”, cioè connessa all’esigenza di evitare un nuovo giudizio ad ogni sopravvenire di modifiche normative; si tratterebbe, quindi, di un fondamento certamente meno “alto” ed importante rispetto a quello a base della regola della retroattività della norma favorevole, consistente nel principio di eguaglianza sotto il profilo della parità sostanziale di trattamento;

che, rileva il giudice a quo, il limite del giudicato posto dal terzo comma dell’art. 2 cod. pen. sarebbe intrinsecamente irragionevole sia in rapporto alla diversa regola di cui al secondo comma dell’art. 2, sia “all’interno dei casi di mero intervento modificativo, in senso favorevole, da parte del legislatore”;

che, prosegue il remittente, la mancanza di ragionevolezza della disciplina censurata sarebbe evidente almeno nel caso in cui la modifica legislativa non incidesse solo su aspetti secondari o solo sui limiti edittali di pena, ma comportasse, come nel caso di specie, una modifica del regime di procedibilità e della stessa specie di pena irrogabile, determinando il passaggio da una pena obbligatoriamente detentiva ad una pena pecuniaria, sia pure in via alternativa: in simili casi, infatti, verrebbero in considerazione anche altri parametri costituzionali, quali l’art. 13 Cost., in riferimento al bene supremo della libertà personale; l’art. 25, secondo comma, Cost., in riferimento al principio di offensività, e l’art. 27, terzo comma, Cost., dal quale sarebbe desumibile il principio di proporzione tra fatto e pena;

che, rileva ancora il remittente, l’accoglimento della prospettata questione di costituzionalità consentirebbe di applicare l’art. 673 cod. proc. pen. tutte le volte in cui la successiva legge più favorevole escludesse la punibilità del fatto, per qualsiasi ragione (anche attinente al regime di procedibilità) ovvero l’applicazione di una pena detentiva;

che, ad avviso del giudice a quo, entrambe le questioni sollevate, indipendenti l’una dall’altra e invocabili “in via alternativa, non essendo ravvisabile un rapporto di dipendenza logico per l’eterogeneità delle premesse e delle norme denunziate”, sarebbero rilevanti;

che, nel corso di altro procedimento di esecuzione avente ad oggetto la richiesta di revoca di una sentenza pronunciata ex art. 444 cod. proc. pen. per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale a seguito dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod. pen. disposta dall’art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205, il Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, con ordinanza in data 20 gennaio 2000 (r.o. n. 524 del 2000), solleva, sulla base delle medesime argomentazioni, identiche questioni di legittimità costituzionale sia dell’art. 341 cod. pen., sia del combinato disposto di cui agli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen.;

che è intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha concluso, quanto alla prima questione, nel senso della manifesta inammissibilità per intervenuta abrogazione della disposizione censurata e, quanto alla seconda questione, chiedendo che la stessa venga dichiarata non fondata, poiché, a differenza del principio di irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.), quello di retroattività della norma più favorevole non è costituzionalizzato e la regola enunciata dall’art. 2, terzo comma, cod. pen. rappresenterebbe un ragionevole contemperamento tra il principio del favor rei e quello di intangibilità del giudicato.

Considerato che, poiché le ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni di legittimità costituzionale, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

che il giudice a quo, muovendo dal presupposto che l’abrogazione dell’articolo 341 del codice penale disposta dall’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario) non avrebbe comportato una vera e propria abolitio criminis, ma avrebbe dato luogo ad una semplice successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, solleva due questioni di legittimità costituzionale;

che, con la prima questione, il remittente, pur nella consapevolezza della sua intervenuta abrogazione, sottopone al giudizio di questa Corte l’art. 341 cod. pen., ritenendo che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione comporterebbe l’applicazione, in luogo dell’art. 2, terzo comma, cod. pen., dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che non consentirebbe di distinguere l’ipotesi della abolitio criminis da quella della successione nel tempo di leggi penali, con la conseguenza che la sentenza di condanna per il reato di oltraggio potrebbe essere revocata ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.;

che, con la seconda questione, il medesimo remittente denuncia il combinato disposto degli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente la modifica del giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo con effetto meramente modificativo e conseguente abrogazione di una norma incriminatrice, perlomeno nei casi in cui l’intervento legislativo viene a porre in discussione l’an della sanzione, mediante la modifica del regime di procedibilità del reato, ovvero il quantum o la species della pena, prevedendo la nuova disciplina la pena pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva;

che, a prescindere da ogni valutazione circa la plausibilità della interpretazione dalla quale muove il remittente in ordine all’effetto della abrogazione dell’art. 341 cod. pen., nel senso cioè che questa abbia dato luogo ad una successione nel tempo di leggi penali, con conseguente applicabilità dell’art. 2, terzo comma, cod. pen., piuttosto che ad una vera e propria abolitio criminis, osta allo scrutinio nel merito un preliminare profilo di inammissibilità;

che, infatti, il remittente, nel sollecitare l’intervento di questa Corte, ha precisato che le questioni di legittimità costituzionale rilevanti sarebbero due, “ciascuna delle quali indipendente dall’altra e invocabile in via alternativa, non essendo ravvisabile un rapporto di dipendenza logico per l’eterogeneità delle premesse e delle norme denunziate”;

che, in tal modo, il giudice a quo prospetta quesiti plurimi, di portata affatto differente, ponendo esplicitamente i quesiti stessi in un legame irrisolto di alternatività, senza un collegamento di subordinazione logica che consentirebbe la delibazione della questione subordinata in caso di rigetto o di dichiarazione di inammissibilità di quella che la precede;

che, pertanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, le questioni devono essere dichiarate manifestamente inammissibili (ordinanze n. 78 del 2000, n. 286 del 1999, n. 449, n. 384 e n. 146 del 1998).

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 341 del codice penale, e del combinato disposto degli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura penale, sollevate in riferimento, rispettivamente, agli articoli 1, secondo comma, 2, 3, primo e secondo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 28, 54 e 97, primo comma, della Costituzione, e agli articoli 3, primo comma, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2001.