Ordinanza n. 213/2000

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ORDINANZA N. 213

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 17 della legge 4 maggio 1990, n. 107 (Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati), promossi con ordinanze emesse il 29 gennaio (n. 2 ordinanze) e il 2 febbraio 1999 (n. 3 ordinanze) dal Pretore di Genova, rispettivamente iscritte ai nn. 190, 191, 208, 209 e 210 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 14 e 15, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che con due ordinanze di analogo contenuto (R.O. nn. 190 e 191 del 1999), emesse in data 29 gennaio 1999, il Pretore di Genova, nel corso di due distinti procedimenti penali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17 della legge 4 maggio 1990, n. 107 (Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati);

che con l’ordinanza di remissione n. 190 del 1999 si propone nuovamente la questione già da questa Corte dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza (ordinanza n. 311 del 1998), ed in entrambe si precisa, proprio ai fini della rilevanza, che i giudizi a quibus riguardano imputati ai quali sono contestati, da un lato, il reato previsto dagli artt. 81, cpv., e 110 del codice penale, e 17 della legge n. 107 del 1990, in relazione agli artt. 1, 4, 5 e 6 della stessa legge, per avere, nelle rispettive qualità di responsabili e operatori di una struttura sanitaria privata, attivato un centro autotrasfusionale presso struttura non prevista dalla legge e comunque non convenzionata con le apposite strutture trasfusionali, e, dall’altro, il reato configurato, nei confronti del solo direttore sanitario, in base agli artt. 81, cpv., del codice penale e 17 della legge n. 107 del 1990, in relazione all’art. 91 del d.P.R. 24 agosto 1971, n. 1256 (Regolamento per l’esecuzione della legge 14 luglio 1967, n. 592, concernente la raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano) e agli artt. 31 e 34 del d.m. 27 dicembre 1990 (Caratteristiche e modalità per la donazione del sangue ed emoderivati), per avere, in tale qualità, omesso di restituire al servizio trasfusionale e autonomamente smaltito unità di sangue e/o emocomponente non utilizzate, provenienti sia da autotrasfusioni che da donazioni di sangue omologo, e per non aver predisposto un sistema di registrazione ed archiviazione dei dati relativi;

che il remittente riconosce nella legge n. 107 del 1990, recante la disciplina delle attività trasfusionali, “un complesso normativo vario ma al contempo omogeneo nella sua strumentalità all’obiettivo fondamentale di ottimizzare raccolta e distribuzione del sangue e i suoi derivati”: la scelta del legislatore – argomenta il giudice a quo – è comprensibile, poiché in un settore così delicato e fonte di rischi reali come quello in esame, è talmente imprescindibile l’esigenza di tutela della salute, fondamentale diritto dell’individuo ma anche interesse della collettività (art. 32 Cost), ed è talmente pericoloso, oltre che immorale, che un bene primario come il sangue possa sottostare a logiche di mercato, da rendersi necessaria una tutela diffusa in tutte le fasi delle operazioni relative alla sua raccolta, conservazione, lavorazione, distribuzione o distruzione;

che tuttavia – rileva il remittente – alla fattispecie di cui all’art. 17 della legge n. 107 del 1990, caratterizzata da un minimo edittale elevato (mesi dodici di reclusione e lire 400.000 di multa) e da una pena accessoria particolarmente significativa (interdizione dall’esercizio della professione sanitaria per un periodo non inferiore a due anni), sono astrattamente riconducibili condotte assai differenziate, il cui disvalore può anche essere manifestamente disomogeneo;

che da ciò conseguirebbe la violazione dell’art. 3 della Costituzione, sia per l’irragionevole parificazione di trattamento sanzionatorio di situazioni profondamente diverse, sia per il mancato rispetto del principio di proporzionalità tra la pena e il disvalore dell’illecito;

che risulterebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, giacché un minimo edittale eccessivo per fatti di minore entità impedirebbe alla pena di svolgere la sua funzione rieducativa, che deve operare già al livello della astratta previsione del meccanismo sanzionatorio globalmente inteso;

che nel giudizio instaurato con l’ordinanza di remissione n. 190 del 1999 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata “inammissibile e non fondata”;

che con altre tre ordinanze di contenuto non dissimile (R.O. nn. 208, 209 e 210 del 1999), emesse in data 2 febbraio 1999, il Pretore di Genova, nel corso di altrettanti procedimenti penali, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, la medesima questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge n. 107 del 1990, “nella parte in cui prevede indistintamente la pena della reclusione da uno a tre anni e la multa da lire 400.000 a lire 20.000.000, nonché l’interdizione dall’esercizio della professione sanitaria per un periodo non inferiore ad anni due, per tutte le violazioni delle norme di legge che regolano il prelievo, la raccolta e la distribuzione di sangue umano ovvero la produzione e messa in commercio di suoi derivati, così come per chi svolge tali attività per fini di lucro”;

che anche in queste ordinanze si premette che i giudizi a quibus riguardano imputati ai quali è contestato il reato di cui agli artt. 110 e 81 del codice penale e 17 della legge n. 107 del 1990, in relazione all’art. 31 del d.m. 27 dicembre 1990, per avere, in qualità di direttore sanitario dell’ospedale e di primario responsabile dei relativi reparti, omesso di restituire al centro trasfusionale competente talune unità di sangue non utilizzate (R.O. nn. 208 e 209 del 1999), ovvero il reato di cui agli artt. 110 e 81 del codice penale e 17 della legge n. 107 del 1990, in relazione agli artt. 1, 4, 5 e 6 della medesima legge, per avere, nelle medesime qualità, realizzato un centro per autotrasfusioni, senza rientrare tra le strutture tassativamente indicate dalla legge e non essendo convenzionati con alcuna struttura pubblica (R.O. n. 210 del 1999);

che nelle ordinanze di remissione nn. 208 e 209 del 1999 – emesse, come appena ricordato, nel corso di giudizi nei quali la contestazione trae origine da violazioni alla disciplina posta dall’art. 31 del d.m. 27 dicembre 1990 – il giudice a quo dichiara di ritenere “poco chiaro e quindi non convincente” l’inciso, contenuto nell’ordinanza di questa Corte n. 311 del 1998, col quale si afferma di voler “prescindere dal considerare che i fatti contestati nell’imputazione alla quale il giudice a quo si riferisce non appaiono integrare alcuna delle fattispecie legali di cui alla norma che viene denunciata come sospetta di illegittimità costituzionale, non essendo possibile ricostruire alcuna «violazione delle norme di legge» sulla base di norme secondarie come quelle indicate”;

che, in particolare, secondo il remittente, la Corte, con quell’inciso, “sembra aver risolto con una mera affermazione di principio, non sorretta da alcun tipo di argomentazione, il tanto dibattuto problema della norma penale in bianco e della sua integrazione da parte di fonti secondarie quali il decreto ministeriale”;

che, non ritenendo di potere senz’altro escludere la rilevanza penale delle condotte ascritte agli imputati in base a previsioni contenute in fonti secondarie, il Pretore di Genova, con argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle svolte nelle ordinanze di cui si è fatto cenno in precedenza e nella successiva ordinanza di remissione n. 210 del 1999, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge n. 107 del 1990 nei termini già esposti.

Considerato che le ordinanze di remissione pongono medesime questioni e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti unitariamente;

che questa Corte, con ordinanza n. 311 del 1998, ha dichiarato la manifesta inammissibilità di identica questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17 della legge 4 maggio 1990, n. 107, già sollevata dal Pretore di Genova, per difetto di motivazione sulla rilevanza, essendosi omesso di indicare, nell’ordinanza di rimessione, il regime sanzionatorio costituzionalmente imposto e di enucleare l’esatta tipologia delle singole fattispecie oggetto di giudizio;

che nella suddetta pronuncia questa Corte non ha mancato di precisare che la dichiarazione di manifesta inammissibilità della questione si imponeva “anche volendo prescindere dal considerare che i fatti contestati nella imputazione alla quale il giudice a quo si riferisce non appaiono integrare alcuna delle fattispecie legali di cui alla norma che viene denunciata come sospetta (sia pure sotto il solo profilo sanzionatorio) di illegittimità costituzionale, non essendo possibile ricostruire alcuna «violazione delle norme di legge» sulla base di norme secondarie come quelle indicate”;

che con tale precisazione si era in sostanza escluso che la disposizione censurata potesse essere letta come norma penale in bianco, volta ad autorizzare integrazioni di sé medesima con norme poste da fonti secondarie, quali i decreti ministeriali emanati in attuazione della legge n. 107 del 1990;

che in effetti l’intento di costruire il precetto penale sulla base delle sole previsioni di legge e non anche con l’apporto integrativo di fonti secondarie emerge dall’insuperabile tenore letterale dell’art. 17 censurato, che assoggetta alle pene in esso contemplate chiunque preleva, procura, raccoglie, conserva o distribuisce sangue umano o produce e mette in commercio derivati del sangue umano “in violazione delle norme di legge”, formulazione, questa, talmente chiara, precisa ed univoca da impedire all’interprete qualsiasi estensione della fattispecie incriminatrice a fatti contemplati in norme non legislative;

che, una volta chiarito che non si è in presenza di una fattispecie di norma penale in bianco con la quale il regolamento sia esplicitamente autorizzato dalla legge a integrare il precetto penale, la questione, sotto tale profilo, va dichiarata manifestamente infondata per l’evidente erroneità del presupposto interpretativo dal quale procede il remittente;

che le violazioni dei regolamenti attuativi della legge n. 107 del 1990, allo stato della legislazione attualmente vigente, possono dar luogo, concorrendone i presupposti, a responsabilità civile, amministrativa e a provvedimenti di carattere sanzionatorio da parte della pubblica amministrazione competente; in materia penale, possono rilevare ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico nelle fattispecie di delitto colposo (art. 43 del codice penale), ma non possono integrare il reato di cui all’art. 17;

che la questione appare manifestamente infondata anche se la sfera di applicazione dell’art. 17 viene circoscritta alle sole violazioni delle norme di legge, pure contestate nei giudizi a quibus, poiché il legislatore, considerata la particolare importanza del bene protetto, largamente riconosciuta dallo stesso remittente, non ha ecceduto i limiti della propria discrezionalità e non è incorso in alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione con lo stabilire un trattamento sanzionatorio severo con un minimo edittale elevato sia per la pena principale che per quella accessoria;

che d’altronde, quanto alla pluralità di condotte diverse per struttura e disvalore che – pur esclusa la rilevanza penale delle violazioni regolamentari – restano nondimeno comprese nella fattispecie incriminatrice del censurato art. 17 della legge n. 107 del 1990, nessuna disparità di trattamento è configurabile: è, infatti, massima consolidata nella giurisprudenza costituzionale che in questi casi sarà il giudice a fare emergere in concreto la diversa gravità delle varie sottospecie ed a graduare su questa base, nel rispetto dei minimi edittali, la pena da irrogare (v. ordinanze nn. 145 del 1998, 456 del 1997 e 220 del 1996; sentenza n. 281 del 1991);

che, disattesa la censura relativa alla violazione dell’art. 3 della Costituzione, la questione va dichiarata manifestamente infondata anche in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, non risultando, per le medesime ragioni ora esposte, alcuna sproporzione tra l’entità della sanzione penale e il disvalore dell’illecito commesso.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17 della legge 4 maggio 1990, n. 107 (Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati), sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Pretore di Genova con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 giugno 2000.