Sentenza n. 189/2000

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SENTENZA N. 189

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con ordinanza emessa il 10 ottobre 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Novara sui ricorsi riuniti proposti da Camporelli Luciano contro l'Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Novara, iscritta al n. 360 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2000 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

1.- La Commissione tributaria provinciale di Novara, con ordinanza emessa in data 10 ottobre 1998 (pervenuta alla Corte costituzionale il 4 giugno 1999), nel corso del giudizio su due ricorsi riuniti proposti avverso altrettanti avvisi di accertamento ai fini Irpef e Ilor, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).

Secondo la Commissione tributaria, in base a tale normativa, gli atti di accertamento dovrebbero essere impugnati, a pena di inammissibilità, dinanzi alle commissioni tributarie con l'assistenza di un difensore abilitato, qualora l'importo della lite sia superiore ai cinque milioni di lire.

Ad avviso del collegio rimettente, tale discriminazione, la quale potrebbe determinare gravi conseguenze a carico del contribuente - avuto riguardo alla circostanza che l'azione da proporre in sede di giurisdizione tributaria, diversamente da quella ordinaria in sede civile, ove dichiarata inammissibile, non potrebbe essere di nuovo validamente proposta, stante la brevità del termine di decadenza entro il quale l'atto impositivo può essere impugnato - sarebbe del tutto irrazionale e, come tale, si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza. Essa, inoltre, comporterebbe violazione dell'art. 24, primo comma, della Costituzione, in quanto, rendendo eccessivamente breve detto termine di decadenza, intralcerebbe in modo ingiustificato la concreta possibilità di ottenere tutela giurisdizionale. La mancanza, nell'atto di accertamento, che, peraltro, reca la indicazione di termini e modalità del ricorso, della specifica avvertenza che, ove il valore della lite ecceda la predetta cifra, il ricorso stesso deve, a pena di inammissibilità, essere sottoscritto da un difensore abilitato, come la stessa denominazione dell'organo competente a decidere la impugnazione dell'atto (commissione, e non giudice o tribunale), sarebbe idonea ad indurre l'interessato a ritenere che, come, del resto, previsto dalla normativa previgente, il ricorso possa essere validamente proposto direttamente.

Il lamentato sacrificio del diritto di agire del contribuente appare alla commissione rimettente ancora più ingiustificato ove si considerino le modalità di svolgimento del procedimento innanzi alle commissioni tributarie, nel quale le decisioni sono adottate, tra l'altro, da giudici non professionali, ordinariamente in camera di consiglio, senza intervento delle parti, e sulla base, oltre che dei documenti prodotti, delle istanze e delle memorie formulate per iscritto, mentre sarebbe conforme ai principi costituzionali un diverso sistema normativo in cui, in caso di mancata sottoscrizione del ricorso da parte di un difensore abilitato, anziché essere stabilita, per liti di valore superiore ai cinque milioni di lire, l'inammissibilità dell'azione, fosse consentito al ricorrente, che abbia agito personalmente, come avviene per le liti di valore inferiore, di nominare il difensore anche successivamente alla proposizione del ricorso stesso, eventualmente per ordine del Presidente di commissione o di sezione, o del collegio.

2.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione sollevata, escludendo anzitutto che l'onere imposto al ricorrente di farsi assistere in giudizio renda l'esercizio del diritto di difesa estremamente gravoso, costituendo, anzi, esso il presupposto fondamentale per la sua effettiva tutela, dettato dalla esigenza di garantire una idonea difesa alle parti più deboli attraverso l'assistenza da parte di soggetti in possesso di una preparazione specialistica adeguata. Una scelta, quella adottata dal legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità, che avrebbe potuto essere sostituita da altre, quale quella di prevedere, anziché la inammissibilità del ricorso non sottoscritto da difensore abilitato, la possibilità di sanatoria durante il procedimento, attraverso la costituzione del difensore, scelta che avrebbe comportato una normativa complessa, che avrebbe finito per vanificare il sistema dei termini perentori. Il valore di cinque milioni indicato dalla normativa impugnata, si osserva, costituisce il limite oltre il quale il legislatore ha ritenuto che l'esigenza di una corretta difesa tecnica prevale sul risparmio delle spese di lite.

Quanto alla ipotesi, adombrata dal giudice a quo, di attribuire al collegio giudicante la valutazione della complessità della lite, obbligando la parte a munirsi di difensore, l'Avvocatura generale dello Stato sottolinea che, a parte la considerazione che tale soluzione comporterebbe la necessità di una ampia rimessione in termini del contribuente per quanto non proposto con il ricorso, essa è comunque rimessa alla discrezionalità del legislatore.

Considerato in diritto

1.- La questione di legittimità costituzionale, proposta in via incidentale, all'esame della Corte riguarda il combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui, nei giudizi innanzi alle commissioni tributarie, il cui valore ecceda i cinque milioni di lire, sanzionerebbe, con la inammissibilità, il ricorso sottoscritto dal solo contribuente, senza prevedere che quest'ultimo possa nominare un difensore in un momento successivo, eventualmente su disposizione del presidente di commissione o di sezione, ovvero del collegio.

 Secondo il giudice a quo, vi sarebbe violazione dell'art. 3 della Costituzione, per il carattere ingiustificato della discriminazione, fondata sull'importo della lite, nonché dell'art. 24, primo comma, della Costituzione, intralciandosi in modo egualmente ingiustificato la concreta possibilità dei singoli di ottenere tutela giurisdizionale, in quanto l'azione da proporre in sede giurisdizionale tributaria, diversamente da quella ordinaria in sede civile, ove dichiarata inammissibile, non potrebbe essere validamente proposta stante la brevità del termine di decadenza entro il quale l'atto impositivo può essere impugnato.

2.- La questione è priva di fondamento, in quanto la norma denunciata è suscettibile di essere interpretata in modo da escludere in radice i dubbi sollevati dal giudice a quo, con eliminazione dei paventati ostacoli all'esercizio del diritto di difesa e all'esercizio dell'azione avanti al giudice tributario di primo grado (commissione provinciale).

Infatti, la previsione dell'art. 18, commi 3 e 4, del d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546 deve essere interpretata unitariamente all'art. 14, comma 2, cui viene fatto espresso rinvio di salvezza, alla fine del comma 3 dello stesso art. 18, e alla luce anche dei criteri direttivi contenuti nella legge di delega.

La inammissibilità del ricorso dinanzi alla commissione tributaria provinciale è prevista (art. 18, comma 4) quando il ricorso stesso manca di uno degli elementi considerati essenziali dal legislatore, ovvero quando non vi sia la sottoscrizione "a norma del comma" 3: tuttavia il comma 3 prevede che "il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere l'indicazione dell'incarico a norma dell'art. 12, comma 3" (con modalità del conferimento dell'incarico: atto pubblico, scrittura privata autenticata, sottoscrizione autografa certificata in calce o a margine dell'atto processuale, ovvero oralmente e verbalizzata all'udienza pubblica), salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente. Nel quale caso vale quanto disposto dall’art. 12, comma 6, cioè la possibilità di stare in giudizio personalmente per chi è in possesso dei requisiti richiesti.

Tuttavia, tale norma di rinvio, contenuta nell’art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 è stata modificata dall’art. 69, comma 2, lettera c), del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427), che ha sostituito il richiamo al comma 6 con quello al comma 5 dell’art. 12 del d.lgs. n. 546 del 1992.

A seguito di tale modifica, il riferimento al disposto del comma 5 dell’art. 12 assume un significato logico (con interpretazione in armonia con un sistema processuale che deve garantire la tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità che si risolvano a danno del soggetto che si intende tutelare) di richiamo complessivo all’intero comma 5 e quindi anche al meccanismo dell'ordine da parte del Presidente della commissione o della sezione o del collegio di "munirsi di assistenza tecnica fissando un termine entro il quale la stessa (parte) è tenuta, a pena di inammissibilità, a conferire l'incarico ad un difensore abilitato".

La conseguenza è che l'inammissibilità scatta - per scelta del legislatore tutt’altro che irragionevole - solo a seguito di ordine ineseguito nei termini fissati e non per il semplice fatto della mancata sottoscrizione del ricorso da parte di un professionista abilitato.

Tale soluzione appare maggiormente in linea con il principio e criterio direttivo della delega (art. 30, comma 1, lettera i), che contempla il potere di disciplinare l'assistenza tecnica solo per le parti diverse dall'Amministrazione, mentre prevede espressamente che vi deve essere l’assistenza tecnica per i procedimenti ai sensi della lettera b) del citato art. 30 della delega (procedimenti speciali preventivi collegati a reati per i quali sia ammessa l'oblazione)).

D'altro canto, deve essere sottolineato che trattasi di semplice assistenza tecnica (e non anche di rappresentanza), il cui incarico può essere conferito anche in sede di udienza pubblica (art. 12, comma 3, ultima parte). Il legislatore, nell'esercizio di una scelta discrezionale, ha voluto introdurre l'assistenza tecnica generalizzata per le parti diverse dall'amministrazione finanziaria (art. 12, comma 1), ma ha anche previsto, in ipotesi di controversia di valore inferiore a un milione, poi elevato a cinque milioni, e nei casi di cui all'art. 10 del d.P.R. 28 novembre 1980, n. 787, la proponibilità diretta dei ricorsi ad opera delle parti interessate senza esigenza di assistenza tecnica, non incidendo, di per sé, l'esercizio personale delle proprie ragioni, anche da parte del contribuente non iscritto ad un albo, sul diritto di difesa (art. 24 della Costituzione, ordinanza n. 685 del 1988).

Rientra nella discrezionalità del legislatore la disciplina del diritto di difesa, non essendovi in via generale una scelta costituzionalmente obbligata di assistenza di difensore abilitato, soprattutto in relazione alla tenuità del valore della lite o alla natura della controversia.

3.- D'altra parte, non osta alla anzidetta interpretazione la considerazione dell'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui questa soluzione comporterebbe la necessità di un'ampia rimessione in termini del contribuente, in quanto il tema del decidere resta circoscritto dal ricorso introduttivo, mentre la possibilità di "motivi aggiunti" è dal legislatore limitata alle sole ipotesi tassative di integrazione dei motivi del ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione tributaria, ed entro termini tassativi dalla notizia del deposito (art. 24 del d.lgs. n. 546 del 1992).

per questi motivi

la Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Novara con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il

Cesare MIRABELLI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 13 giugno 2000.