Ordinanza n. 264/2000

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ORDINANZA N. 264

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto  CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di ammissibilità del conflitto tra poteri dello Stato, sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati dell'11 novembre 1999 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Roberto Pennisi, promosso dal Tribunale di Roma, con ricorso pervenuto l'11 gennaio 2000 ed iscritto al n. 140 del registro ammissibilità conflitti.

 Visto l'atto di intervento del dott. Roberto Pennisi;

 udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2000 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

 Ritenuto che con ordinanza del 14 dicembre 1999 il Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in ordine alla deliberazione adottata il giorno 11 novembre 1999, con la quale l'Assemblea ha ritenuto che i fatti per i quali è in corso un procedimento penale nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi costituiscono opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari e sono insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione;

 che il Tribunale ricorrente procede nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi per dichiarazioni ritenute offensive dell'onore e della reputazione di Roberto Pennisi, all'epoca magistrato in servizio presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, divulgate con un comunicato ANSA e pubblicate sul quotidiano "Il giornale di Calabria";

 che la Camera dei deputati, con delibera dell'11 novembre 1999, in conformità alla proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha dichiarato che i fatti per i quali era in corso il procedimento penale concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost.;

 che la Giunta ha motivato la proposta di insindacabilità sulla base della considerazione che «le frasi pronunziate dal collega Sgarbi erano in stretta ed immediata connessione con l'esito di un procedimento penale che, all'epoca del suo inizio, aveva gravemente leso la reputazione degli indagati, alcuni ex membri del Parlamento, sottoposti ad una lunga custodia cautelare ed esposti con grande enfasi alla pubblica berlina. Si trattava, dunque, di una critica tutta politica sulla conduzione, da parte dell'accusa, di un procedimento penale nel quale le tesi della medesima si erano rivelate del tutto infondate, non senza aver arrecato, tuttavia, un grave vulnus non solo alla reputazione degli interessati, ma anche al rapporto tra opinione pubblica e classe politica. Ciò sia pure in assenza di un collegamento specifico con atti o documenti parlamentari, che comunque deve ritenersi implicito, attesa l'ampiezza e la diffusione che ebbe a suo tempo la discussione tanto sugli organi di stampa quanto, in generale, nel dibattito politico. Inoltre, le frasi vanno inquadrate nel contesto della costante ed intensa battaglia politica che il collega Sgarbi svolge, in Parlamento e al di fuori di esso, contro l'uso distorto degli strumenti giudiziari»;

che il Tribunale di Roma sostiene che la deliberazione della Camera dei Deputati sarebbe lesiva delle attribuzioni dell'organo giurisdizionale investito del giudizio sulla responsabilità penale del deputato Sgarbi, perché adottata in palese carenza di specifici profili di collegamento tra l'espletamento della funzione parlamentare e le opinioni espresse da Vittorio Sgarbi mediante la divulgazione delle frasi a lui imputate;

che, in particolare, il Tribunale rileva che il riferimento, nella motivazione della Giunta, al generico inquadramento delle frasi pronunciate dal deputato Sgarbi nel contesto della battaglia politica portata avanti, in Parlamento e al di fuori di esso, contro l'uso improprio degli strumenti giudiziari, non sarebbe comunque sufficiente a ricondurre tali dichiarazioni nell'alveo dell'esercizio delle funzioni parlamentari;

che, infatti, la funzione parlamentare, pur non estrinsecandosi solo negli atti tipici (potendo ricomprendere anche quanto sia presupposto o conseguenza di questi ultimi), non può tuttavia essere estesa all'"intera" attività politica svolta dal parlamentare, in quanto ciò comporterebbe la trasformazione della prerogativa parlamentare in privilegio personale (sentenza n. 289 del 1998);

 che il Tribunale ha, dunque, sollevato conflitto ritenendo che «la delibera della Camera dei deputati suindicata, per i motivi esposti, integra una menomazione delle attribuzioni costituzionali del potere giudiziario: palesandosi così un'ipotesi di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato ai sensi dell'art. 37 l. 11-3-53 n. 87»;

che in prossimità della data fissata per la decisione, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1983, n. 87, sulla ammissibilità del conflitto, ha depositato «atto di intervento», a mezzo dei suoi difensori, il dott. Roberto Pennisi, quale persona offesa nel procedimento penale pendente dinanzi al Tribunale di Roma;

che la persona offesa, nonostante sia a conoscenza della giurisprudenza costituzionale che nega al singolo la legittimazione ad essere parte nel giudizio costituzionale che segue la proposizione del conflitto di attribuzione, rivendica la propria legittimazione «ad intervenire nel procedimento iniziato dall'ordinanza del Tribunale di Roma, già nella fase di delibazione circa l'ammissibilità del medesimo ricorso, al fine di sostenere le ragioni di tale ammissibilità e chiedere sin da adesso l'annullamento della dichiarazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati per le affermazioni diffamatorie pronunziate dall'onorevole Sgarbi», sulla base della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2;

che, ad avviso della parte privata, l'inserimento dei principi del giusto processo nell'art. 111 della Costituzione consentirebbe di ritenere costituzionalmente obbligata la estensione della garanzia del contraddittorio a ogni scansione processuale e, dunque, imporrebbe di rendere attivabile da ogni soggetto, coinvolto nel rapporto processuale-sostanziale suscettibile di essere condizionato dal giudizio della Corte costituzionale, lo strumento dell'intervento in tale giudizio, anche quando esso abbia ad oggetto un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e fin dalla fase della delibazione preliminare sulla sua ammissibilità.

Considerato che in questa fase la Corte è chiamata preliminarmente a decidere, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile, in quanto sussistano i presupposti di cui agli artt. 37 e 38 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e all'art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;

 che, al riguardo, preliminarmente si deve verificare se l'atto con il quale è stato sollevato il conflitto possieda i requisiti richiamati dalle citate norme;

 che non rileva a tal fine la forma dell’ordinanza rivestita dall'atto introduttivo, ma la sua rispondenza ai contenuti richiesti da tali norme per la valida instaurazione del conflitto (v. da ultimo sentenze nn. 11 e 10 del 2000; ordinanza n. 61 del 2000);

 che sotto questo aspetto l’ordinanza - a prescindere dalla considerazione che, recando la mera intestazione "Il Tribunale", senza ulteriori specificazioni, non offre un’autonoma indicazione dell’autorità ricorrente - è priva di ogni riferimento agli specifici fatti per cui si procede e alla loro esatta qualificazione giuridica, elementi necessari ai fini della compiuta percezione delle ragioni del conflitto (v., tra le altre, ordinanza n. 318 del 1999), e difetta del tutto, sia nel dispositivo, sia nella motivazione, di una domanda rivolta alla Corte;

 che a colmare tali lacune non possono soccorrere gli atti del procedimento penale, irritualmente trasmessi dal Tribunale (v. ordinanza n. 140 del 2000), in quanto è nel solo atto di ricorso, e negli eventuali documenti ad esso allegati, che devono essere rinvenibili gli elementi identificativi della causa petendi e del petitum relativi al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

 che le carenze formali e sostanziali sopra evidenziate impediscono di considerare l’ordinanza del Tribunale come un valido atto di promovimento di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

che tale conclusione, attenendo all'atto introduttivo del conflitto, preclude alla Corte di prendere in esame la richiesta di intervento della persona offesa;

che, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in cancelleria l'11 luglio 2000.