Ordinanza n. 410/2000

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ORDINANZA N. 410

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI         

- Cesare RUPERTO    

- Riccardo CHIEPPA  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 227, primo comma, del codice penale militare di pace, in relazione all’art. 260 dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 13 ottobre 1999 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di MACOR Fausto, iscritta al n. 694 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 maggio 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con ordinanza emessa il 13 ottobre 1999 (r.o. n. 694 del 1999), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 52, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 227, primo comma, del codice penale militare di pace, in relazione all’art. 260 dello stesso codice, nella parte in cui prevede che il delitto di diffamazione semplice commesso da un militare in danno di altro militare é punibile solo a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore, da cui dipende il militare colpevole, e non anche a querela della persona offesa;

che il giudice a quo premette, in punto di fatto, di essere chiamato a decidere, nell’ambito di un procedimento per il reato di diffamazione previsto dall’art. 227, primo comma, del codice penale militare di pace, sulla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero per il solo motivo della mancanza della richiesta di procedimento del comandante del corpo: richiesta avverso la quale il militare offeso - querelante - aveva proposto opposizione;

che, ad avviso del rimettente, le norme denunciate violerebbero l’art. 52, terzo comma, della Costituzione, in quanto la richiesta del comandante del corpo - prevista dall’art. 260, secondo comma, del codice penale militare di pace come condizione di perseguibilità dei reati per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore a sei mesi (quale quello di specie) - sarebbe basata su valutazioni ispirate ad una logica "istituzionalistica" di prevalenza dell’"immagine del reparto" sui diritti della persona (tutelati dalla norma incriminatrice della diffamazione): logica, questa, incompatibile con il principio di permeabilizzazione dell’ordinamento delle Forze armate allo spirito ed ai valori democratici dello Stato;

che le stesse norme si porrebbero altresì in frizione con l’art. 24 della Costituzione, in quanto la scelta del comandante del corpo di mantenere "segretato" l’illecito nell’ambito della caserma, evitando di proporre la richiesta di procedimento, impedirebbe alla parte offesa di esercitare il proprio diritto al risarcimento del danno nell’ambito del processo penale mediante la costituzione di parte civile, divenuta possibile anche in sede militare a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, con sentenza di questa Corte n. 60 del 1996, dell’articolo 270, primo comma, del codice penale militare di pace;

che, infine, le norme impugnate contrasterebbero con l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento tra la persona offesa dalla diffamazione militare e la persona offesa dalla diffamazione comune (art. 595 cod. pen.), la quale, mediante la proposizione della querela, può dar corso all’azione penale senza preclusioni di sorta;

che é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o, comunque, di infondatezza della sollevata questione.

Considerato che questa Corte é chiamata a verificare se sia compatibile con gli artt. 3, 24 e 52, terzo comma, della Costituzione il combinato disposto degli artt. 227, primo comma, e 260 del codice penale militare di pace, nella parte in cui subordina la perseguibilità del reato di diffamazione militare commesso in danno di altro militare alla richiesta del comandante del corpo, e non anche alla querela della persona offesa;

che questa Corte ha, peraltro, da tempo chiarito come nei reati militari sia sempre insita "un’offesa alla disciplina e al servizio, una lesione quindi di un interesse eminentemente pubblico che non tollera subordinazione all’interesse privato caratteristico della querela": presupposto sulla base del quale "si é preferito attribuire al comandante del corpo, con l’istituto della richiesta", "una facoltà di scelta tra l’adozione di provvedimenti di natura disciplinare ed il ricorso all’ordinaria azione penale considerando che vi sono dei casi in cui, per la scarsa gravità del reato, l’esercizio incondizionato dell’azione penale può causare un pregiudizio proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato stesso" (cfr. sentenze. nn. 449 del 1991 e 42 del 1975, nonchè ordinanza n. 229 del 1988);

che tale assetto normativo non compromette, dunque, lo spirito democratico della Repubblica, cui é richiamo nell’art. 52, terzo comma, Cost., palesandosi la richiesta del comandante del corpo, in dette ipotesi di lieve entità, come uno strumento idoneo ad adeguare al caso concreto la risposta dell’ordinamento militare (cfr. sentenze nn. 436 del 1995 e 449 del 1991, nonchè ordinanze nn. 396 del 1996 e 467 del 1995);

che, del pari, va esclusa la lesione del diritto di difesa, in assunto connessa alla preclusione, per effetto delle determinazioni del comandante, della facoltà del danneggiato di costituirsi parte civile nel procedimento relativo al reato militare: dovendo ribadirsi, al riguardo, che l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno nel processo penale non rappresenta l’unico strumento di tutela giudiziaria a disposizione del soggetto danneggiato dal reato, cui é data, prima ancora, la facoltà di proporre detta azione, immediatamente e senza alcun ostacolo, davanti al giudice civile (cfr. sentenze nn. 396 del 1996, 94 del 1996, 532 del 1995 e 185 del 1994, nonchè ordinanza n. 224 del 1997);

che, infine, non può venire in considerazione la prospettata violazione del principio di uguaglianza, giacchè la diversità di trattamento sulla quale il giudice a quo punta l’indice trova giustificazione nella peculiarità della situazione propria del cittadino inserito nell’ordinamento militare - alle cui specifiche regole egli non può non sottostare - rispetto a quella della generalità degli altri cittadini (cfr. ordinanze nn. 224 del 1997, 396 del 1996, 82 del 1994 e 397 del 1997).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 227, primo comma, del codice penale militare di pace, in relazione all’art. 260 del medesimo codice, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 52, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Torino con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in cancelleria il 31 luglio 2000.