Sentenza n. 391/2000
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ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26 della legge 1° febbraio 1989, n. 53 (Modifiche alle norme sullo stato giuridico e sull'avanzamento dei vicebrigadieri, dei graduati e militari di truppa dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, nonché disposizioni relative alla Polizia di Stato, al Corpo degli agenti di custodia e al Corpo forestale dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 7 aprile 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione I, sui ricorsi riuniti proposti da R.M. ed altro contro il Ministero della giustizia, iscritta al n. 712 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione I, con ordinanza emessa il 7 aprile 1999, in due giudizi riuniti aventi ad oggetto l’impugnazione di altrettanti decreti di dimissione dei ricorrenti dal Corpo di polizia penitenziaria per difetto dei requisiti prescritti dall’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge 1° febbraio 1989, n. 53 (Modifiche alle norme sullo stato giuridico e sull’avanzamento dei vicebrigadieri, dei graduati e militari di truppa dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, nonché disposizioni relative alla Polizia di Stato, al Corpo degli agenti di custodia e al Corpo forestale dello Stato), nella parte in cui, rinviando per l’accesso ai ruoli della polizia penitenziaria al possesso delle qualità morali e di condotta stabilite dall’art. 124 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 per l’ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, prevede che siano esclusi coloro i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanne per taluno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.

2. — Premesso di avere, con separata sentenza, disatteso gli altri motivi di impugnazione, ivi compreso quello secondo cui il testo vigente dell’art. 124 del regio decreto n. 12 del 1941, introdotto dall’art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 398 del 1997, non sarebbe stato applicabile ai ricorrenti, il giudice a quo richiama la sentenza n. 108 del 1994, con cui fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 53 del 1989, nella parte in cui, rinviando al testo originario dell’art. 124 citato, prevedeva l’esclusione di coloro che, per le informazioni raccolte, non risultassero, secondo l’apprezzamento insindacabile del Ministro competente, appartenenti a famiglia di estimazione morale indiscussa.

Ad avviso del Tribunale amministrativo regionale, neppure la nuova formulazione dell’art. 124 si sottrarrebbe alle censure risultanti dalla predetta sentenza: il requisito prescritto dalla norma impugnata, infatti, si risolverebbe in un'irragionevole limitazione dell’accesso ai pubblici uffici, in quanto non riguarderebbe capacità, attitudini o condotte dell’interessato, ma valutazioni o comportamenti imputati all’ambiente familiare, che, in base ad un’arbitraria presunzione legislativa, verrebbero automaticamente riferiti al medesimo soggetto; essa, inoltre, rifletterebbe una situazione sociale storicamente superata, nella quale la famiglia costituiva l’ambito di socializzazione pressoché esclusivo dei giovani, laddove, per effetto dello sviluppo delle possibilità reali di frequentare istituti di istruzione fino al livello universitario, nonché dell’accresciuta possibilità di interazione in ambienti extrafamiliari, non potrebbe negarsi l’eventualità che i soggetti maturino in sé stessi la credenza in valori diversi ed antitetici rispetto a quelli propri della famiglia di origine ed ispirino la propria condotta a modelli di convivenza sociale differenti o contrari rispetto a quelli seguiti dagli altri componenti del nucleo familiare.

3. — Nel presente giudizio, non vi è stato intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, né costituzione delle parti del giudizio principale.

Considerato in diritto

1. ¾ La questione di legittimità costituzionale promossa con l'ordinanza indicata in epigrafe riguarda l'art. 26 della legge 1° febbraio 1989, n. 53, nella parte in cui, stabilendo che per l'accesso ai ruoli del personale del Corpo di polizia penitenziaria è richiesto il possesso delle qualità morali e di condotta previste per l'ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, rinvia implicitamente all'art. 124 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12. Ad avviso del giudice rimettente quest'ultima disposizione, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 6 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, contrasterebbe con gli artt. 3 e 51 della Costituzione. Ed invero la predetta norma, nella parte in cui dispone la esclusione dal concorso dei candidati "i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanne per taluno dei delitti di cui all'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale", sembrerebbe prescrivere un requisito non attinente a capacità o comportamenti del candidato stesso, ma a valutazioni relative al suo ambiente familiare, le quali verrebbero automaticamente riferite all'interessato, determinando così un'irragionevole limitazione all'accesso ai pubblici uffici.

2. ¾ La questione è fondata.

La disposizione censurata va esaminata nell'ambito di una vicenda caratterizzata da una serie alquanto articolata di rinvii e di sostituzioni fra norme.

L'art. 26 della legge n. 53 del 1989 prevede che per l'accesso ai ruoli del personale della Polizia di Stato e delle altre forze di polizia indicate dall'art. 16 della legge n. 121 del 1981 -tra cui il Corpo degli agenti di custodia, divenuto poi il Corpo di polizia penitenziaria- è richiesto il possesso delle qualità morali e di condotta stabilite per l'ammissione al concorso della magistratura ordinaria dall'art. 124 del r.d. n. 12 del 1941, che, all'ultimo comma, disponeva appunto l'esclusione di coloro che non risultassero, per le informazioni assunte, di moralità e condotta incensurabili ed appartenenti a famiglia di estimazione morale indiscussa. Questo sistema normativo è stato espressamente confermato, nell'ambito della disciplina del pubblico impiego, dall'art. 41, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (in seguito trasfuso nell'art. 36, comma 6, del medesimo decreto dagli artt. 22 e 43 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), il quale ha appunto ribadito che "ai fini delle assunzioni presso (...) le amministrazioni che esercitano competenze istituzionali in materia di difesa e sicurezza dello Stato, di polizia e di giustizia si applica il disposto di cui all'art. 26 della legge 1° febbraio 1989, n. 53".

Va peraltro ricordato che l'art 26, nonché, in via conseguenziale, l'art. 124 del r.d. del 1941 sono stati dichiarati dalla sentenza n. 108 del 1994 costituzionalmente illegittimi nella parte in cui prescrivevano, ai fini dell'accesso ai ruoli, il requisito dell'appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa. Successivamente a tale pronuncia l'art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 398 del 1997 ha sostituito il terzo comma (divenuto settimo comma a seguito delle modifiche introdotte dallo stesso art. 6, comma 1) del citato art. 124, la cui nuova formulazione richiede, oltre alla condotta incensurabile del candidato, l'insussistenza di rapporti di parentela, nei limiti già indicati, con persone che sono state condannate per taluno dei delitti previsti dall'art. 407, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale.

3. ¾ La nuova formulazione del requisito di ammissione, pur approvata a seguito della citata sentenza n. 108 del 1994, incorre tuttavia negli stessi profili di illegittimità allora rilevati. Ed infatti, anche se il nuovo testo contiene un più preciso riferimento, da un lato, ad un ambito familiare delimitato dall'indicazione di un determinato grado di parentela con il candidato e, dall'altro lato, a specifiche figure criminose giudizialmente accertate, resta comunque il fatto che condotte criminose di soggetti diversi dal candidato all'ammissione nel ruolo vengono prese in considerazione per desumere, incontestabilmente, l'inidoneità del candidato medesimo a ricoprire l'ufficio pubblico cui aspira. In questo modo non viene eliminata, ma anzi si perpetua, quella presunzione legislativa, già connessa al precedente requisito dell'appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa, la cui palese arbitrarietà ha appunto indotto questa Corte a ravvisarvi un'irragionevole limitazione dell'accesso ai pubblici uffici. Nella citata decisione n. 108 del 1994 è stato infatti precisato che non è irragionevole che la moralità e la condotta di un soggetto che aspiri ad esercitare funzioni di polizia possano essere accertate anche con riferimento all'atteggiamento e al comportamento tenuti dall'interessato nei suoi ambienti di vita associata, compresa la famiglia, è "invece arbitrario (...) presumere che valutazioni o comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall'interessato debbano essere automaticamente trasferiti all'interessato medesimo".

Questa stessa ratio decidendi appare applicabile al nuovo testo della norma, anche se più rigoroso nei termini di riferimento soggettivi ed oggettivi, in quanto la condizione di ammissione ai ruoli del personale di polizia che la medesima norma prefigura non riguarda capacità, attitudini o condotte proprie del candidato, ma piuttosto comportamenti riferibili ai suoi più stretti parenti; comportamenti che assumono, anche in questa ipotesi normativa, un valore preclusivo assoluto all'ammissione in ruolo del candidato stesso.

Sotto questo profilo è evidente l'illegittima limitazione all'accesso ai pubblici uffici, in quanto se è vero che l'art. 51, primo comma, della Costituzione rinvia alla legge ordinaria per la determinazione dei requisiti necessari ad essere ammessi ai pubblici uffici, è altrettanto vero che l'esercizio della discrezionalità legislativa in materia deve pur sempre svolgersi nei limiti della ragionevolezza e della non arbitrarietà delle scelte compiute (sentenze n. 466 del 1997, n. 127 del 1996, n. 108 del 1994). In questo senso, secondo la giurisprudenza costituzionale, ben può ammettersi "la previsione di requisiti attitudinali o di affidabilità per il corretto svolgimento della funzione o dell'attività, desunti da condotte del soggetto interessato, anche diverse da quelle aventi rilievo penale e accertate in sede penale, ma significative in rapporto al tipo di funzione o di attività da svolgere", ma in ogni caso deve essere sempre rispettata l'esigenza di riconducibilità delle condotte prese in considerazione al soggetto interessato (sentenza n. 311 del 1996). Sotto questo profilo pertanto il contenuto del requisito previsto nella presente fattispecie appare contrastante con il divieto costituzionale di arbitrarie discriminazioni nell'accesso ai pubblici uffici, in quanto comporta la pregiudiziale esclusione da determinati impieghi pubblici in ragione di elementi di apprezzamento estranei alla persona del candidato.

4. ¾ Va pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima quella parte della previsione normativa che dispone la non ammissione al concorso dei candidati "i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanne per taluno dei delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale". La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 26 della legge n. 53 del 1989, nella parte prima precisata, rinviante al possesso dei requisiti richiesti per l'ammissione al concorso della magistratura ordinaria, va estesa, a norma dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, all'art. 124 del r.d. n. 12 del 1941, nella parte oggetto del rinvio, identica a quella risultante dalla combinazione con la norma di rinvio, alla quale soltanto, per evidenti ragioni di rilevanza, è limitata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente.

Per effetto di quest'ultimo capo di decisione, rimane dunque modificata anche la disciplina dell'accesso ai ruoli del personale delle altre forze di polizia indicate all'art.16 della legge n. 121 del 1981, per il quale l'art. 26 della legge n. 53 del 1989 richiede il possesso dei requisiti stabiliti per l'ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 26 della legge 1° febbraio 1989, n. 53 (Modifiche alle norme sullo stato giuridico e sull'avanzamento dei vicebrigadieri, dei graduati e militari di truppa dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, nonché disposizioni relative alla Polizia di Stato, al Corpo degli agenti di custodia e al Corpo forestale dello Stato), nella parte in cui, rinviando per l'accesso ai ruoli del personale del Corpo di polizia penitenziaria al possesso delle qualità morali e di condotta stabilite per l'ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, prevede che siano esclusi coloro i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanne per taluno dei delitti di cui all'art. 407, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale;

dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 124, settimo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), nella parte in cui, nel disciplinare i requisiti di ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, prevede che non siano ammessi al concorso i candidati i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanne per taluno dei delitti di cui all'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in cancelleria il 28 luglio 2000.