Sentenza n. 170/99

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SENTENZA N. 170

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI    

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 244, primo e secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 15 luglio 1997 dal Tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra F. W. e P. S. ed altri, iscritta al n. 419 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 1998.

  Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1999 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto in fatto

  Nel corso di un giudizio di disconoscimento della paternità, il Tribunale di Venezia, con ordinanza emessa il 15 luglio 1997, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 29, primo comma, e 30, terzo e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 244, primo e secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dall’art. 235, numero 2), del medesimo codice, che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità decorra dal giorno in cui ciascuno dei due coniugi sia venuto a conoscenza dell’impotenza di generare del marito.

  Premette, in fatto, il Tribunale rimettente che l’attore, dopo aver appreso, sulla base di esami clinici, la propria incapacità di procreare, ha proposto azione di disconoscimento della paternità di entrambi i figli minori, nati in costanza di matrimonio, e che nel conseguente giudizio la convenuta ha preliminarmente eccepito la decadenza dall’azione, per il mancato rispetto del termine annuale dalla nascita dei figli, stabilito dall’art. 244 del codice civile.

  Il giudice a quo ricorda anzitutto che la Corte, con sentenza n. 134 del 1985, ebbe già a dichiarare la illegittimità costituzionale del medesimo art. 244 cod. civ., con riferimento all’ipotesi di adulterio di cui al numero 3) dell’art. 235, nella parte in cui non dispone che il termine per proporre l’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie; in tale occasione la Corte, benchè richiesta di estendere tale declaratoria anche alla previsione dell’impotenza, ritenne tuttavia di non potersi pronunciare oltre i limiti della rilevanza, attesa la non totale identità dei casi.

  La specifica questione della decorrenza del termine dell’azione di disconoscimento basata sull’impotenza fu invece esaminata dalla Corte - come precisa il rimettente - con la sentenza n. 249 del 1974, che ne dichiarò l’infondatezza, in quanto la norma, nel testo anteriore alla riforma del diritto di famiglia, era inserita in un sistema nel quale assumeva particolare rilievo il favor legitimitatis.

  Osserva tuttavia il rimettente che gli elementi posti a sostegno di quest’ultima pronuncia sono ormai mutati, poichè sia sotto il profilo normativo che nella coscienza collettiva si é progressivamente attribuita prevalenza al favor veritatis rispetto al favor legitimitatis, e contemporaneamente le cognizioni scientifiche acquisite nel settore delle indagini ematologiche e genetiche hanno determinato l’idoneità probatoria di tali mezzi a fondare la dimostrazione del rapporto di filiazione.

  Ad avviso del giudice a quo, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con gli artt. 24, primo comma, e 3, primo comma, della Costituzione, in quanto irragionevolmente non attribuisce ad entrambi i coniugi il diritto di provare la impotenza di generare del marito, anche successivamente al decorso rispettivamente di un anno per il padre e di sei mesi per la madre dalla nascita del figlio legittimo ed entro il termine, rispettivamente, di un anno per il padre e di sei mesi per la madre dal momento in cui essi siano venuti a conoscenza della predetta impotenza; la medesima norma violerebbe, inoltre, gli artt. 2, 3, primo comma, 24, primo comma, 29, primo comma, e 30, terzo e quarto comma, della Costituzione, poichè impedendo ad entrambi i coniugi, in modo irragionevole, di far valere l’impotenza di generare del marito, contrasta con il loro diritto inviolabile all’accertamento giudiziale del rapporto biologico di paternità nei confronti del figlio legittimo.

  Il rimettente richiama poi le argomentazioni che indussero la Corte a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 244 cod. civ. - per l’accertata lesione del diritto di azione del marito, ove non fosse al medesimo consentito di promuovere il giudizio entro l’anno dalla scoperta dell’adulterio - per applicare i medesimi principi alla ipotesi della incapacità di generare. Osserva, infatti, il giudice a quo che la conoscenza della impotenza di generare all’epoca del concepimento potrebbe acquisirsi anche successivamente al termine di un anno dalla nascita dei figli, con la conseguente impossibilità per il marito di esperire l’azione di disconoscimento di cui all’art. 235, numero 2), cod. civ.; nè tale azione potrebbe essere surrogata da quella di cui al numero 3) del medesimo art. 235, poichè l’attribuzione in via autonoma di una determinata azione deve necessariamente essere correlata alla possibilità del suo concreto esercizio ed inoltre per la considerazione che il termine di esercizio dell’azione di disconoscimento per adulterio potrebbe essere già decorso al momento della scoperta dell’impotenza.

  Occorre al riguardo osservare - continua il rimettente - che l’adulterio non esclude di per sè la paternità del marito, sì che può sussistere un interesse da parte di entrambi i coniugi alla proposizione dell’azione di disconoscimento fondata sull’impotenza.

  La sussistenza del predetto interesse anche della moglie a proporre l’azione in esame induce il giudice a quo a chiedere l’estensione della eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale, sulla base dei medesimi parametri costituzionali, al primo comma dell’art. 244 cod. civ., stabilendo che il termine assegnato alla moglie per il promovimento dell’azione decorra, in caso questa sia fondata sull’art. 235, numero 2), cod. civ., dalla data in cui essa é venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del coniuge.

Considerato in diritto

  1. - Il Tribunale di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 244, primo e secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nel caso di impotenza di generare, decorra per il marito dal giorno in cui il medesimo sia venuto a conoscenza della propria incapacità di procreare; il giudice a quo chiede inoltre che la Corte estenda la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale al primo comma della medesima norma, nella parte in cui non prevede che il termine assegnato alla moglie decorra dalla data in cui essa sia venuta a conoscenza della impotenza di generare del marito.

  Secondo la prospettazione del rimettente, la norma in esame sarebbe irragionevole e lesiva del diritto di azione dei coniugi, ai quali non é attribuito il diritto di provare l’impotenza del marito, anche successivamente al decorso rispettivamente di un anno per il padre e di sei mesi per la madre dalla nascita del figlio legittimo ed entro il termine, rispettivamente, di un anno per il padre e di sei mesi per la madre dal momento in cui essi ne siano venuti a conoscenza; la citata norma contrasterebbe inoltre con il diritto inviolabile dei medesimi coniugi all’accertamento giudiziale del rapporto biologico di paternità nei confronti del figlio legittimo.

  2. - La norma in esame é stata più volte sottoposta a scrutinio di legittimità costituzionale da questa Corte, che ha avuto modo di pronunciarsi in relazione ad ognuna delle diverse formulazioni della disposizione impugnata che si sono succedute nel tempo.

  Anteriormente alla riforma del diritto di famiglia, la Corte, con sentenza n. 249 del 1974, dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 244 cod. civ., la quale era stata prospettata, in termini analoghi a quelli dell’odierna ordinanza, con riferimento all’ipotesi di impotenza di generare; il rimettente dell’epoca lamentava infatti la violazione dell’art. 24 della Costituzione, poichè la norma non consentiva al marito di esercitare l’azione, qualora egli fosse venuto a conoscenza del proprio stato di impotenza in epoca successiva al decorso del termine, allora trimestrale, dalla nascita del figlio.

La Corte affermò che la brevità del termine e la decorrenza di esso da un fatto certo ed obiettivo, quale é la nascita, rispondevano all’esigenza della certezza giuridica dei rapporti familiari, in funzione della quale assumeva particolare rilievo il favor legitimitatis; al contrario, consentire la decorrenza del termine da un evento difficilmente controllabile sarebbe equivalso a vanificare il termine stesso e a rendere possibile l’esperimento dell’azione in qualsiasi momento.

   La questione della decorrenza del termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento fu nuovamente affrontata da questa Corte e dichiarata non fondata con la sentenza n. 64 del 1982, in relazione all’ipotesi dell’adulterio e sotto il profilo della disparità di trattamento tra il padre e il figlio. La infondatezza della questione fu pronunciata essenzialmente in base alla considerazione del perdurante rilievo del favor legitimitatis, che aveva indotto il legislatore a differenziare, quanto alla decorrenza del termine, il trattamento del padre rispetto a quello del figlio, facendo decorrere per quest’ultimo l’azione dal compimento della maggiore età o dal momento in cui il medesimo figlio fosse venuto successivamente a conoscenza dei fatti. Pur rilevandosi nella intervenuta riforma del diritto di famiglia uno spostamento d’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis, si ritenne tuttavia che il legislatore, lasciando il termine di decadenza dell’azione del padre correlato alla conoscenza della nascita, avesse voluto porre al favor veritatis un limite giustificato dai pericoli e dagli inconvenienti di uno sconvolgimento di rapporti familiari protrattisi per lungo tempo, senza accordare ad esso il valore di un principio assoluto.

  Con la sentenza n. 134 del 1985 si é invece pervenuti alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 244 cod. civ., nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dal numero 3) dell’art. 235, che il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie; l’iter argomentativo di tale diversa pronuncia si fonda - oltre che su considerazioni di ordine generale relative alla evoluzione della coscienza collettiva, nel senso della accordata preminenza del fatto della procreazione sulla qualificazione giuridica della filiazione e sulla constatazione della finalità, voluta dal legislatore del 1975 e ulteriormente da quello del 1983, di favorire il perseguimento del valore verità - sulla constatazione, in particolare, della irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento, nel caso di scoperta dell’adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio, poichè, in tale ipotesi, l’azione sarebbe inutiliter data, con patente violazione del diritto di agire in giudizio.

  3. - La questione prospettata dall’odierno rimettente é fondata.

  L’art. 235, numero 2), del codice civile, nel consentire l’azione di disconoscimento se nel periodo compreso fra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita del figlio il marito era affetto da impotenza, anche solo di generare, detta una disciplina comune alle diverse forme nelle quali può manifestarsi l’impotenza, la cui distinzione assume invece importanza fondamentale ai fini della verifica di legittimità costituzionale della norma impugnata. Ed invero, in relazione all’impotentia coeundi, immediatamente conoscibile, appare razionale la scelta del legislatore di imporre il termine di un anno dalla nascita del figlio per la proposizione dell’azione di disconoscimento, non essendo ipotizzabile l’ignoranza di tale forma di impotenza.

L’impotenza di generare rappresenta, al contrario, uno stato fisico che può rimanere per lungo tempo ignoto, poichè in una elevata percentuale di casi consiste in un’affezione, che può essere priva di sintomatologia e di manifestazioni esteriori; inoltre tale stato é diagnosticabile solo attraverso esami clinici cui non si ricorre usualmente.

Dei diversi parametri costituzionali invocati dal rimettente risulta palese la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

  Per un verso rispetto a tale forma di impotenza la norma appare irragionevole, in quanto preclude l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, decorso l’anno dalla nascita del figlio, se il marito non sia stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima e precisamente della propria incapacità di generare.

  Per altro verso é irrimediabilmente leso il diritto di azione quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso; e ciò soprattutto in ipotesi, come quella di specie, in cui é dato di comune esperienza che l’elemento costitutivo dell’azione, rappresentato dall’impotenza di generare, può rimanere a lungo e a volte anche indefinitamente ignoto.

  Questa Corte, nella richiamata sentenza n. 134 del 1985, ebbe già ad affermare, in relazione alla decorrenza del termine nell’ipotesi di adulterio di cui all’art. 235, numero 3), cod. civ., la oggettiva irrazionalità della disposizione impugnata, che impedisce al marito di proporre il disconoscimento dopo essere venuto a conoscenza dell’avvenimento da cui nasce il suo diritto di azione; detta norma si ritenne inoltre inconciliabile con il principio in base al quale "la garanzia di cui all’art. 24 della Costituzione deve estendersi alla conoscibilità del momento di decorrenza del termine stesso al fine di assicurarne all’interessato l’utilizzazione nella sua interezza". Le medesime considerazioni valgono in relazione alla questione oggi in esame, nella quale ancora una volta viene in rilievo l’incolpevole ignoranza di un fatto costitutivo dell’azione; determinare in tale ipotesi la decorrenza del termine dall’evento nascita può in concreto vanificare il diritto di azione, il che contrasta insanabilmente con i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti.

  4. - Nè potrebbe obiettarsi che il termine per l’esercizio dell’azione, essendo subordinato alla conoscenza del fatto costitutivo (il che potrebbe avvenire anche dopo molti anni dalla nascita del figlio), può esporre il medesimo alla perdita del proprio status, a distanza di tempo.

  Il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l'affermazione della verità naturale; anteriormente alla riforma, infatti, la condizione deteriore del figlio naturale, significativamente denominato "illegittimo", che non poteva nemmeno ottenere il riconoscimento qualora uno dei genitori fosse coniugato, costituiva, unitamente alla riprovazione sociale, una forte remora all’accertamento della verità biologica della procreazione contrastante con quella legale.

L’attribuzione di pari diritti ai figli naturali rispetto a quelli legittimi, ad opera del riformato art. 261 del codice civile, determinando il venir meno della posizione di privilegio di questi ultimi, ha consentito l’acquisizione di status conformi alla realtà della procreazione, senza più tema di gravi conseguenze pregiudizievoli legate alla condizione di sfavore della filiazione naturale. Contemporaneamente le ipotesi di accertamento della verità biologica sono state ampliate, sia mediante l’eliminazione del divieto di riconoscimento dei figli "adulterini", sia attraverso l’estensione della categoria dei soggetti legittimati all’esperimento delle diverse azioni di stato, come si é verificato nell’ipotesi dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, consentita anche all’autore in mala fede del falso riconoscimento, o in quella del disconoscimento di paternità, cui sono oggi legittimati anche la madre, il figlio maggiorenne, il figlio che abbia compiuto i sedici anni e, con la modifica introdotta dall’art. 81 della legge n. 184 del 1983 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), il pubblico ministero quando si tratta di minori di età inferiore.

Le disposizioni normative che consentono di verificare la conformità dello status alla realtà della procreazione hanno quindi comportato l’affermazione del principio della tendenziale corrispondenza tra certezza formale e verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini.

  Nella crescente considerazione del favor veritatis non si é ravvisata una ragione di conflitto con il favor minoris, poichè anzi la verità biologica della procreazione si é ritenuta una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, riconoscendosi espressamente l’esigenza di garantire al figlio il diritto alla propria identità e precisamente all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze nn. 216 e 112 del 1997), rispetto al quale può recedere l’intangibilità dello status, allorchè esso risulti privato del fondamento della presunta corrispondenza alla verità biologica e quando risulti tempestivamente azionato il diritto.

Certamente il perseguimento del valore verità determina il sacrificio della posizione familiare, affettiva e socio-economica acquisita medio tempore dal figlio; tuttavia, la sofferenza del figlio legittimo consapevole dell’apparenza solo formale del proprio status, contro la quale nessuno dei soggetti legittimati abbia reagito, non é meno grave e profonda rispetto a quella di chi sia posto innanzi alla verità della procreazione.

  5. - La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, all'art. 244, primo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che anche per la madre il termine per l'esercizio dell'azione di disconoscimento della paternità a causa dell'impotenza solo di generare del marito decorra dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell'anzidetta impotenza.

Mentre si giustifica la scelta del legislatore di far decorrere il termine semestrale dalla nascita del figlio nelle ipotesi previste dai numeri 1) e 3) dell’art. 235 del codice civile, in considerazione della ovvia conoscenza, da parte della medesima moglie, delle circostanze della procreazione, non altrettanto può dirsi nel caso di impotenza di generare del marito; per quanto già affermato riguardo alle caratteristiche di tale forma di impotenza, deve riconoscersi che anche la moglie può ignorare l’incapacità di procreare del marito, sì che in questo caso le sarebbe precluso l’esercizio dell’azione, in quanto la sola consapevolezza dell’adulterio non é elemento sufficiente ad escludere la paternità del marito.

Una volta riconosciuto a favore della moglie un interesse autonomo all’esercizio dell’azione in esame per tutte le ipotesi contenute nell’art. 235, ciascuna delle quali, pur presupponendo l’adulterio, é tuttavia caratterizzata da una propria causa petendi, costituisce evidente lesione del diritto di azione correlare la decorrenza del termine, nell’ipotesi prevista dal numero 2) dell’art. 235, alla nascita del figlio, anzichè alla conoscenza della impotenza del marito. Occorre precisare ancora che a differenza della mancata coabitazione dei coniugi, dell’adulterio e del celamento della gravidanza e della nascita - elementi costitutivi dell’azione nei casi rispettivamente previsti dai numeri 1) e 3) dell’art.235 -, di cui la moglie ha sempre piena, diretta e completa cognizione, l’impotenza di generare del marito é invece circostanza che può rimanere per lungo tempo incognita, onde in tal caso il termine decorrerebbe nell’ignoranza, da parte del titolare dell’azione, di un elemento costitutivo di essa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 244, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal numero 2) dell’art. 235 dello stesso codice, decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare;

  dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 244, primo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare di cui al numero 2) dell’art. 235 dello stesso codice, decorra per la moglie dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.

Renato GRANATA , Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 14 maggio 1999.