Sentenza n. 361/2000

SENTENZA N. 361

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), promosso con ordinanza emessa il 20 marzo 1999 dal Pretore di Parma nel procedimento civile vertente tra Cabrini Sara e l’INPS, iscritta al n. 448 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 1999.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto in fatto

1. - Il Pretore di Parma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza emessa il 20 marzo 1999, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 32 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), nella parte in cui non prevedono la corresponsione, a favore delle imprenditrici agricole a titolo principale, dell’indennità giornaliera per i periodi di gravidanza e puerperio, come è stabilito invece per le coltivatrici dirette, mezzadre e colone.

Il rimettente, il quale deve decidere in ordine alla domanda proposta da una imprenditrice agricola a titolo principale per ottenere la corresponsione dell’indennità di maternità da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, osserva che l’art. 13 della legge n. 233 del 1990 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi) ha stabilito l’estensione a tutti gli imprenditori agricoli a titolo principale delle disposizioni della legge n. 1047 del 1957 (Estensione dell’assicurazione per invalidità e vecchiaia ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni) con decorrenza dal 1° luglio 1990, sì che, sotto il profilo previdenziale, gli imprenditori agricoli sono stati equiparati ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni.

La medesima equiparazione tra le indicate categorie non sussiste invece in relazione alla corresponsione dell’indennità di maternità, poiché la legge n. 546 del 1987 attribuisce detta indennità solo alle lavoratrici autonome, coltivatrici dirette, mezzadre e colone, ma non alle imprenditrici agricole a titolo principale.

Ad avviso del giudice a quo, la indicata esclusione appare irragionevole, in quanto nel periodo della gravidanza e del puerperio le imprenditrici agricole sono soggette al medesimo rischio delle altre lavoratrici; benché alle imprenditrici non sia richiesta l’esecuzione manuale di lavori agricoli, tuttavia l’assenza di tale requisito non costituisce un connotato essenziale nella definizione di imprenditore agricolo.

Gli artt. 1 e 3 della legge n. 546 del 1987, che non prevedono l’indennità di maternità per le imprenditrici agricole, si porrebbero perciò in contrasto con gli artt. 3, 32 e 37 della Costituzione.

In particolare, il rimettente ravvisa una disparità di trattamento nella circostanza che solo alle lavoratrici autonome è riconosciuta la predetta indennità, pur in presenza del medesimo evento della maternità e nonostante la identica funzione sociale della norma, diretta a supplire alla mancanza di reddito durante il periodo della gravidanza; appare quindi illegittima la totale esclusione dell’indennità rispetto alla categoria delle imprenditrici agricole a titolo principale, potendosi eventualmente giustificare soltanto la previsione di diversi trattamenti normativi ed economici fra le varie categorie di lavoratrici autonome in relazione alle diverse situazioni, come ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 31 del 1986.

Il pretore rimettente, pur riconoscendo che le disposizioni contenute nell’art. 37 della Costituzione possono invocarsi solo riguardo al lavoro subordinato, richiama tuttavia la sentenza n. 181 del 1993, con la quale la Corte ha affermato che lo spirito che anima dette disposizioni è di grande momento per i riflessi che esse hanno su qualsiasi attività lavorativa, in relazione alla funzione familiare della donna, al fine di assicurare una speciale adeguata protezione alla madre e al bambino.

Le norme denunciate si porrebbero poi, ad avviso del giudice a quo, in contrasto con l’art. 32 della Costituzione, in quanto la mancata previsione di un’indennità economica potrebbe indurre le imprenditrici a continuare l’attività lavorativa nei periodi della gravidanza e del puerperio, nei quali invece dovrebbero operare forme di previdenza, la cui funzione consiste non solo nel fornire un aiuto economico alle gestanti ma essenzialmente a dare un’efficace tutela al valore della maternità, con il conseguente dovere del legislatore di apprestare norme e risorse necessarie ad evitare che sia compromessa la salute della gestante e lo sviluppo della vita del bambino, come affermato nella citata sentenza n. 181 del 1993.

Il giudice rimettente sostiene, infine, che non sarebbe necessario un intervento discrezionale del legislatore per attuare l’esigenza primaria di tutela del valore della vita e della salute della madre e del bambino, in quanto l’equiparazione tra gli imprenditori agricoli e i coltivatori diretti, mezzadri e coloni è stata già disposta dall’art. 13 della legge n. 233 del 1990, che ha esteso agli imprenditori agricoli l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia prevista in favore delle altre categore; allo stesso modo, secondo il giudice a quo, potrebbe estendersi alle imprenditrici agricole a titolo principale la disposizione di cui all’art. 3 della legge n. 546 del 1987, che stabilisce la corresponsione di un’indennità giornaliera a favore delle coltivatrici dirette, mezzadre e colone.

2. - E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

La difesa erariale pone in particolare rilievo la circostanza che la parificazione delle forme di tutela, richiedendo interventi complessi e articolati, deve essere ricondotta alla discrezionalità del legislatore, che, dopo aver valutato le caratteristiche dei soggetti destinatari del sistema previdenziale e i vincoli finanziari cui è sottoposto il sistema, provvede alle eventuali modifiche della disciplina, con le modalità più opportune in relazione al concreto momento storico ed economico.

Nella materia in questione, si sono succeduti nel tempo numerosi interventi legislativi, i più recenti dei quali sono i provvedimenti contenuti nell’art. 59, comma 16, della legge n. 449 del 1997 e nell’art. 66 della legge n. 448 del 1998, che dimostrano la varietà delle possibili forme di tutela della maternità.

L’Avvocatura ha concluso quindi per la manifesta infondatezza della questione, escludendo che le norme di tutela di cui alla legge n. 546 del 1987 possano essere automaticamente estese alle imprenditrici agricole a titolo principale e richiamando quelle pronunce (sentenze nn. 181 del 1983, 364 del 1995 e 31 del 1986) con le quali la Corte costituzionale ha affermato il principio secondo cui è da affidare all’apprezzamento del legislatore un intervento che postuli un’identità delle fattispecie da tutelare.

Considerato in diritto

1. - Il Pretore di Parma, in funzione di giudice del lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3, 32 e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), nella parte in cui non prevedono la corresponsione dell’indennità di maternità a favore delle imprenditrici agricole a titolo principale.

Ad avviso del rimettente, la mancata inclusione delle imprenditrici agricole a titolo principale fra le categorie di lavoratrici autonome che beneficiano dell’indennità di maternità sarebbe irragionevole e discriminatoria e costituirebbe una lesione dei principi costituzionali che impongono la tutela della salute e del valore della maternità.

2. - La questione è fondata.

3. - La nozione di imprenditore agricolo a titolo principale è stata introdotta dall’art. 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153 (Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell’agricoltura), che include tale categoria tra i beneficiari di provvidenze finalizzate all’ammodernamento e al potenziamento delle strutture agricole, definendo a titolo principale “l’imprenditore che dedichi all’attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dall’attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale”.

Trattasi di categoria affine a quella dei coltivatori diretti, da cui si discosta essenzialmente per ciò che concerne il requisito della manualità del lavoro; il citato art. 12, riferendosi genericamente al tempo di lavoro, non indica lo svolgimento di lavoro manuale tra gli elementi che connotano l’attività dell’imprenditore agricolo a titolo principale, sì che tale lavoro può consistere anche in un’attività di organizzazione e di direzione dell’azienda agricola.

L’art. 13 della legge 2 agosto 1990, n. 233 ha esteso agli imprenditori agricoli a titolo principale l’assicurazione per invalidità, vecchiaia e superstiti prevista in favore dei coltivatori diretti, mezzadri e coloni dalla legge 26 ottobre 1957, n. 1047, equiparando così l’indicata categoria, priva di una specifica tutela previdenziale, a quella dei coltivatori diretti. Detta legge non contiene però alcun riferimento al trattamento di maternità - di cui beneficiano le coltivatrici dirette ai sensi della legge n. 546 del 1987 - limitandosi a disporre l’applicabilità agli imprenditori agricoli a titolo principale soltanto del regime previdenziale previsto per i coltivatori diretti dalla legge n. 1047 del 1957.

4. - La tutela della maternità, inizialmente disposta solo a favore delle lavoratrici subordinate con la legge 26 agosto 1950, n. 860 e, successivamente, in modo più ampio e organico, con la legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è stata progressivamente estesa alle lavoratrici autonome e alle libere professioniste, sia pure in termini necessariamente diversi in ragione delle caratteristiche proprie di ciascuna delle indicate categorie.

La legge n. 546 del 1987 prevede l’erogazione di un’indennità giornaliera per i due mesi antecedenti la data presunta del parto e per i tre mesi successivi alla data effettiva del parto a favore delle coltivatrici dirette, colone e mezzadre, nonché a favore delle lavoratrici autonome, artigiane ed esercenti attività commerciali; l’indennità di maternità spetta, altresì, in caso di adozione o di affidamento preadottivo ed in caso di aborto spontaneo o terapeutico.

Analoghe disposizioni sono contenute nella legge 11 dicembre 1990, n. 379 (Indennità di maternità per le libere professioniste), che stabilisce la corresponsione di un’indennità di maternità per i medesimi periodi di gravidanza e puerperio, oltre che nei casi di adozione e affidamento preadottivo ed in quelli di aborto spontaneo o terapeutico, a favore di ogni iscritta a una cassa di previdenza e assistenza per i liberi professionisti, tra quelle indicate nella tabella A, allegata alla legge stessa.

La tutela della maternità è stata poi estesa alle lavoratrici prive di altre forme di tutela previdenziale ed iscritte ad apposita gestione separata presso l’Istituto autonomo della previdenza sociale, a favore delle quali è prevista la corresponsione di un assegno, una tantum, in caso di parto e in caso di aborto spontaneo o terapeutico, come stabilito dall’art. 59, comma 16, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dal decreto ministeriale 27 maggio 1998 (Estensione della tutela della maternità e dell’assegno al nucleo familiare).

Infine, in presenza di determinati requisiti economici, è prevista, ai sensi dell’art. 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), l’erogazione di un assegno di maternità a favore delle cittadine italiane residenti, che non beneficiano del trattamento previdenziale della indennità di maternità.

4.1 - Questa Corte ha ripetutamente affermato che il sostegno economico disposto dal legislatore a favore delle lavoratrici nei periodi della gravidanza e del puerperio ha la duplice finalità di tutelare la salute della donna e del nascituro e di evitare che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno; ciò in quanto il valore della maternità non può subire condizionamenti, specialmente di ordine economico. Onde non possono essere ritenute legittime quelle norme che comportino, a motivo della maternità, una sostanziale menomazione economica della lavoratrice (tra le tante, si vedano le sentenze nn. 310 del 1999, 3 del 1998, 181 del 1993).

Il fondamento costituzionale della tutela della maternità non sta solo nelle disposizioni contenute nell’art. 37, che riguardano specificamente il lavoro subordinato, ma riposa in via generale sul principio dell’art. 31, che protegge la maternità in quanto tale, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e sul precetto dell’art. 32, per lo specifico profilo della tutela della salute della madre e del bambino.

Il legislatore ha dato attuazione in modo progressivo e sempre più esteso all’esigenza di tutela imposta dai citati precetti costituzionali, proteggendo il valore della maternità, anche indipendentemente dallo svolgimento di un’attività lavorativa da parte della donna, come è dimostrato dalle disposizioni contenute nell’art. 66 della legge n. 448 del 1998, che prevedono l’erogazione di un assegno di maternità in caso di limitate risorse economiche del nucleo familiare di appartenenza della madre.

E’ evidente allora che contenuto e modalità degli interventi legislativi variano solo in relazione alla specificità delle singole situazioni, non già al bene da tutelare, che è sempre il medesimo. Ciò comporta che mentre può risultare giustificata la previsione di un più elevato grado di protezione a favore di alcune categorie rispetto ad altre, appare invece assolutamente discriminatoria la totale carenza di tutela che si verifica allorché, in presenza del medesimo evento, vi siano soggetti che non godono di alcuna provvidenza riconosciuta invece ad altri che pur versano in situazioni omogenee.

4.2 - A differenza delle altre lavoratrici autonome, le imprenditrici agricole a titolo principale sono prive del trattamento previdenziale di maternità, nonostante esse costituiscano una categoria affine a quella delle coltivatrici dirette.

Una tale carenza di tutela appare ingiustificata sotto più profili: anzitutto perché viene a determinarsi una inammissibile diseguaglianza nell’ambito della medesima categoria delle lavoratrici autonome, che il legislatore ha già mostrato di considerare in modo omogeneo, allorché ha esteso l’assicurazione per invalidità e vecchiaia, di cui godevano i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, agli imprenditori agricoli a titolo principale.

L’equiparazione tra gli uni e gli altri resterebbe gravemente incompleta, trattandosi di diritti di pari rilievo costituzionale, se non si consentisse alle imprenditrici agricole a titolo principale di ottenere la corresponsione dell’indennità di maternità nella misura e con le modalità previste per le coltivatrici dirette.

Non è tuttavia solo il conflitto con il principio di eguaglianza a determinare la illegittimità costituzionale delle norme censurate; poiché la mancata previsione del trattamento economico di maternità può indurre le imprenditrici a non interrompere, né a diminuire il ritmo di lavoro per non subire decrementi di reddito, non risulta attuata quell’esigenza primaria di tutela della salute della madre e del bambino, specialmente nelle fasi più delicate della gravidanza e del puerperio, voluta dall’art. 32 della Costituzione.

Pertanto, gli artt. 1 e 3 della legge n. 546 del 1987, che non contemplano le imprenditrici agricole a titolo principale tra le lavoratrici autonome a favore delle quali è disposta l’indennità di maternità, non possono che dichiararsi contrari ai citati precetti costituzionali.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), nella parte in cui non prevedono la corresponsione dell’indennità di maternità a favore delle imprenditrici agricole a titolo principale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 26 luglio 2000.