Sentenza n. 171/99

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SENTENZA N. 171

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65 e 154, 2, comma 205, e 3, comma 214, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ricorsi delle Regioni Veneto e Lombardia, notificati il 27 gennaio 1997, depositati in Cancelleria il 31 successivo ed il 4 febbraio 1997 ed iscritti ai nn. 19 e 22 del registro ricorsi 1997.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 novembre 1998 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;

uditi gli avvocati Alfredo Bianchini per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto

1. - La Regione Veneto, con ricorso notificato il 27 gennaio 1997, depositato il 31 gennaio 1997, ha impugnato l’art. 1, commi 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64 e 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 1996, in riferimento agli artt. 39, 97, 115, 117, 118, 119 e 123 della Costituzione e 48 e 51 dello statuto regionale.

1.1. - La ricorrente premette che le norme impugnate recano la disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale dei dipendenti della pubblica amministrazione, materia già regolamentata dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) Regioni-Autonomie locali per il triennio 1994-1997 e, nel Veneto, dalle leggi regionali 10 giugno 1991, n. 12 e 22 luglio 1994, n. 30. In particolare, queste ultime attribuiscono alla Giunta regionale la facoltà di istituire posti in organico a tempo parziale, ovvero di trasformare quelli già a tempo pieno, entro il limite del 20 per cento della dotazione organica, fatta eccezione per i posti che comportano l’esercizio di funzioni ispettive, di direzione e di coordinamento di unità organiche; prevedono una articolata disciplina dell’orario flessibile e della turnazione e la possibilità di stabilire orari diversi nell’ambito di una programmazione plurisettimanale dell’orario di lavoro.

Le disposizioni impugnate - prosegue la Regione - nel disciplinare ex novo la materia, travolgono la regolamentazione vigente nel Veneto e recano precetti di contenuto talmente dettagliato da essere autoapplicativi e da non riservare spazi alla legislazione regionale. Infatti, il comma 56 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 stabilisce che al dipendente part-time, il quale espleta una prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno, non si applica il divieto di iscrizione negli albi professionali; il comma 57 prevede l’ammissibilità del tempo parziale per tutti i profili professionali; il comma 58 configura un vero e proprio diritto del dipendente ad ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro, decorsi sessanta giorni dalla presentazione della relativa istanza, permettendo all’amministrazione di differirne l’efficacia per un periodo massimo di sei mesi e di rigettare la domanda soltanto qualora sussista un conflitto di interessi con la specifica attività svolta dal dipendente. Il comma 59 della norma in esame stabilisce inoltre l’utilizzazione dei risparmi di spesa derivanti dalla trasformazione dei rapporti di impiego. I commi 60 e 61 prevedono che la violazione del divieto di prestazione di lavoro subordinato, ovvero delle prescrizioni concernenti il procedimento per la deroga, costituisce giusta causa di recesso dal rapporto disciplinato dal CCNL ovvero di decadenza dall’impiego. Infine, i commi 62, 63, 64 e 65, rispettivamente: disciplinano il procedimento di verifica dell’osservanza delle disposizioni e dispongono che le amministrazioni devono avvalersi di servizi ispettivi, da istituire entro trenta giorni dall’entrata in vigore della legge; stabiliscono il termine iniziale di efficacia della nuova disciplina, che abroga ogni diversa regolamentazione regionale; prevedono i criteri di precedenza per la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale; escludono l’applicabilità delle norme agli enti locali che non versano in una situazione strutturale di deficit del bilancio, qualora le relative piante organiche prevedano un numero di dipendenti inferiore a cinque unità.

1.2. - La ricorrente sostiene che la materia oggetto delle disposizioni denunciate é riservata alla competenza del legislatore regionale dagli artt. 115, 117, 118 e 119 della Costituzione e costituisce oggetto dell’espressa riserva di legge stabilita dagli artt. 48 e 51 dello statuto della Regione Veneto. Lo Stato, a suo avviso, potrebbe, quindi, emanare in tale materia norme di principio ed eccezionalmente norme di dettaglio, ma soltanto in presenza di un rilevante interesse nazionale che, secondo la giurisprudenza della Corte, non deve essere arbitrario, ed entro i limiti necessari a consentirne il conseguimento. Le norme impugnate, prosegue la ricorrente, non esprimerebbero invece <<scelte politico-legislative fondamentali>> e neppure si porrebbero quale <<insostituibile punto di riferimento per l’orientamento unitario in tutto il territorio nazionale dell'esercizio del potere legislativo regionale nella materia del tempo parziale>>. Il loro carattere sostanzialmente provvedimentale e la circostanza che interferiscono nella sfera di autonomia riservata alla contrattazione collettiva conforterebbero l’inesistenza di un interesse nazionale. Inoltre, ancora a suo avviso, non sarebbe ragionevole che tutti i dipendenti, di ogni livello, possano ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro, in quanto siffatta previsione violerebbe il principio di buon andamento della pubblica amministrazione e sottrarrebbe alla regione il potere di organizzare i propri uffici, ostacolando il conseguimento dei compiti ad essa affidati.

Secondo la ricorrente, la Corte, con la sentenza n. 359 del 1993, ha altresì affermato che deve essere garantita l’effettiva partecipazione delle regioni alla fase della formazione e della sottoscrizione dei contratti collettivi concernenti <<i rapporti di lavoro e di impiego imputabili alle regioni ordinarie>>. Le norme impugnate, in contrasto con gli artt. 115, 116, 117 e 118 della Costituzione, violerebbero invece il potere di essa istante di organizzare i propri uffici, oltre che l’autonomia contrattuale garantita dall’art. 39 della Costituzione, stabilendo una disciplina irragionevole, suscettibile di ostacolare il funzionamento degli uffici regionali e, quindi, in contrasto con l’art. 97 della Costituzione.

1.3. - La Regione Veneto, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha ribadito le censure svolte nell’atto introduttivo, sottolineando che il comma 63 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 recherebbe una disposizione di dettaglio, in quanto fissa la data di entrata in vigore della nuova disciplina di principio, la cui individuazione spetta invece ad essa ricorrente, anche allo scopo di adattare le norme statali alle "peculiarità del proprio ordinamento". Il comma 65 della norma in esame, osserva la ricorrente, stabilendo l’inapplicabilità dei commi impugnati agli enti locali la cui pianta organica prevede un numero di dipendenti inferiore alle cinque unità, esprime invece l’intento di evitare il rischio della paralisi, qualora i dipendenti decidano di ricorrere tutti al part time. A suo avviso, non sarebbe però ragionevole che il legislatore si sia dato carico di tale preoccupazione soltanto per i piccoli enti locali ed abbia omesso di considerare che detto rischio sussiste anche per quelli di maggiori dimensioni , sicchè la disposizione viola l’art. 3 della Costituzione.

2. - La Regione Lombardia, con ricorso notificato il 27 gennaio 1997, depositato il successivo 4 febbraio, ha impugnato l’art. 1, commi 57, 58, 59 e 154, secondo capoverso; l’art. 2, comma 205; l’art. 3, comma 214 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, in riferimento agli artt. 3, 53, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.

2.1. - La ricorrente premette che l’art. 1, commi 57 e 58 della legge n. 662 del 1996, disciplina il rapporto di lavoro a tempo parziale dei pubblici dipendenti con modalità tali da ledere la propria autonomia in materia di organizzazione del personale, dato che l’art. 117 della Costituzione, secondo l’interpretazione della Corte (sentenze n. 359 del 1993 e n. 219 del 1984), pone quale unico limite alla competenza legislativa regionale quello derivante dai principi fondamentali fissati nelle leggi dello Stato. Inoltre, a suo avviso, le norme, in contrasto con il principio di ragionevolezza organizzativa e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 della Costituzione), non consentirebbero la pianificazione degli organici. Il successivo comma 59, prosegue la ricorrente, lede invece l’autonomia finanziaria regionale (art. 119 della Costituzione), in quanto stabilisce la destinazione dei risparmi di spesa derivanti dalla trasformazione dei rapporti di lavoro e, non ragionevolmente, non permette di trasformare i rapporti di impiego part-time in rapporti a tempo pieno, così impedendo di far fronte ad eventuali carenze di organico, anche perchè il comma 45 reca il divieto di assunzione di nuovo personale sino al 31 dicembre 1997.

La Regione Lombardia, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, deduce che l'art. 39, comma 27, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, stabilendo che <<le disposizioni dell'articolo 1, commi 58 e 59, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, in materia di rapporto di lavoro a tempo parziale, si applicano al personale dipendente delle regioni e degli enti locali finchè non sia diversamente disposto da ciascun ente con proprio atto normativo>>, non soddisferebbe la propria pretesa, ma anzi introdurrebbe un inutile elemento di contraddizione e di confusione nel sistema delle fonti. Infatti, essa ricorrente avrebbe potuto attuare le disposizioni previste dalla legge n. 662 del 1996, sia in base ai principi fissati dal d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, sia in virtù della legge 15 marzo 1997, n. 59. Quest’ultima ha posto i nuovi principi del decentramento amministrativo e rinviato a successivi decreti attuativi la riorganizzazione delle competenze regionali nelle materie da essa contemplate, mentre il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ha introdotto importanti innovazioni in materia di flessibilità del rapporto di lavoro pubblico e la legge regionale 23 luglio 1996, n. 16 avrebbe anche anticipato gli attuali orientamenti della legislazione statale, riorganizzando il pubblico impiego in conformità di detti principi.

2.2. - La Regione Lombardia denuncia l’illegittimità anche dell’art. 1, comma 154, secondo capoverso, della legge n. 662 del 1996 in riferimento agli artt. 1, 3, 53 e 119 della Costituzione. La norma incrementa l’importo massimo dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione e, al secondo capoverso, riserva allo Stato il potere di aumentarla in modo differenziato nei territori delle diverse regioni, allo scopo di mantenere omogenei i prezzi sull’intero territorio. Secondo la ricorrente, la disposizione penalizzerebbe i cittadini delle regioni che non aumentano l’importo dell’imposta, ovvero la determinano in misura inferiore rispetto ad altre, in quanto essi sono costretti a pagare allo Stato una più alta accisa rispetto a quella vigente nelle regioni che non hanno incrementato il tributo regionale. Pertanto, se la regione aumenta l’imposta in misura inferiore a quella massima consentita, di una tale scelta non beneficiano affatto i cittadini della regione, bensì lo Stato, il quale incassa la differenza tra le due aliquote.

La disposizione, prosegue la ricorrente, vanificherebbe il potere della regione di determinarsi in ordine all’entità dell’aumento, poichè la sua fissazione al di sotto dell’importo massimo consentito non recherebbe alcun vantaggio alla comunità regionale, in quanto quest’ultima é tenuta a pagare una più elevata imposta erariale, e quindi la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 119 della Costituzione. Inoltre, essa violerebbe anche gli artt. 3 e 53 della Costituzione, dato che la possibilità di variare l’aliquota dell’imposta erariale nel territorio delle regioni in modo inversamente proporzionale rispetto alla scelta delle regioni penalizza i cittadini di quelle più efficienti, assoggettati al tributo non in ragione della loro capacità contributiva, bensì dell’inefficienza degli enti dimostratisi incapaci di applicare un’aliquota più bassa.

La disposizione, sostiene la ricorrente nella memoria, mira esclusivamente ad evitare una pur limitata differenza del prezzo della benzina tra le diverse regioni, ma non sarebbe ragionevole un'accisa statale diretta ad assolvere un tale scopo, una volta che lo stesso produttore é libero di realizzare la propria politica dei prezzi, anche differenziandoli su base regionale. Peraltro, la disposizione contrasterebbe con il d. lgs. 11 febbraio 1998, n. 32, il quale ha stabilito il principio della promozione dell'efficienza e del contenimento dei prezzi per i consumatori, che sarebbe evincibile dall'art. 2, recante disposizioni in materia di competenze regionali e comunali.

2.3. - Relativamente alle censure concernenti il comma 205 dell’art. 2 della legge n. 662 del 1996, la ricorrente espone che il comma 203 di detta norma disciplina gli "accordi di procedimento", reca la definizione di "intesa istituzionale di programma", disciplina lo "accordo di programma quadro" e descrive, in modo confuso, il "patto territoriale", il "contratto di programma", il "contratto d’area". Il comma 209 abroga invece alcune parti dell’art. 1, commi 1 e 2, del decreto-legge 8 febbraio 1995, n. 32, convertito nella legge 7 aprile 1995, n. 104, in particolare alcune definizioni parzialmente diverse da quelle contenute nel comma 203. Il comma 205, prosegue la Regione, riserva al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) l’approvazione delle intese istituzionali di programma, anche se concluse da regioni e province autonome; il comma 206 non specifica le modalità di approvazione degli accordi diversi dalle intese istituzionali di programma ed attribuisce al Cipe il potere di stabilirle e di definire ulteriori tipologie della contrattazione programmata.

Secondo la ricorrente, queste ultime due disposizioni vulnerano la propria autonomia amministrativa e si pongono in contrasto con l’art. 118 della Costituzione, in quanto stabiliscono vincoli a carico delle regioni, senza definirne forme e modalità. In particolare, a suo avviso, sarebbe lesiva di tale autonomia l’attribuzione al Cipe sia del potere di definire e disciplinare "ulteriori tipologie della contrattazione programmata", in mancanza di ogni indicazione nella legge dei principi e degli obiettivi da conseguire, sia del potere di approvare le intese e gli accordi anche quando esso dovrebbe spettare alle regioni o province autonome medesime, in quanto organi procedenti. Nella memoria, la Regione deduce che, nonostante l'art. 18, comma 1, lett. v), del d. lgs 31 marzo 1998, n. 112, abbia conservato allo Stato competenze residuali in materia di intese istituzionali di programma, la disciplina del comma 205 violerebbe la regola secondo la quale il procedimento deve essere concluso dalla amministrazione procedente, l’art. 118 della Costituzione, ed il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Infatti, a suo avviso, l'azione di coordinamento tra le istituzioni non può condurre ad uno stravolgimento delle rispettive competenze, qual é quello realizzato dal comma 205, attraverso l’eliminazione della competenza della regione nella conclusione del procedimento.

2.4. - L’art. 3, comma 214, della legge n. 662 del 1996 - osserva la Regione Lombardia nell’ultima censura - dispone che <<per gli enti soggetti all’obbligo di tenere le disponibilità liquide nelle contabilità speciali o in conti correnti con il Tesoro, per l’anno 1997 i pagamenti del bilancio dello Stato sono accreditati sui conti correnti aperti presso la tesoreria dello Stato solo ad avvenuto accertamento che le disponibilità sui conti medesimi si sono ridotte ad un valore non superiore al 20 per cento delle disponibilità rilevate al 1° gennaio 1997>>. La disposizione, a suo avviso, limita la disponibilità e l’utilizzo delle giacenze di cassa presso la Tesoreria centrale dello Stato e l’accreditamento delle somme spettanti alle regioni e, quindi, ne lede l’autonomia finanziaria e contabile, costituzionalmente garantita (art. 119 della Costituzione). Secondo la ricorrente, la giurisprudenza della Corte ha infatti affermato che il sistema di tesoreria unica non viola l’autonomia regionale purchè non si trasformi in <<anomalo strumento di controllo sulla gestione finanziaria>> in quanto, se quest’ultima non richiede che le regioni abbiano l’immediata disponibilità dei fondi, esse non possono però essere private della disponibilità di quelli già accreditati o da accreditare in base alle disposizioni vigenti. La norma impugnata vincolerebbe invece il versamento dei fondi al conseguimento di un determinato obiettivo e, in tal modo, da un canto costituirebbe un’illegittima forma di controllo lesiva della propria autonomia finanziaria, di bilancio, programmatoria, legislativa ed amministrativa; dall’altro, ritarderebbe i pagamenti delle spese già deliberate ed impegnate, vulnerando anche i diritti dei creditori ed il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

Infine, conclude la Regione nella memoria, anche se la norma sembra avere un’efficacia limitata al solo anno 1997, essa ritiene <<necessario chiedere>> alla Corte <<una decisione che possa assumere valore di principio di modo che in futuro non possa essere, nuovamente, lesa la sfera dell'autonomia finanziaria della Regione>>.

3. - In entrambi i giudizi, con separati atti, si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito che tutte le censure sono infondate.

3.1. - Relativamente alle disposizioni aventi ad oggetto la disciplina del rapporto di lavoro part-time dei dipendenti pubblici, impugnate da entrambe le ricorrenti, l’Avvocatura svolge argomentazioni in larga parte coincidenti. In particolare, premette che le norme, in quanto innovano la disciplina del pubblico impiego quale definita dal d. lgs. n. 29 del 1993, parteciperebbero della stessa natura di quelle modificate, stabilendo "principi fondamentali" ex art. 117 della Costituzione, secondo l’espressa previsione contenuta nell’art 1, comma 3, di detto d.lgs.. A suo avviso, ciò deve ritenersi per l’art. 1, comma 56, della legge n. 662 del 1996, concernente la regolamentazione del divieto di iscrizione negli albi professionali ai dipendenti legati all’amministrazione da un rapporto di lavoro part-time, anche perchè la norma mira a realizzare l’obiettivo della "razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e del contenimento della spesa complessiva per il personale entro i vincoli di finanza pubblica" (art. 1, comma 1 lettera b) del d.lgs. n. 29 del 1993). Secondo l’Avvocatura dello Stato, il conseguimento di quest’ultimo scopo avrebbe richiesto di identificare le categorie di pubblici dipendenti ammesse al lavoro a tempo parziale, ed esso é stato realizzato dal comma 57 della disposizione impugnata, prevedendo l’applicabilità della disciplina ai dipendenti di ogni categoria e livello, al fine di assicurare la parità di trattamento e di ottenere un’effettiva riduzione dei costi per il personale, sicchè anche detto comma reca un "principio fondamentale". Ad identica conclusione, ad avviso della difesa erariale, deve pervenirsi quanto ai commi 60 e 61 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996, i quali, per i dipendenti a tempo pieno, riaffermano il divieto di espletare una diversa attività lavorativa e stabiliscono la sanzione per la sua violazione ed il procedimento per la sua applicazione.

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, anche i commi 58 e 62 della disposizione in esame stabiliscono "principi fondamentali" della materia, in quanto l’identificazione dei casi di inammissibilità di tale tipo di rapporto sarebbe riservata alla disciplina generale della prestazione di lavoro a tempo parziale, di nuova configurazione. La previsione dell’automatismo della trasformazione e dei termini del relativo procedimento, prosegue la difesa erariale, sono inoltre giustificate dalla infrazionabilità e dalla ragionevolezza dell’interesse avuto di mira, nonchè dalla pressante esigenza di contenimento del deficit pubblico, che hanno richiesto di ottenere in tempi brevi il quadro completo ed esatto dell’andamento della spesa pubblica. Pertanto, tali esigenze giustificano la modesta compressione del potere organizzatorio delle regioni, peraltro realizzato attraverso la previsione del silenzio-assenso, istituto ampiamente diffuso nel diritto amministrativo. L’obbligo della costituzione dei servizi-ispettivi non riguarderebbe invece gli enti dotati di autonomia, come é dato desumere dalla attribuzione di compiti di verifica al Dipartimento della funzione pubblica, il quale non é certo titolare di poteri ispettivi nei confronti delle regioni, e quindi la disposizione non vulnera la competenza regionale.

L’Avvocatura generale dello Stato deduce altresì che il comma 59 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 pone vincoli di destinazione dei risparmi di spesa che non sarebbero tutti cogenti (come, ad esempio, quello concernente il facoltativo utilizzo della quota del 50 per cento). Inoltre, essi da un canto mirano al contenimento della spesa pubblica e, dall’altro, tendono ad assicurare l’efficienza dell’organizzazione pur dopo l’introduzione del part-time e costituiscono parte essenziale dell’intera disciplina (in particolare, laddove dispongono l’impiego del 20 per cento nel miglioramento della produttività). La destinazione ad economie di bilancio di una quota della riduzione dei costi pari al 30 per cento mira a conseguire l’interesse, di per infrazionabile, stabilito nell’art. 1, comma 1 lettera b), del d.lgs. n. 29 del 1993, mentre il <<facoltativo utilizzo della quota del 50% del risparmio (in incentivi alla mobilità o in nuove assunzioni di personale)>> neppure lederebbe l’autonomia regionale. La disposizione, nella parte in cui stabilisce un vincolo di destinazione per l’utilizzo della quota del 20% di risparmio di spesa e prevede che essa debba essere impiegata nella contrattazione decentrata, allo scopo di ottenere il miglioramento della produttività, costituirebbe infine un vincolo di non rilevante entità, diretto a conservare l’efficienza produttiva, configurando una misura "compensativa" che é parte integrante della disciplina del nuovo rapporto di lavoro.

3.2. - La censura dell’art. 1, comma 154, della legge n. 662 del 1996, secondo l’Avvocatura, é invece inammissibile, in quanto é <<diretta contro un precetto che non riguarda una entrata regionale (bensì statale)>> e comunque confonderebbe due tributi diversi. Infatti, a suo avviso, l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione costituisce un tributo regionale, e non costituisce una "addizionale" al tributo erariale, poichè quest’ultimo grava sulla benzina al momento dell’estrazione dai depositi fiscali, indipendentemente dall’effettiva distribuzione. I due tributi sono autonomamente disciplinati dallo Stato e dalle regioni, senza alcuna interferenza del primo sul potere impositivo delle seconde. Pertanto, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, l’autolimitazione prevista dalla norma nell’applicazione degli aumenti dell’imposta erariale non vulnererebbe, neppure indirettamente, il potere impositivo della regione. La variazione disposta dallo Stato non influirebbe sul gettito fiscale proprio delle regioni e l'incidenza dell'aumento in misura inversamente proporzionale a quella dell’imposta regionale non si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto ispirata ad un criterio di ragionevolezza e diretta ad evitare distorsioni nella distribuzione del prodotto e pregiudizi all’economia, derivanti da una eccessiva diversificazione del prezzo al distributore sull’intero territorio nazionale.

3.3. - La censura dell’art. 2, comma 205, della legge n. 662 del 1996, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, é parimenti infondata. Gli "accordi di procedimento" disciplinati da dette disposizioni assumono infatti rilievo nell’ambito della realizzazione degli indirizzi di politica economica generale, che costituiscono un settore riservato alla competenza dello Stato, specie in ordine ai profili concernenti il coordinamento. La compartecipazione degli enti interessati dall’intervento sarebbe realizzata secondo forme che non ne comprimerebbero l’autonomia e realizzerebbero il principio di "leale collaborazione" tra gli enti esponenziali di interessi diversi, da valutare in una fase di coordinamento necessariamente riservata agli organi centrali.

3.4. - L’art. 3, comma 214, della legge n. 662 del 1996, conclude il Presidente del Consiglio dei ministri, si sottrae infine ad ogni censura, dato che stabilisce una misura preordinata alla regolamentazione dei flussi di tesoreria, di durata limitata ed imposta dai vincoli di bilancio derivanti dagli accordi europei. La misura, peraltro contenuta entro limiti ragionevoli (ancorati ad una riduzione delle disponibilità al di sotto del 20 per cento di quelle rilevate all’inizio del 1997), configurerebbe quindi una contingente limitazione delle attribuzioni regionali, giustificata dall’interesse della collettività nazionale.

  4. - Le ricorrenti e la difesa erariale, all’udienza pubblica, hanno insistito nelle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1. - Le questioni di legittimità costituzionale promosse dai ricorsi della Regione Veneto e della Regione Lombardia, indicati in epigrafe, investono alcune disposizioni della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). In particolare, i ricorsi della Regione Veneto e della Regione Lombardia hanno ad oggetto l'art. 1, commi 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64 e 65 della citata legge n. 662, mentre il ricorso della Regione Lombardia ha ad oggetto anche l'art. 1, comma 154, l'art. 2, commi 205 e 206, e l'art. 3, comma 214 della stessa legge.

I due giudizi, riguardando questioni di costituzionalità che investono, sotto profili analoghi, norme della medesima legge, vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. - Per procedere ad un esame ordinato delle varie censure, appare conveniente sottoporre a scrutinio le singole questioni, secondo l'ordine di collocazione delle disposizioni interessate nel testo della legge.

La Regione Veneto ha impugnato l'art. 1, commi 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64 e 65 della legge n. 662 del 1996, in riferimento agli artt. 39, 97, 115, 117, 118, 119 e 123 della Costituzione ed agli artt. 48 e 51 dello statuto regionale, mentre la Regione Lombardia ha denunciato, con la prima censura, l'illegittimità dei soli commi 57, 58 e 59, eccependo che essi violerebbero gli artt. 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.

Le disposizioni oggetto di censura disciplinano il rapporto d'impiego part-time dei dipendenti della pubblica amministrazione.

La Regione Veneto deduce che la materia disciplinata dalle norme in esame é riservata dagli artt. 115, 117, 118, 119 e 123 della Costituzione, nonchè dagli artt. 48 e 51 dello statuto regionale, alla Regione stessa. La predetta disciplina statale, secondo la ricorrente, pretenderebbe di regolamentare "ex novo" la materia, non solo "travolgendo" il sistema già stabilito dalle leggi regionali 10 giugno 1991, n. 12 e 22 luglio 1994, n. 30, ma introducendo anche disposizioni che non conterrebbero "principi fondamentali" della materia, esprimerebbero "scelte politico-legislative fondamentali". Inoltre, configurandosi come disposizioni di dettaglio e autoapplicative, in carenza di un interesse nazionale che possa giustificarle, esse violerebbero il potere regionale di organizzazione degli uffici e di disciplina dello stato giuridico-economico del proprio personale, con conseguente pregiudizio del buon andamento dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) e lesione dell'autonomia riservata alla contrattazione collettiva (art. 39 della Costituzione). Il potere di organizzare i propri uffici verrebbe precluso alla ricorrente anche dalla fissazione della data di applicazione della nuova disciplina statale (cfr. art. 1, comma 63, legge n. 662 del 1996), che le impedirebbe di adattare le norme statali alle "peculiarità del proprio ordinamento".

Secondo la Regione ricorrente, inoltre, é irragionevole e contrastante con l'art. 3 della Costituzione -parametro ricavabile dalla motivazione del ricorso- che non sia prevista anche per gli enti di maggiori dimensioni la inapplicabilità delle norme censurate disposta per gli enti locali, la cui pianta organica preveda un numero di dipendenti inferiore alle cinque unità (art. 1, comma 65), proprio per evitare il rischio di paralisi funzionale, qualora tutti i dipendenti optino per il part-time.

Infine, la previsione della destinazione dei risparmi di spesa conseguenti alla trasformazione dei rapporti d'impiego (cfr. art. 1, comma 59) violerebbe, ad avviso della ricorrente, la propria autonomia finanziaria e di bilancio, trasferendo alle regioni una parte del deficit di bilancio dello Stato e diminuendo gli oneri a carico di quest'ultimo.

La Regione Lombardia ha svolto, limitatamente alle disposizioni da essa impugnate, censure analoghe a quelle della Regione Veneto, eccependo altresì che l'art. 39, comma 27, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, stabilendo che "le disposizioni dell'art. 1, commi 58 e 59, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, in materia di rapporto di lavoro a tempo parziale, si applicano al personale dipendente delle regioni e degli enti locali finchè non sia diversamente disposto da ciascun ente con proprio atto normativo", non solo non escluderebbe la fondatezza della questione, ma introdurrebbe un inutile elemento di contraddizione e di confusione nel sistema delle fonti. La Regione Lombardia sostiene invero che essa avrebbe già potuto attuare le citate disposizioni della legge n. 662 del 1996, sia in base ai principi fissati dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, sia in virtù della legge 15 marzo 1997, n. 59, sia in forza delle innovazioni introdotte dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, a prescindere dalla ulteriore considerazione che la legge regionale 23 luglio 1996, n. 16 avrebbe già anticipato i principi della legislazione statale.

2.1. - Le questioni prospettate sono in parte infondate, in parte inammissibili.

Le norme impugnate, che stabiliscono la disciplina del rapporto di impiego part-time alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si inseriscono in un complesso itinerario legislativo, che prende le mosse dall'art. 7 della legge 29 dicembre 1988, n. 554, attuato con il d.P.C.m. 17 marzo 1989, n. 117, che disegna una prima forma di attenuazione del principio dell'esclusività della prestazione del pubblico dipendente. Successivamente, la regolamentazione del rapporto di pubblico impiego riceve significative innovazioni dal d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, nell'ambito di un nuovo modello di organizzazione dell'apparato amministrativo, capace di incidere anche sul "quadro strutturale" della pubblica amministrazione (sentenza n. 309 del 1997). L'innovatività di questo disegno riformatore costituisce il presupposto, nell'ottica del contenimento della spesa pubblica e dell'aumento dell'efficienza della pubblica amministrazione, per ulteriori estensioni del regime del lavoro a tempo parziale nel settore pubblico. Ed infatti la legge 23 dicembre 1994, n. 724 demanda l'articolazione dell'orario di lavoro alla contrattazione collettiva (art. 22, comma 3), elevando la percentuale del personale che può essere destinato al tempo parziale (art. 22, comma 20), mentre il CCNL dei dipendenti del comparto "Regioni ed enti locali", (G.U. 9 settembre 1995) stabilisce, in conformità, una specifica regolamentazione.

La revisione dell'ordinamento del pubblico impiego attraverso la c.d. "privatizzazione" del rapporto é ispirata dunque da una prospettiva di maggiore valorizzazione dei risultati dell'azione amministrativa, alla luce di obiettivi di efficienza e di rigore di gestione (sentenza n. 371 del 1998). Le disposizioni denunciate si collocano quindi all'interno di tale logica normativa, delineando compiutamente la disciplina del part-time, anche attraverso la riscrittura delle regole relative alle incompatibilità, già poste dal decreto-legislativo n. 29 del 1993. Ed invero la disciplina dell'incompatibilità, recata dal comma 56 dell'art. 1 della citata legge n. 662 del 1996, ha introdotto una decisiva modifica ad uno dei canoni fondamentali del rapporto di pubblico impiego, e cioé quello dell'esclusività della prestazione, tanto più che successivamente il comma 56-bis, aggiunto all'art. 1 della legge in esame dall'art. 6 del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito nella legge 28 maggio 1997, n. 140, ha completato il disegno legislativo disponendo l'abrogazione (e non più la inapplicabilità) di tutte le norme che vietano ai pubblici dipendenti a part-time l'iscrizione ad albi professionali e l'esercizio di altre prestazioni di lavoro.

L'ampiezza, l'incisività e la rilevanza nazionale di questo disegno di riforma del pubblico impiego, che si manifestano appunto nelle disposizioni che regolano il regime delle incompatibilità e del part-time alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, inducono a ritenere che tali disposizioni costituiscano, in base alla loro natura oggettiva, "principi fondamentali" della legislazione statale, anche in relazione alle norme del decreto n. 29 del 1993 -qualificate ex lege "principi fondamentali" (art. 1, comma 3)- che esse appunto modificano. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 528, 479 e 406 del 1995, n. 359 del 1993), del resto, ben possono essere considerate, indipendentemente da eventuali autoqualificazioni, "principi fondamentali" le disposizioni in oggetto, le quali, integrando ed innovando significativamente il precedente regime, perseguono, attraverso la nuova regolamentazione del part-time e delle incompatibilità, l'obiettivo del completamento del processo di omologazione tra il rapporto d'impiego con le pubbliche amministrazioni ed il rapporto di lavoro subordinato privato, in un quadro di riforma che si fonda sull'interesse nazionale al riequilibrio della finanza pubblica ed alla migliore efficienza e qualità delle prestazioni rese dalle amministrazioni pubbliche ai cittadini (sentenza n. 359 del 1993). Si tratta infatti di una disciplina che, per contenuti e finalità, incide su settori di importanza essenziale per la vita della comunità e che pertanto esige un'attuazione uniforme su tutto il territorio nazionale.

Le disposizioni statali in questione sono quindi in grado di vincolare le regioni a statuto ordinario in base alla natura oggettiva di normazione di principio che le disposizioni stesse vengono a manifestare (sentenza n. 359 del 1993). E poichè, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il sopravvenire di una disciplina legislativa statale recante principi tali da costituire un limite all'esercizio di competenze legislative regionali comporta, ai sensi dell'art. 10, primo comma, della legge 10 febbraio 1953, n. 62, l'effetto dell'abrogazione delle disposizioni regionali incompatibili (sentenze n. 153 del 1995, n. 498 del 1993), é appunto in questi termini che va configurata, nel caso di specie, la vicenda delle citate leggi della Regione Veneto e della Regione Lombardia, anche se naturalmente non é preclusa una successiva, diversa regolamentazione regionale della materia, nel rispetto dei nuovi principi.

2.2. - Nella fattispecie in esame, essenzialmente due sono i principi fondamentali -strettamente interconnessi- enucleabili dalla sopravveniente disciplina impugnata: quello relativo alla diversa configurazione della regola dell'esclusività della prestazione nel rapporto di pubblico impiego e quello relativo alle modalità di trasformazione del rapporto stesso da tempo pieno a tempo parziale. Sono quindi da considerare vincolanti per la potestà legislativa regionale non solo le disposizioni che recano direttamente questi principi, ma anche tutte le altre disposizioni impugnate, purchè legate alle prime da "un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione" (sentenza n. 406 del 1995).

In questo quadro, certamente é qualificabile come "principio fondamentale" la norma, di cui all'art. 1, comma 56, che, in deroga alla disciplina generale prevista dal comma 60, dichiara inapplicabili ai lavoratori a part-time le disposizioni normative in materia e l'art. 58, comma 1, del decreto n. 29 del 1993 relativamente al divieto di iscrizione in albi professionali, nonchè di svolgimento di altra attività di lavoro subordinato o autonomo. Appare inoltre "coessenziale" alla realizzazione di questi interessi, per il suo evidente carattere strumentale, il regime sanzionatorio e dei controlli disciplinato dall'art. 1, comma 61 e -per quanto qui rileva- dalla prima parte del comma 62, cosicchè la coessenzialità della disciplina sanzionatoria legittima anche l'intervento statale di dettaglio (sentenza n. 37 del 1991). Nella stessa ottica di "necessaria integrazione" e "strumentalità" va pure inquadrato l'art. 1, comma 63, non tanto perchè fissa la data di entrata in vigore delle predette procedure sanzionatorie, quanto perchè segna il termine di cessazione delle attività divenute incompatibili, appunto ai sensi delle disposizioni in esame, così da consentire un'attuazione uniforme di questa riforma su tutto il territorio nazionale.

Il comma 57 dell'art. 1 della citata legge n. 662 esprime invece il "principio fondamentale" della applicabilità del rapporto di lavoro part-time a tutti i profili professionali, regolando anche i casi nei quali tale trasformazione non può aver luogo, così da assicurare parità di trattamento sull'intero territorio nazionale. Coessenziale al predetto "principio fondamentale" va poi considerato il comma 64 dello stesso articolo, che si propone di attuare rilevanti finalità solidaristiche, assicurando che siano preferiti nella trasformazione del rapporto quei dipendenti per i quali l'applicazione del lavoro parziale risponde allo scopo di consentire loro di prestare assistenza a soggetti bisognosi facenti parte del proprio nucleo familiare.

Non sembrano invece suscettibili di ledere la competenza legislativa regionale i commi 58 e 59 dell'art. 1 della legge n. 662 del 1996, poichè l'art. 39, comma 27, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 ha chiarito che ambedue le disposizioni denunciate "si applicano al personale delle regioni e degli enti locali finchè non diversamente stabilito da ciascun ente con proprio atto normativo". Questa norma, quindi, con il suo contenuto interpretativo ha configurato come "suppletive" le statuizioni dei predetti commi rispetto alla eventuale normazione in materia emanata da parte dei competenti enti, evitando così, sotto questo profilo, possibili lesioni all'autonomia regionale.

Neppure viola l'autonomia regionale l'art. 1, comma 62, seconda parte, poichè tale norma é diretta precipuamente a stabilire l'obbligo di effettuare verifiche a campione, in quanto coessenziali ad una corretta applicazione dei principi fondamentali della riforma, e non già a stabilire l'obbligo di costituzione di appositi servizi ispettivi, come del resto espressamente riconosce anche il Dipartimento della funzione pubblica, precisando che "la funzione ispettiva potrà essere svolta anche da un ufficio della propria struttura già abilitato a compiti di controllo, al quale sarà formalmente conferita anche tale specifica funzione" (circolare 19 febbraio 1997, n. 3, paragrafo 8). E' comunque da escludere ogni interpretazione, secondo cui il predetto comma 62 possa attribuire al Dipartimento della funzione pubblica il potere di esercitare compiti ispettivi che riguardino enti ad autonomia costituzionalmente garantita, come sono appunto le regioni.

Non sussiste invece l'interesse della Regione Veneto -non attenendo la censura direttamente alla propria sfera di attribuzione- a proporre ricorso rispetto al comma 65 dell'art. 1 della legge citata, prospettando la violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento in riferimento alla inapplicabilità del regime del part-time ai soli enti locali con un numero di dipendenti inferiore a cinque. Ed infatti l'interesse delle regioni, nei giudizi in via principale, é qualificato, secondo la giurisprudenza costituzionale, dalla finalità di ripristinare l'integrità delle proprie competenze lese dalle norme statali (ex plurimis: sentenze n. 244 del 1997, n. 25 del 1996), cosicchè le regioni sono legittimate a far valere la violazione di norme diverse da quelle concernenti l'autonomia regionale, soltanto se ne derivi una diretta incidenza sulle loro competenze (sentenze n. 393 del 1992, n. 533 del 1989); il che nella specie non si verifica.

In definitiva, ribadito che alcune delle norme censurate non sono applicabili alle Regioni ricorrenti o sono comunque da considerare "cedevoli" rispetto ad una legislazione regionale contrastante, va ricordato che le altre disposizioni impugnate non vulnerano, in quanto espressive di "principi fondamentali" ai sensi dell'art.117 della Costituzione, l'autonomia regionale sotto il profilo legislativo, sotto quello amministrativo, sotto quello finanziario. la Regione Veneto ha ragione di dolersi della lesione degli artt. 48 e 51 dello statuto, giacchè gli statuti regionali, pur competenti a vincolare la disciplina dell'organizzazione interna della regione, non possono costituire, di per , parametri per la valutazione di costituzionalità dei "principi fondamentali" recati dalle leggi dello Stato, che, invece, vanno scrutinati - se del caso- in base alle norme costituzionali pertinenti.

Infine, neppure é sussistente il pregiudizio al corretto funzionamento degli uffici, perchè, come questa Corte ha già osservato, il nuovo modello di statuto del pubblico impiego, quale scaturisce dalle linee della riforma - anche senza considerare le ulteriori modifiche normative successive alla proposizione dei ricorsi in oggetto- é diretto a privilegiare, in modo non irragionevole, il valore dell'efficienza della pubblica amministrazione, contenuto nel precetto di cui all'art. 97 della Costituzione, grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività, ovvero una sua più flessibile utilizzazione; il che appare congruo rispetto al perseguimento della finalità del buon andamento della pubblica amministrazione (sentenza n. 1 del 1999).

3. - La Regione Lombardia ha impugnato, per violazione degli artt. 1 (indicato evidentemente per errore), 3, 53 e 119 della Costituzione, anche l'art. 1, comma 154, secondo periodo, della stessa legge n. 662, che stabilisce che "l'operatività di eventuali aumenti erariali per l'accisa sulla benzina per autotrazione é limitata, nei territori delle regioni a statuto ordinario, alla differenza esistente rispetto all'aliquota in atto della citata imposta regionale, ove vigente".

Secondo la ricorrente, questa norma, pur tendendo ad assicurare l'omogeneità del prezzo della benzina sull'intero territorio nazionale, opera in modo che dell'eventuale scelta della regione di aumentare l'imposta in misura inferiore a quella massima non potrebbero beneficiare i cittadini residenti nella regione stessa, bensì lo Stato, che incasserebbe la differenza tra le due aliquote, vanificando così, in contrasto con l'art. 119, nonchè con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, il potere della regione di determinarsi in ordine all'entità dell'aumento.

3.1. - La questione in parte é infondata, in parte é inammissibile.

Il comma 154 dell'art. 1 della legge citata si compone di due distinte disposizioni, di cui la prima stabilisce che la misura massima dell'imposta regionale sulla benzina per autotrazione, prevista dall'art. 17 del d.lgs. 21 dicembre 1990, n. 398, é elevata a lire 50 a litro.

La seconda disposizione -quella impugnata dalla Regione Lombardia- riguarda invece l'accisa sulla benzina per autotrazione, cioé un tributo statale, e regola direttamente "l'operatività di eventuali aumenti erariali" inerenti al tributo stesso. In proposito va osservato che la particolare modalità di aumento di questo tributo non può in alcun senso incidere sulla competenza in materia della regione, la quale mantiene del tutto inalterata la facoltà di determinare autonomamente, entro il limite massimo prefissato per legge, l'entità dell'imposta di propria spettanza.

Tutto ciò vale quindi ad escludere la violazione dell'art. 119 della Costituzione lamentata dalla ricorrente regione, tanto più che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la potestà legislativa in materia tributaria delle regioni ad autonomia ordinaria opera, alla stregua della stessa disposizione della Costituzione, "entro i diversi e particolari confini che le leggi della Repubblica, in conformità ai principi costituzionali, sono legittimate a previamente fissare, configurandosi pertanto come una potestà non di tipo concorrente, ma soltanto come una potestà attuativa" (ex plurimis: sentenze n. 355 del 1998, n. 295 del 1993).

Sussiste invece carenza di interesse della Regione Lombardia in ordine ai motivi di ricorso che si fondano sulla violazione dei parametri costituzionali degli artt. 3 e 53 della Costituzione, giacchè, secondo la stessa prospettazione della ricorrente, la norma impugnata non potrebbe mai incidere direttamente sul potere impositivo della regione o comunque sulla sua sfera di attribuzione.

4. - La Regione Lombardia ha altresì impugnato l'art. 2, commi 205 e 206, della medesima legge n. 662 del 1996.

La regione ricorrente, premesso che il comma 205 riserva al CIPE l'approvazione delle intese istituzionali di programma, anche se concluse da regioni e province autonome, e che il comma 206 attribuisce allo stesso CIPE la competenza a deliberare le modalità di approvazione degli accordi diversi dalle intese istituzionali di programma, nonchè a definire ulteriori tipologie della contrattazione programmata, deduce la violazione dell'art. 118 della Costituzione, in quanto i suddetti commi realizzerebbero un'illegittima interferenza, ponendo vincoli a carico dell'amministrazione regionale, senza definirne forme e modalità. In particolare, il vulnus all'autonomia regionale deriverebbe dal potere del CIPE di disciplinare "ulteriori tipologie della contrattazione programmata" e di approvare intese ed accordi, anche quando dovrebbero riguardare regioni e province autonome, "in quanto organi procedenti".

4.1. - La questione non é fondata.

Preliminarmente occorre precisare che la questione di legittimità costituzionale va estesa anche al comma 206 dell'art. 2 della legge citata, benchè nel dispositivo del ricorso sia indicato soltanto il comma 205 dello stesso articolo, giacchè l'identificazione della norma impugnata deve essere effettuata avendo riguardo al complesso delle argomentazioni svolte nell'intero atto introduttivo, le quali, interpretate secondo gli ordinari criteri ermeneutici (sentenza n. 29 del 1995), dimostrano, nella specie, che la Regione Lombardia ha inteso denunciare entrambe le disposizioni.

Le norme censurate concernono alcuni profili della c.d. programmazione negoziata, che é regolata dai commi 203-214 dell'art. 2 della citata legge n. 662, i quali portano ad ulteriori sviluppi, in riferimento all'attività amministrativa, l'utilizzazione del modello consensualistico sia nei rapporti con i privati, sia quale strumento diretto a realizzare il coordinamento delle competenze ai diversi livelli di governo. La predetta legge ha infatti disciplinato ex novo le precedenti norme in materia di programmazione negoziata, allo scopo di razionalizzare gli interventi che coinvolgono una molteplicità di soggetti pubblici, nel cui ambito l'intesa istituzionale di programma costituisce "l'accordo tra amministrazione centrale, regionale o delle province autonome con cui tali soggetti si impegnano a collaborare sulla base di una ricognizione programmatica delle risorse finanziarie disponibili, dei soggetti interessati e delle procedure amministrative occorrenti, per la realizzazione di un piano pluriennale di interventi d'interesse comune o funzionalmente collegati" (art. 2, comma 203, lett. b della legge n. 662).

Questa previsione legislativa va interpretata anche alla luce delle indicazioni di scopo concernenti le funzioni che il comma 208 del citato art. 2 attribuisce al CIPE, cui appunto spetta, tra l'altro, individuare, "nel rispetto degli indirizzi concordati con l'Unione europea", "le aree (...) interessate da contratti d'area o da patti territoriali, nelle quali sono concesse agevolazioni fiscali dirette ad attrarre investimenti in attività produttive e a favorire lo sviluppo delle stesse attività", in modo da perseguire "la crescita omogenea dell'intero territorio", nonchè individuare "le amministrazioni competenti a svolgere l'attività di istruttoria tecnico-economica dei progetti di investimento e quella di monitoraggio e verifica dell'attuazione dei progetti e dell'attività delle imprese per il periodo di fruizione delle agevolazioni".

Le disposizioni legislative enunciate delineano dunque un quadro funzionale che trova, in fase attuativa, pieno riscontro, oltre che nella prassi applicativa, nelle delibere del CIPE stesso, tra cui, in particolare, quella adottata il 21 marzo 1997 e quella emanata, in conformità allo schema-tipo approvato il 9 ottobre 1997 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, il 16 ottobre 1997, dalle quali appunto si ricava che i soggetti dell'intesa istituzionale di programma sono, in ogni caso, congiuntamente il Governo e le giunte delle regioni e delle province autonome, che, attraverso essa, realizzano una collaborazione diretta ad attuare, nell'ambito delle risorse finanziarie disponibili, un piano pluriennale di interventi di interesse comune, funzionalmente collegati, da porre in essere nel territorio della singola regione e nel quadro della programmazione statale e regionale.

In questo contesto il comma 205 del citato art. 2 non si pone in contrasto con l'art. 118 della Costituzione, neppure sotto il profilo dell'asserita riserva all'amministrazione procedente del potere di conclusione del procedimento. Ed infatti la norma non attribuisce al CIPE il potere di approvare genericamente "intese ed accordi", ma solo quegli accordi che, per gli accennati profili funzionali e strutturali, rientrano nell'ambito della definizione legislativa di "intese istituzionali di programma". Intese, cioé, delle quali il Governo é comunque una delle parti, dirette a coordinare la programmazione degli investimenti e degli interventi pubblici nei casi in cui si realizza una complessa azione congiunta Stato-regioni, anche attraverso l'identificazione dei settori nei quali appare prioritaria l'allocazione dei fondi nazionali e comunitari, così da fare escludere che l'approvazione da parte del CIPE configuri una sorta di anomala forma di controllo sull'attività regionale. Tanto più che l'obbligo di sentire il parere, prima dell'approvazione dell'intesa, della Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e regioni costituisce un'ulteriore dimostrazione che la norma censurata rispetta anche il principio di leale collaborazione, senza comportare alcuna lesione dell'autonomia regionale.

Egualmente non comprime l'autonomia regionale il comma 206 dello stesso art. 2, nello stabilire che il CIPE delibera, con le medesime procedure stabilite dal comma 205 e sentite, inoltre, le Commissioni parlamentari competenti, le modalità di approvazione degli strumenti di programmazione negoziata, nonchè può definire ulteriori tipologie della contrattazione programmata. La ratio di questa norma va infatti individuata, in connessione con le disposizioni legislative precedentemente enunciate, nella esigenza che gli strumenti negoziali ivi previsti siano preordinati alla realizzazione di interventi nelle aree depresse anche in correlazione con l'operatività dei Fondi strutturali europei (cfr. comma 208), e comunque siano in grado di incidere direttamente anche sul regime fiscale statale e regionale, in vista della rapida attuazione delle misure economiche previste, così da assicurare uno sviluppo omogeneo del territorio ed una razionale distribuzione delle risorse.

Tali esigenze postulano evidentemente un'azione unitaria e implicano una complessità di interventi tale da giustificare schemi procedurali e modelli di coordinamento tecnico (ex plurimis: sentenze n. 273 del 1998, n. 393 del 1992, n. 483 del 1991), tanto più perchè questi interventi sono destinati ad inserirsi nel più ampio quadro dei programmi comunitari, spettando allo Stato un ruolo peculiare nell'iter procedimentale di gestione delle azioni di sostegno comunitarie (sentenza n. 93 del 1997). Questa Corte, del resto, ha affermato più volte che l'attuazione di queste esigenze può comportare la spettanza al potere statale di stabilire la disciplina del procedimento (sentenza n. 170 del 1997), o di definire la tipologia degli interventi programmatici destinati ad operare sull'intero territorio nazionale, trattandosi di "normativa di principio, che non può trovare ostacolo nella potestà di programmazione territoriale attribuita alle Regioni, in quanto fissa schemi e modelli, che consentono a detta potestà di esplicarsi in modo unitario ed omogeneo" (sentenza n. 393 del 1992).

Considerando, da un lato, la rilevanza nazionale delle finalità che la disposizione impugnata intende perseguire e, dall'altro lato, che la determinazione di schemi o tipi uniformi di intervento sul territorio può agevolare il conseguimento degli obiettivi della contrattazione programmata, può bene essere affidata alla regolamentazione statale l'adozione di misure di coordinamento tecnico, che non coinvolgono scelte d'ordine politico-amministrativo spettanti alle regioni (sentenza n. 483 del 1991) e che rispettano altresì, per le garanzie procedimentali previste, il principio di legalità sostanziale. Non sono pertanto fondati i prospettati profili di violazione della sfera di autonomia della Regione ricorrente.

5. - La Regione Lombardia ha infine eccepito l'illegittimità dell'art. 3, comma 214, della legge n. 662 del 1996, il quale stabilisce che "per gli enti soggetti all'obbligo di tenere le disponibilità liquide nelle contabilità speciali o in conti correnti con il Tesoro, per l'anno 1997 i pagamenti del bilancio dello Stato sono accreditati sui conti correnti aperti presso la tesoreria dello Stato solo ad avvenuto accertamento che le disponibilità sui conti medesimi si sono ridotte ad un valore non superiore al 20 per cento delle disponibilità rilevate al 1° gennaio 1997".

Secondo la ricorrente, questa norma lederebbe la propria autonomia finanziaria e contabile, in quanto la priverebbe, in contrasto con l'art. 119 della Costituzione, della disponibilità delle somme accreditate o da accreditare, configurando altresì un'illegittima forma di compressione della propria potestà programmatoria, legislativa ed amministrativa, con conseguente lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. D'altra parte, la circostanza che la norma abbia un'efficacia temporale limitata all'anno 1997 non può escludere, secondo la ricorrente, il proprio interesse ad ottenere "una decisione che possa assumere valore di principio di modo che in futuro non possa essere nuovamente lesa la sfera dell'autonomia finanziaria della Regione".

5.1. - La questione non é fondata.

La norma impugnata si inserisce nel c.d. sistema di tesoreria unica, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non vulnera l'autonomia finanziaria delle regioni, in quanto é diretto a garantire il controllo della liquidità di cassa ed a disciplinare i flussi finanziari (sentenza n. 412 del 1993). L'autonomia finanziaria delle regioni postula infatti che esse abbiano la effettiva disponibilità delle risorse loro attribuite ed il potere di manovra dei mezzi finanziari (sentenze n. 381 del 1996, n. 293 del 1995).

D'altra parte, la disposizione censurata si inserisce nel quadro della complessiva manovra di finanza pubblica per l'anno 1997, caratterizzata dalla previsione di ulteriori misure, dirette appunto al risanamento dei conti pubblici ed al contenimento della spesa pubblica (art. 8 del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1997, n. 30), le quali richiedevano l'impegno solidale delle regioni e che questa Corte ha conseguentemente escluso essere lesive dell'autonomia finanziaria delle regioni stesse (sentenza n. 421 del 1998).

Nel quadro di tali principi la norma impugnata, per di più temporalmente limitata, non può giudicarsi lesiva dell'autonomia regionale nell'ambito finanziario, legislativo e programmatorio, e neppure appare suscettibile di incidere sul buon andamento dell'amministrazione della Regione ricorrente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.1, commi 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64 e 65 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 39, 97, 115, 117, 118, 119 e 123 della Costituzione ed agli artt. 48 e 51 dello statuto regionale, nonchè dalla Regione Lombardia, limitatamente ai commi 57, 58 e 59, in riferimento agli artt. 97, 117, 118, 119 della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe e dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 65 della stessa legge, sollevata dalla Regione Veneto in riferimento all'art. 3 della Costituzione con il medesimo ricorso;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 154, della predetta legge n. 662 del 1996, sollevata dalla Regione Lombardia in riferimento all'art. 119 della Costituzione e dichiara inammissibile la medesima questione di legittimità costituzionale sollevata dalla stessa Regione in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione con il ricorso indicato in epigrafe;

c) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 205 e 206, nonchè dell'art. 3, comma 214, della predetta legge n. 662 del 1996, sollevate dalla Regione Lombardia in riferimento, rispettivamente, all'art. 118 ed agli artt. 97 e 119 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.

Renato GRANATA , Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in cancelleria il 18 maggio 1999.