Sentenza n. 169/99

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SENTENZA N. 169

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi per conflitto di attribuzione in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, datato 27 settembre 1997, recante "Modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici", nonchè in relazione alle determinazioni n. 3242 e n. 3243 del 20 ottobre 1997 della Commissione di controllo sugli atti della Regione Veneto, con le quali sono state annullate le delibere della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997, recanti "Direttiva CEE n. 409/79. Art. 9: applicazione deroghe (periodo 11 ottobre - 31 dicembre 1997)", promossi con ricorsi delle Regioni Toscana, Veneto, Emilia- Romagna, Umbria e Lombardia, notificati il 28 novembre, il 22 ed il 29 dicembre 1997, depositati in Cancelleria il 4 e il 29 dicembre 1997, l’8, il 9 ed il 13 gennaio 1998, rispettivamente iscritti ai nn. 56 e 61 del registro conflitti 1997 ed ai nn. 2, 3 e 5 del registro conflitti 1998.

  Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 1998 il Giudice relatore Massimo Vari;

  uditi gli avvocati Vito Vacchi per la Regione Toscana, Ivone Cacciavillani e Luigi Manzi per la Regione Veneto, Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia- Romagna, Maurizio Pedetta per la Regione Umbria e Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia, nonchè l’avvocato dello Stato Pier Giorgio Ferri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso in data 24 novembre 1997 (Reg. confl. n. 56 del 1997), la Regione Toscana ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997, recante "Modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici".

La Regione chiede che la Corte dichiari non spettare allo Stato il potere di disciplinare dette modalità e che, quindi, annulli il predetto decreto, in quanto invasivo delle competenze ad essa costituzionalmente garantite dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 99 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) e all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143 (Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell’Amministrazione centrale).

1.1.— La ricorrente – premesso che la legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), non contiene una specifica disciplina dei casi e delle procedure di deroga di cui all'art. 9 della direttiva comunitaria - esclude, anzitutto, che il decreto impugnato trovi fondamento nell’art. 18, comma 3, della legge stessa; disposizione, questa, da reputare finalizzata alla stabile variazione dell’elenco delle specie cacciabili sul territorio nazionale, mentre la deroga avrebbe, quale espressione di un potere particolare, specifico e contingente, il diverso scopo, come affermato anche dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di giustizia 7 marzo 1996, in causa 118/1994), di sospendere temporaneamente, ed alle condizioni stabilite, il regime di protezione disposto a favore della fauna selvatica.

a giustificare l’adozione del censurato provvedimento varrebbe il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996: in primo luogo, la pronuncia si riferirebbe al potere statale (non contestato) di variare gli elenchi delle specie cacciabili, che é diverso da quello avente ad oggetto la disciplina delle deroghe; in secondo luogo, la pronunzia sarebbe stata resa prima del decreto legislativo n. 143 del 1997, che ha ampliato le competenze regionali in materia di caccia (art. 1), mantenendo al Ministro per le politiche agricole compiti di disciplina generale e di coordinamento in materia di specie cacciabili ai sensi dell'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 (art. 2, comma 2).

Rilevato che il decreto impugnato non può reputarsi rispettoso delle competenze regionali neppure in nome degli interessi unitari, richiamati nelle sue premesse, atteso che la disciplina delle specifiche deroghe rientra "nell'interesse differenziato di ciascuna regione", si osserva che, in ogni caso, lo Stato, anche alla luce dell'art. 9, comma 6, della legge 9 marzo 1989, n. 86 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), avrebbe dovuto, in ipotesi comunque contestata, ricorrere all’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento, soggetta all’osservanza dei necessari requisiti di sostanza e di forma, tali, tra l'altro, da esigere la delibera del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera d), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri) e dell'art. 9, comma 6, della legge 9 marzo 1989, n. 86, nonchè la previa intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni, ai sensi dell’art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli enti locali per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa).

Nel contestare l'affermazione contenuta nel provvedimento impugnato, secondo cui le ipotesi di deroga contemplate alle lettere a) e b), del paragrafo 1, dell'art. 9 della direttiva sarebbero già state disciplinate dagli artt. 2, comma 3, e 19 della legge n. 157 del 1992, la Regione Toscana lamenta, inoltre, la violazione dell’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977 e degli artt. 4 e 9, terzo comma, della legge n. 86 del 1989, che avrebbero richiesto l’attuazione della direttiva comunitaria eventualmente mediante legge comunitaria o altra legge, essendo consentito il ricorso al regolamento solo se così dispone la legge comunitaria per le materie non coperte da riserva di legge. A tal riguardo, nell’osservare che il vizio concernente il non corretto utilizzo della fonte del potere regolamentare si risolve in violazione dell'autonomia regionale, viene, al tempo stesso, reputata lesiva delle attribuzioni regionali la procedura di "intesa con i Ministri dell’ambiente e per le politiche agricole" prevista dall'art. 2 del decreto impugnato: l’introduzione di tale strumento costituirebbe, infatti, un modo per attribuire allo Stato una potestà di codecisione su funzioni di competenza delle Regioni, dando, quindi, luogo ad un contrasto con il decreto legislativo n. 143 del 1997 che ha attribuito alle Regioni tutte le funzioni legislative e amministrative in materia di caccia; in tal guisa sarebbero, altresì, imposti alle Regioni illegittimi "moduli procedimentali che condizionano in radice l’esercizio delle riconosciute attribuzioni (cfr. sentenza n. 483 del 1991)".

Nel caso di specie, la dedotta lesione delle competenze regionali sarebbe particolarmente evidente perchè la Regione Toscana, con legge regionale n. 70 del 21 agosto 1997 (sulla quale il commissario del Governo non ha sollevato rilievi), ha già provveduto a disciplinare l’esercizio delle deroghe stesse.

1.2.— Ugualmente lesivi dell’autonomia regionale in materia di caccia sarebbero:

— l’art. 3 del provvedimento, là dove estende, alla cattura per la cessione a fini di richiamo, la menzionata disciplina relativa alle condizioni ed alle modalità di applicazione delle deroghe, modificando con un atto dell'Esecutivo le disposizioni di legge statale e regionali;

— l’art. 4 che individua nell’Istituto nazionale per la fauna selvatica l'unico organo abilitato a dichiarare che le condizioni stabilite dai precedenti artt. 2 e 3 sono realizzate senza considerare che si tratta, invece, di un controllo che deve essere disciplinato dalle Regioni.

2.— Anche la Regione Veneto ha sollevato conflitto di attribuzione (Reg. confl. n. 61 del 1997), oltre che in relazione al menzionato decreto presidenziale, in riferimento alle due determinazioni (n. 3242 e n. 3243 del 10 ottobre 1997), con cui la Commissione di controllo ha annullato le delibere della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997, aventi ad oggetto l’applicazione delle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE, per il periodo 11 ottobre - 31 dicembre 1997.

La ricorrente rileva che le determinazioni della Commissione di controllo negano in radice la sussistenza in capo all’ente regionale di ogni attribuzione in materia, mentre il decreto del Presidente del Consiglio ammette e riconosce espressamente l’esistenza di un potere spettante "primariamente" alle Regioni, sia pure subordinatamente alla previa intesa con i Ministri dell’ambiente e per le politiche agricole. Ciò premesso, viene denunciata la violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione e della normativa che ne costituisce il completamento (in particolare, gli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616 del 1977 e l’art. 9 della legge n. 86 del 1989), sostenendo che spetta in via esclusiva alla Regione, e non allo Stato, il potere di adottare i provvedimenti di deroga. Si osserva che - pur avendo la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996 ravvisato nell’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 la disposizione attributiva allo Stato di una competenza esclusiva per l’adozione delle deroghe - in effetti, la disposizione stessa non conterrebbe alcun espresso riferimento all'art. 9 della direttiva CEE. Poichè, quindi, la relativa procedura sarebbe stata solo formalmente recepita (art. 1 della legge n. 157 del 1992), ma non espressamente disciplinata, il soggetto titolare del relativo potere andrebbe individuato sulla base delle norme generali che disciplinano il riparto di attribuzioni tra Stato e Regione, in sede di attuazione della normativa comunitaria e, cioé, in particolare, dell’art. 9, commi 2 e 3, della legge n. 86 del 1989, come pure dell’art. 1, comma 3, della legge n. 157 del 1992. Comunque, al di là dei profili sistematici concernenti il riparto interno delle attribuzioni legislative, il procedimento volto alla concreta individuazione delle ipotesi di deroga avrebbe, secondo la Regione Veneto, "carattere amministrativo e non normativo", sicchè la competenza, alla stregua del disposto degli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616 del 1977, non potrebbe non essere regionale.

la sfera di attribuzioni spettanti alle Regioni, come sopra individuata, potrebbe essere posta in discussione dal richiamo all’interesse unitario, che non può "giustificare il sovvertimento del riparto interno di competenze tra soggetti dotati di autonomia costituzionalmente riconosciuta". Inoltre, contrariamente all’orientamento espresso dalla Corte costituzionale, detto interesse si porrebbe non a livello nazionale, bensì comunitario, con la ulteriore conseguenza che la sede "del coordinamento e del controllo" andrebbe individuata negli organi della Comunità europea.

Comunque, anche a non contestare l’esistenza di un interesse unitario, la sua salvaguardia non legittimerebbe lo Stato ad interferire indiscriminatamente nella sfera delle attribuzioni istituzionalmente spettanti alle Regioni, sostituendosi alle stesse imponendo, attraverso l’intesa, forme di gestione congiunta delle funzioni di loro esclusiva competenza.

La legislazione vigente - segnatamente l’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977 e l’art. 9 della legge n. 86 del 1989 - consentirebbe allo Stato soltanto il ricorso agli "strumenti di coordinamento e controllo (o di supplenza)", tra i quali certamente non rientra l’intesa prevista dal decreto 27 settembre 1997; intesa che potrebbe essere imposta solo da una fonte di rango legislativo.

Il ricorso, nel rilevare, altresì, che l’art. 4 della legge n. 86 del 1989 consente l’attuazione di direttive comunitarie mediante regolamento, osserva come, tuttavia, a tal fine, sia indispensabile che così sia previsto nella stessa legge comunitaria oppure in altra fonte di rango legislativo; fonte che non può essere ravvisata, nella specie, nell'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992.

A voler, inoltre, configurare il decreto impugnato come atto di indirizzo e coordinamento, esso sarebbe comunque illegittimo, quantomeno per essere stata omessa la consultazione della Conferenza permanente Stato- Regioni, secondo quanto prescritto dall’art. 12, comma 5, della legge n. 400 del 1988.

3.— Avverso il citato decreto ha sollevato conflitto, altresì, la Regione Emilia-Romagna (Reg. confl. n. 2 del 1998), chiedendone l'annullamento in toto, "e segnatamente nelle disposizioni di cui agli artt. 2, 3 e 4", in quanto invasive delle competenze costituzionalmente ad essa garantite, all’uopo deducendo il contrasto del provvedimento impugnato con gli artt. 117, primo comma, 118, primo comma, e 125, primo comma, della Costituzione; con gli artt. 4 e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86; con gli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616 del 1972; con l’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992; con gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 2, del decreto legislativo n. 143 del 1997; con l’art. 8 della legge n. 59 del 1997; ed infine con i principi e le regole costituzionali attinenti ai rapporti fra Stato e Regioni, tra cui, in particolare, i principi di legalità e di leale collaborazione.

3.1.— Rappresenta, anzitutto, il ricorso che la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 7 marzo 1996 (in causa 118/1994) — nell’affermare che il sistema italiano costituisce in tema di deroghe non una attuazione, bensì una violazione della direttiva — non solo non avrebbe contestato, ma avrebbe indirettamente confermato la legittimità della competenza regionale in materia. La detta pronunzia avrebbe rilevato, invece, l'illegittimità della legge statale n. 157 del 1992, per avere, da un lato, operato un non consentito ampliamento delle specie cacciabili e per non avere, dall'altro, espressamente vincolato le Regioni a conformarsi all'art. 9 della direttiva. In quello stesso periodo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 272 del 1996, sarebbe venuta ad assimilare le deroghe di cui al predetto art. 9 "all'estensione delle specie cacciabili, da parte della legislazione nazionale, rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria"; assimilazione che, ammesso che si possa giustificare quale interpretazione del sistema della legge n. 157 del 1992, renderebbe tale legge "ancor più contrastante con il sistema della direttiva comunitaria".

La Regione, nel rilevare che, per conformarsi alla menzionata sentenza della Corte di giustizia, fu emanato il d.P.R. (recte: d.P.C.m.) 21 marzo 1997, con il quale l'elenco delle specie cacciabili, di cui all'art. 18 della legge n. 157 del 1992, fu adeguato a quello previsto dalla direttiva comunitaria, ricorda che, a seguito di ciò, poteva finalmente prendere vita il meccanismo delle deroghe vere e proprie, ovviamente nel rispetto dell'art. 9; sicchè anche la ricorrente, con legge 25 agosto 1997, n. 30, stabilì una deroga al divieto di caccia di alcune specie. Nell'osservare, poi, che la nozione di deroga si riferisce ad uno strumento avente caratteristiche antitetiche ad "un regime normativo generale" — come conforta il parere, emesso dalla Commissione CE il 7 agosto 1997, con il quale sono state ritenute non conformi al regime di divieto, salvo deroga, l’art. 4, comma 4, e l’art. 5 della legge n. 157 del 1992 — la Regione Emilia-Romagna nega che il decreto impugnato possa trarre fondamento dall'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992, concernendo quest'ultima disposizione soltanto un meccanismo di rapido recepimento delle variazioni degli elenchi delle specie cacciabili, intervenute a livello comunitario o internazionale.

Il decreto stesso non potrebbe essere giustificato nemmeno appellandosi all’interesse nazionale, dal momento che alla cura del medesimo lo Stato deve provvedere attraverso gli strumenti apprestati dall’ordinamento, e non con atti extra ordinem. Secondo il ricorso l’atto non potrebbe giustificarsi neppure con il richiamo alla necessità di adeguarsi al predetto parere della Commissione, giacchè ciò deve avvenire seguendo le procedure previste dalla legge n. 86 del 1989; e neppure con riferimento alla funzione di indirizzo e di coordinamento, mancando la minima base normativa, non essendo stata espletata la procedura di intesa di cui all’art. 8 della legge n. 59 del 1997 e non essendo consentito limitare le competenze regionali mediante strumenti di cogestione e di controllo non previsti da alcuna norma, così come vorrebbero, invece, gli artt. 2, 3 e 4 del provvedimento impugnato.

La totale carenza di fondamento giuridico colpirebbe anche quella parte del decreto presidenziale che, in forma impropria ed arbitraria, recepisce letteralmente le disposizioni di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE, peraltro già operanti nel nostro ordinamento, risultando esse sufficientemente dettagliate ed essendo scaduti i termini per il recepimento, come espressamente rilevato in argomento dalla stessa Corte di giustizia, nella già citata sentenza 7 marzo 1996 (punto 19).

Ferma l’applicabilità diretta dell’art. 9 della direttiva (e comunque la facoltà delle Regioni di darvi esse stesse specifica attuazione), la ricorrente deduce la lesività dell'intero provvedimento ed in particolare dei poteri statali di cui agli artt. 2, 3 e 4 del decreto stesso, segnatamente con riguardo alla prevista procedura di intesa tra le Regioni ed i Ministri dell’ambiente e per le politiche agricole, che realizzerebbe un illegittimo "procedimento di codecisione", comportante una sovrapposizione dello Stato in scelte necessariamente puntuali e specifiche, correlate alle condizioni locali, nonchè alla prevista riserva all’Istituto nazionale per la fauna selvatica del potere di dichiarare che le condizioni stabilite ai sensi degli artt. 2 e 3 del d.P.C.m. sono realizzate.

4.— Contro il menzionato decreto ha proposto ricorso anche la Regione Umbria (Reg. confl. n. 3 del 1998), la quale, nel ricordare di aver già adottato una disciplina delle deroghe ex art. 9 della già citata direttiva comunitaria, con legge attualmente impugnata dal Governo innanzi alla Corte, deduce che la relativa potestà rientra tra le competenze regionali, alla luce di quanto disposto, in tema di caccia, dall’art. 117 della Costituzione, dall’art. 1, lettera o), del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e dall’art. 99 del d.P.R. n. 616 del 1977 che, in attuazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, operano una attribuzione totale delle funzioni in materia di caccia alle Regioni; nonchè dall’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977 e dall’art. 9 della legge n. 86 del 1989, in tema di competenze regionali attuative dell’ordinamento comunitario; dall’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 relativo alla disciplina degli elenchi delle specie cacciabili; dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, avuto riguardo, in particolare, agli artt. 1 e 4, che prevedono il conferimento alla Regione di tutte le funzioni riguardanti la promozione e lo sviluppo delle relative comunità, salvo quelle attribuite espressamente allo Stato, nell’osservanza del principio di sussidiarietà, nonchè all'art. 8 che contempla la nuova disciplina dell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento; dal decreto legislativo n. 143 del 1997, che conferma l’attribuzione alle Regioni di tutte le funzioni in materia di caccia (art. 1); dal decreto legislativo n. 281 del 1997, che ha ridefinito ed ampliato le attribuzioni della Conferenza permanente Stato- Regioni (art. 2, comma 3).

La spettanza alla Regione, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, dell’art. 99 del d.P.R. n. 616 del 1977 e ora anche dell’art. 1 del decreto legislativo n. 143 del 1997, del potere di disporre la deroga di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria 79/409/CEE – che, per la "sua puntualità" può essere considerata, ad avviso della ricorrente, "come un regolamento" - sarebbe stata riconosciuta dagli stessi organi governativi (v. circolari del Ministero dell’agricoltura e delle foreste e del Ministero delle risorse agricole del 1993 e del 1994), in conformità sia all’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa sia al parere reso in argomento dal Consiglio di Stato.

Nell'escludere che la legge n. 157 del 1992 abbia dato attuazione alla direttiva comunitaria per quel che riguarda il regime di deroga e nel sostenere il carattere autoapplicativo dell'art. 9 della direttiva stessa, il ricorso osserva che, a fini sostanzialmente differenti, risponde, invece, la disciplina nazionale della individuazione delle specie cacciabili, introdotta con l’art. 18 della predetta legge n. 157 del 1992, e spettante allo Stato. potrebbe farsi richiamo agli interessi unitari, per sostenere che la potestà di deroga appartiene allo Stato, non essendo ciò conforme al diritto positivo, alle stesse finalità dell’istituto, trattandosi di "potestà da esercitare per ambiti definiti nel tempo, nello spazio e nelle modalità".

Il decreto impugnato (assimilabile ad un regolamento ministeriale) sarebbe, comunque, in contrasto anche con l’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, che circoscrive la potestà regolamentare ministeriale alle sole materie di competenza del Ministro.

Rilevato, quindi, che con un semplice atto di natura regolamentare vengono dettate disposizioni che, semmai, avrebbe dovuto emanare il legislatore, la Regione sostiene che, con riguardo all’attuazione dei regolamenti comunitari inerenti a materie di competenza regionale, come andrebbe considerata la disciplina dell’art. 9 della direttiva, lo Stato avrebbe una competenza del tutto residuale ed eccezionale. L’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977 riserverebbe le funzioni relative all’applicazione dei regolamenti comunitari alle Regioni, mentre la legge n. 86 del 1989 (avuto riguardo anche a quanto risulta dai commi 5 e 6 dell’art. 9) consentirebbe il ricorso, da parte dello Stato, al regolamento nel solo caso dell’art. 4, vale a dire quando ciò sia previsto dalla legge comunitaria per l’anno di riferimento e a condizione che venga seguita la procedura di cui all’art. 17 della legge n. 400 del 1988 (cfr. sentenze n. 278 del 1993 e n. 304 del 1987).

Escluso che vengano in rilievo interessi unitari, si osserva che questi avrebbero dovuto eventualmente trovare soddisfazione attraverso la funzione di indirizzo e coordinamento, nell'osservanza, naturalmente, dei limiti formali e sostanziali stabiliti dalla legge.

Fermo restando, comunque, che l’esercizio di quest’ultima funzione non potrebbe tradursi in disposizioni tanto puntuali da precludere ogni intervento alla Regione, si evidenzia la mancata acquisizione della previa intesa con la Conferenza permanente Stato- Regioni, con conseguente violazione dell’art. 8 della legge n. 59 del 1997. Sulla medesima linea, si richiama, altresì, il disposto dell’art. 2, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, che prevede il parere della Conferenza Stato- Regioni sugli schemi di regolamento nelle materie di competenza regionale.

5.— Conflitto nei confronti dello Stato (Reg. confl. n. 5 del 1998), in relazione al menzionato decreto presidenziale, é stato sollevato, infine, dalla Regione Lombardia, la quale chiede che, previa sospensione dell'impugnato provvedimento, la Corte: a) dichiari non spettare al Presidente del Consiglio — se non a seguito di deliberazione del Consiglio dei ministri nonchè a seguito di intesa con la Conferenza permanente Stato- Regioni - l’adozione di atti di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa delle Regioni in materia di caccia; b) al tempo stesso, riconosca che spetta alla Regione Lombardia il potere di adottare le deroghe previste dall’art. 9 della direttiva CEE e di individuarne le modalità di attuazione; c) in subordine, dichiari che spetta alla Regione per lo meno il potere di individuare le modalità concrete di attuazione delle deroghe stesse.

5.1.— Nel far presente di aver disciplinato con legge regionale 30 agosto 1997, n. 34, la materia delle deroghe (di poi in concreto esercitate dalle Giunta con delibera 29 settembre 1997), la ricorrente Regione deduce la lesione delle sue competenze in materia di caccia, desumibili dagli artt. 97, 117 e 118 della Costituzione, in relazione agli artt. 1 e 9 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, ai principi fissati dalla giurisprudenza costituzionale ed all’art. 8 della legge n. 59 del 1997.

Attese le competenze regionali in materia di caccia, il ricorso sostiene che lo Stato potrebbe intervenire in materia avvalendosi della funzione di indirizzo e coordinamento, nel rispetto, tuttavia, dei necessari requisiti formali e sostanziali, tra cui la delibera del Consiglio dei ministri, senza trascurare l’ulteriore condizione della previa intesa con la Conferenza Stato- Regioni, introdotta dall’art. 8 della legge n. 59 del 1997 e confermata dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 143 del 1997.

5.2.— Con un secondo gruppo di censure la ricorrente prospetta, sotto ulteriori profili, la violazione degli artt. 97, 117 e 118 della Costituzione, in relazione agli artt. 1 e 2 del decreto legislativo n. 143 del 1997, all’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 ed alla legge della Regione Lombardia n. 34 del 1997.

Si afferma, in particolare, che la disposizione dell’art. 2 del provvedimento impugnato, nel disporre la previa intesa con i Ministri dell’ambiente e per le politiche agricole, risulterebbe lesiva delle competenze attribuite alle Regioni, quali desumibili dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, dall’art. 18, comma 3, della stessa legge n. 157 del 1992 e dal decreto legislativo n. 143 del 1997, che ha trasferito alle Regioni stesse tutte le funzioni già svolte dal soppresso Ministero delle risorse agricole, lasciando allo Stato le sole funzioni previste dall’art. 2: tra queste sarebbe quindi ricompreso — nell’impossibilità di una interpretazione estensiva di detto art. 2 — il potere di individuazione delle specie cacciabili e di variazione del relativo elenco, secondo l’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992, ma non il potere di deroga.

potrebbe indurre a diverse conclusioni la sentenza di questa Corte n. 272 del 1996, che, pur riconoscendo la competenza statale in ordine alle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria, avrebbe posto, in realtà, una distinzione tra il potere di deroga e quello di modifica delle specie cacciabili.

Si osserva, altresì, che, essendo stato il decreto legislativo n. 143 del 1997 emanato successivamente a tale sentenza, solo un’esplicita attribuzione di competenza, da parte dell’art. 2 del decreto stesso, avrebbe potuto far ritenere sussistente il potere statale in tema di deroghe. Tale conclusione risulterebbe avvalorata dal fatto che la legge della Regione Lombardia, che ha attribuito alla Giunta regionale sia il potere di adottare le deroghe sia quello di individuarne le modalità di attuazione, non é stata oggetto di rilievi da parte del commissario del Governo.

5.3.— In via subordinata, si deduce, infine, che, anche a voler seguire la tesi secondo cui, per l’adozione delle deroghe, le Regioni dovrebbero raggiungere l’intesa con i due Ministri interessati, "non può in ogni caso essere revocata in dubbio la potestà regionale di autonoma individuazione delle modalità di attuazione delle deroghe stesse"; sotto questo profilo il decreto impugnato sarebbe comunque illegittimo, per violazione degli artt. 97, 117 e 118 della Costituzione, nonchè dell’art. 18, comma 4, della legge n. 157 del 1992.

6.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si é costituito in tutti i giudizi con il deposito di distinti atti, chiedendo che i ricorsi siano respinti perchè infondati; formulate puntuali controdeduzioni in ordine al ricorso proposto dalla Regione Toscana, alle medesime ha fatto rinvio nelle difese predisposte per gli altri giudizi.

6.1.- Secondo l’Avvocatura, dall’esame delle premesse dell’impugnato decreto presidenziale nonchè dalla sentenza della Corte di giustizia 7 marzo 1996 (in causa 118/1994: vedi punto 25), emergerebbe la necessità per lo Stato — al fine di consentire un legittimo ingresso nell'ordinamento delle deroghe — di definire condizioni, modalità e procedure applicative in tutto rispondenti alle previsioni tassative delle norme comunitarie.

Quanto all’ordinamento nazionale, si sostiene che la Corte costituzionale avrebbe affermato che "il disposto dell’art. 18 della legge n. 157 del 1992 sottende un interesse nazionale dotato di valore autonomo e non mero riflesso dell’obbligo di conformarsi al dettato comunitario", il quale farebbe sì che l’introduzione delle deroghe comunitarie non possa non passare attraverso il procedimento di variazione delle specie cacciabili stabilito dal predetto articolo.

Nell'escludere che il decreto legislativo n. 143 del 1997 abbia operato un trasferimento alle Regioni anche dei poteri previsti dal predetto art. 18, l'Avvocatura nega che l’intesa con i Ministri dell’ambiente e per le politiche agricole leda le attribuzioni regionali, rispondendo essa all’esigenza di garantire la realizzazione dell’interesse nazionale alla conservazione delle specie protette, come pure l’osservanza degli obblighi imposti dall’art. 9 della direttiva CEE, al fine di evitare situazioni di responsabilità dello Stato nei confronti della Comunità europea.

7.— Indi, con un'unica memoria concernente tutti i giudizi, l’Avvocatura dello Stato ha svolto ulteriori argomentazioni, osservando che la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996 evidenzierebbe la stretta correlazione esistente tra l’interesse unitario dello Stato definito dall’art. 18 della legge n. 157 del 1992 e il potere di deroga contemplato dalla direttiva comunitaria, ponendosi, così, nel solco di una costante giurisprudenza della Corte costituzionale, che "ha ravvisato nell’elenco delle specie cacciabili una norma fondamentale che individua un nucleo essenziale della tutela del patrimonio faunistico nazionale non derogabile e non disponibile dalle Regioni".

Quanto all’assunto della Regione Veneto, secondo il quale la dimensione transnazionale della protezione delle specie migratorie escluderebbe l’interesse unitario dello Stato, esso non terrebbe conto della circostanza che l’assetto istituzionale dei rapporti tra la Comunità e gli Stati membri in materia di ambiente é retto dal principio di sussidiarietà, per cui, comunque, viene fatta salva la facoltà degli Stati di adottare misure per una protezione maggiore (ai sensi degli artt. 3B, 130R e 130T del trattato CE e dell’art. 14 della direttiva 79/409/CEE).

Osserva, ancora, la memoria che, pur essendo il ricorso alle deroghe facoltativo, sarebbe obbligatoria la loro regolamentazione nel diritto nazionale, a garanzia della corretta applicazione delle stesse, così come risulta dalla sentenza della Corte di giustizia 7 marzo 1996, dove é sottolineato con particolare vigore il valore strettamente vincolante delle condizioni stabilite dall'art. 9 della direttiva. Pertanto la critica delle Regioni avrebbe colto nel segno se l’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 fosse stato utilizzato dall'impugnato decreto presidenziale per disporre una specifica deroga, e non per lo svolgimento della funzione sostanzialmente normativa prevista dallo stesso articolo, al fine di "garantire che le disposizioni dell’art. 9 della direttiva non siano incorrettamente utilizzate". E ciò tenendo conto del fatto che l’interesse unitario messo in giuoco dalla introduzione delle deroghe vale non soltanto a fondare una competenza regolatrice idonea a soddisfare le esigenze imposte dal diritto comunitario, "ma anche a costituire una conseguenziale corresponsabilità dello Stato nella fase applicativa".

8.— Anche la Regione Toscana, con memoria del 20 aprile 1998, ha svolto ulteriori argomentazioni a sostegno delle censure formulate nel ricorso, ribadendo che la legge n. 157 del 1992 non recherebbe alcuna disposizione in tema di deroga, lasciando, quindi, inattuata la stessa direttiva 79/409/CEE.

Lo Stato italiano — dopo aver inserito nell’elenco di cui all’art. 18 della legge n. 157 del 1992 anche alcune specie cacciabili non previste dalla normativa comunitaria, così privando di significato l’istituto della deroga — si sarebbe conformato al dettato comunitario con il d.P.C.m. 21 marzo 1997, soltanto a seguito della sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996 (che tale difformità aveva rilevato).

A seguito di tale correzione, poteva così iniziare l’applicazione del sistema delle deroghe, di cui all’art. 9 della direttiva CEE, disciplinato dalla ricorrente con la legge regionale 21 agosto 1997, n. 70.

Nel riaffermare che la Corte di giustizia, con la sentenza sopra menzionata del 7 marzo 1996, la Commissione CE, con il parere 7 agosto 1997, mettono in dubbio che il potere di deroga possa essere legittimamente svolto dalle Regioni, si rileva la non pertinenza del richiamo fatto dall’Avvocatura dello Stato alla sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996, atteso che il potere di integrare gli elenchi delle specie cacciabili e il potere di deroga sono assolutamente diversi. In conclusione si osserva che, alla luce dell’attuale normativa e in particolare del decreto legislativo n. 143 del 1997, il potere di deroga, lungi dal poter essere ricondotto in capo allo Stato, spetterebbe alle Regioni che, in alcuni casi, lo hanno già esercitato e disciplinato con leggi regolarmente vistate dal commissario del Governo.

9.— Con memoria del 21 aprile 1998, anche la Regione Veneto insiste nelle conclusioni già formulate.

Nel rimandare a quanto già illustrato nel ricorso "intorno al non efficace recepimento sostanziale della direttiva attraverso le norme della legge n. 157 del 1992", si osserva come, nelle disposizioni degli artt. 2, comma 3, e 19 che, secondo il provvedimento impugnato, rappresenterebbero la disciplina attuativa delle previsioni di cui all’art. 9, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva, manchino prescrizioni relative alle condizioni, modalità e procedure applicative della deroga; e cioé proprio quegli elementi che, a detta dell’Avvocatura, lo Stato non poteva sottrarsi dal definire legislativamente, per assicurare un legittimo ingresso nell’ordinamento interno delle deroghe ammesse dall’art. 9 della direttiva medesima.

Secondo la memoria é singolare constatare come le invocate necessità di puntuale fissazione dei criteri per un’adeguata attuazione della direttiva si manifestino tanto pressanti con riferimento all’eventualità di regolamentazione legislativa regionale quanto superflue, invece, per un’equivalente attività normativa statale.

L’ovvia spiegazione, secondo il ricorso, sarebbe che nessuna previsione generica operata da una legge-quadro quale la legge n. 157 del 1992 manifesta sufficiente flessibilità ad un impiego che, per intrinseca natura, deve rispondere ad esigenze contingenti e sempre mutevoli, come nel caso di un sistema di deroghe riconducibile a situazioni peculiari ed eccezionali.

Pertanto, prosegue la Regione, la portata prescrittiva dell’art. 18 della citata legge n. 157 del 1992 non potrebbe mai addentrarsi nell’organizzazione settoriale della materia, assegnata alla competenza primaria di altro soggetto disponente.

10.— La Regione Emilia-Romagna, dal canto suo, con una memoria del 20 aprile 1998, ha, del pari, insistito per l'accoglimento del ricorso, sviluppando ed illustrando le argomentazioni già addotte.

Nell'escludere che la prevista intesa Stato-Regioni possa, così come sostiene l'Avvocatura dello Stato, trovare fondamento nella predetta sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996, la ricorrente rileva che, avendo il decreto legislativo n. 143 del 1997 riservato allo Stato solo i poteri ex art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992, risulterebbe evidente che esso ha affidato il potere di deroga, per specifiche e contingenti situazioni locali, alle Regioni, in conformità agli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione.

Comunque, in presenza di un interesse nazionale, lo Stato avrebbe dovuto provvedere, semmai, con un atto di indirizzo e coordinamento, e non con l’esercizio congiunto di un potere spettante, invece, alle Regioni. E questo non senza rilevare che, se davvero l’eventualità della responsabilità statale per violazioni commesse dalle Regioni, nel dare attuazione amministrativa alle normative comunitarie, dovesse esigere "un’intesa statale", risulterebbe stravolto l’assetto dei rapporti Stato-Regioni, quale é configurato dall’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977.

11.— Con memoria del 14 aprile 1998, la Regione Umbria eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri, per essere avvenuta oltre il termine di venti giorni dalla data di notifica del ricorso (29 dicembre 1997), in violazione del disposto dell’art. 27, terzo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale del 16 marzo 1956.

Quanto al merito, la ricorrente, nel ribadire e nell'illustrare ulteriormente i motivi del ricorso, ricorda, in particolare, che la stessa natura del potere di deroga, corrispondente alla sussistenza di specifiche situazioni locali, ne escluderebbe l’appartenenza allo Stato. A tali conclusioni porterebbe, altresì, il principio di sussidiarietà, sancito dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (art. 4, comma 3, lettera a), ma già insito nella stessa Costituzione, con riguardo alle materie elencate nell’art. 117.

11.1.— Con una seconda memoria, in data 19 novembre 1998, la Regione Umbria sostiene che la legislazione intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso - in particolare l’art. 69 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) - e la giurisprudenza costituzionale più recente confermerebbero l’assunto che spetta alla Regione la competenza a disciplinare con legge e ad esercitare in via amministrativa la deroga prevista dall’art. 9, lettera c), della direttiva comunitaria. Il che sarebbe, d’altra parte, nell’ordine delle cose, non essendo dato comprendere, secondo la Regione, quali ulteriori esigenze di disciplina unitaria si riscontrino a proposito di un istituto già totalmente disciplinato, nei suoi aspetti sostanziali, dalla normativa comunitaria.

Si rileva, altresì, che la competenza piena delle Regioni a legiferare in materia di deroghe é stata affermata e riconosciuta da talune mozioni del Senato (precisamente n. 1-00146 del 1997, nonchè n. 1-00286 e n. 1-00289 entrambe del 1998).

Ciò premesso e ribadita l’eccezione di tardività nei confronti della costituzione in giudizio da parte del Presidente del Consiglio, la Regione Umbria contesta la fondatezza delle difese svolte dal Governo, osservando in particolare che, trattandosi di potestà legislativa concorrente, lo Stato potrebbe in ipotesi emanare norme di principio con legge, ma non con un atto di natura regolamentare, carente di ogni supporto legislativo, non adottato dal Governo nella sua collegialità, e contenente, per di più, una disciplina tale da privare le Regioni di qualsiasi autonomia anche a livello operativo.

12.— Nell'imminenza dell'udienza anche la Regione Lombardia ha depositato, il 26 novembre 1998, una memoria secondo la quale la previsione dell’art. 2, comma 2, del decreto legislativo n. 143 del 1997 varrebbe ad escludere la titolarità del potere di deroga da parte dello Stato, giacchè i poteri attribuiti al Ministro per le politiche agricole sono poteri di disciplina generale e di coordinamento nazionale, inconciliabili, come tali, con un potere derogatorio legato alla realtà locale.

Tale tesi sarebbe corroborata anche dalle enunciazioni dell’art. 69, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), che ha previsto la spettanza allo Stato delle sole funzioni espressamente indicate, tra le quali é inserita la potestà di variazione dell’elenco delle specie cacciabili, ex art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992, quale compito di rilievo nazionale.

Nel confermare, infine, le considerazioni già svolte circa la mancanza, nel provvedimento impugnato, dei presupposti procedimentali e sostanziali per configurarlo come atto di indirizzo e coordinamento, si rileva che l’art. 9 della direttiva comunitaria é immediatamente applicabile, senza bisogno di alcun atto intermedio di regolamentazione della deroga.

Considerato in diritto

1.— Il conflitto di attribuzione sollevato dalle Regioni Toscana, Veneto, Emilia- Romagna, Umbria e Lombardia, nei confronti dello Stato, concerne, in primo luogo, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997, recante "Modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici", del quale viene chiesto l’annullamento e, quanto all’impugnazione della Regione Lombardia, anche la previa sospensione.

La predetta direttiva, nel porre a carico degli Stati membri della Comunità europea una serie di misure, in forma per lo più di divieti e limitazioni (artt. 5, 6, 7 e 8), ne consente, tuttavia, il superamento in presenza di motivi di interesse generale dalla stessa specificati. Dispone, infatti, l’art. 9, paragrafo 1, che gli Stati, "sempre che non vi siano altre soluzioni soddisfacenti", possono derogare ai precedenti articoli: a) per ragioni attinenti alla salute e sicurezza pubblica, alla sicurezza aerea, alla prevenzione di danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque, alla protezione della flora e della fauna; b) per esigenze della ricerca, insegnamento, ripopolamento, ecc.; c) per consentire, infine, "in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo, la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità"; e ciò nell’osservanza, comunque, di puntuali condizioni specificate nel paragrafo 2.

Il censurato provvedimento presidenziale, al dichiarato fine di "garantire l'omogeneità di applicazione della normativa comunitaria" (art. 1, comma 1), dispone che le deroghe di cui alla lettera c) del paragrafo 1 del predetto art. 9 vengano adottate dalle Regioni "d'intesa con i Ministri dell'ambiente e per le politiche agricole", precisando, altresì, gli elementi che le Regioni stesse sono tenute, nella circostanza, ad indicare (art. 2). Nell’estendere (art. 3) la disciplina delle condizioni e modalità di applicazione delle deroghe anche all’ipotesi della cattura per la cessione a fini di richiamo, di cui all'art. 4, comma 4, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, il decreto individua nell'Istituto nazionale per la fauna selvatica l'autorità abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite ai sensi degli artt. 2 e 3 sono realizzate (art. 4).

1.1.- La Regione Veneto propone conflitto in relazione, altresì, alle determinazioni (n. 3242 e n. 3243 del 20 ottobre 1997) con cui la Commissione di controllo sugli atti della stessa Regione ha annullato le delibere della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997, che avevano provveduto ad applicare le deroghe al regime delle specie cacciabili, per il periodo 11 ottobre – 31 dicembre 1997.

2.— Le Regioni, seguendo un iter argomentativo in larga parte comune, assumono che il decreto presidenziale sopra menzionato, nel disciplinare le modalità di esercizio delle deroghe in questione, sia invasivo della loro sfera di attribuzione, perchè non terrebbe conto dell’ambito delle competenze ad esse spettanti in materia sia di caccia sia di attuazione delle direttive comunitarie.

2.1.- Le ricorrenti rivendicano le attribuzioni ad esse costituzionalmente spettanti, quali é dato desumere dagli artt. 117 e 118 nonchè, secondo taluna delle ricorrenti, dall'art. 97 (Regione Lombardia) e dall'art. 125 della Costituzione (Regione Emilia-Romagna). A ulteriore supporto delle competenze ad esse spettanti, le ricorrenti stesse evocano, inoltre, con varietà di richiami, non del tutto coincidenti, un quadro normativo rappresentato essenzialmente dall'art. 99 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e dagli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, deducendone, da un lato, che il Governo non aveva il potere di provvedere in materia di competenza regionale quale la caccia, e, dall’altro, che non sussistevano, comunque, i presupposti legali perchè alle amministrazioni regionali fossero imposte, attraverso l’intesa con due Ministri, posizioni di codecisione governativa su funzioni di competenza regionale ed attinenti a scelte necessariamente puntuali.

Quanto poi alle competenze attuative dell’ordinamento comunitario, a livello legislativo od amministrativo, le Regioni si appellano, per lo più, alle attribuzioni ad esse riservate, oltre che dall'art. 6 del predetto d.P.R. n. 616 del 1977, dagli artt. 4 e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86, e dall'art. 1, comma 3, della legge 11 febbraio 1992, n. 157.

2.2.— Secondo le ricorrenti la lesione delle attribuzioni regionali sarebbe ulteriormente avvalorata — oltre che dall’impossibilità di rinvenire, nell’art. 18, comma 3, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, ovvero in esigenze di tutela di interessi unitari, il fondamento della potestà che lo Stato ha preteso di esercitare - dall'utilizzo di uno strumento extra ordinem, quale si appalesa il censurato decreto presidenziale, che, anche con riguardo ai contenuti, non troverebbe giustificazione come espressione della funzione di indirizzo e coordinamento come manifestazione di potere regolamentare.

2.3.— Quanto alla potestà regolamentare, secondo taluni dei ricorsi, il decreto sarebbe in contrasto:

- con l'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che circoscrive la potestà stessa alle sole materie di competenza del Ministro (partic. Regione Umbria);

- con le norme della legge 9 marzo 1989, n. 86 (in particolare, artt. 4, 6 e 9), che consentono l'attuazione delle direttive attraverso lo strumento regolamentare solo quando ciò sia previsto dalla legge comunitaria per l'anno di riferimento, fermo comunque il rispetto delle procedure di cui al predetto art. 17 della legge n. 400 del 1988;

- con l'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, che prevede il parere obbligatorio della Conferenza Stato-Regioni sugli schemi di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome (partic. Regione Umbria).

2.4.- In ordine, poi, alla funzione di indirizzo e coordinamento, a parte il difetto di base legale sostanziale, viene denunciata la carenza dei requisiti di forma prescritti dalla normativa vigente. Sotto questo aspetto, dall'insieme dei ricorsi, é dato desumere il riferimento:

— alla deliberazione del Consiglio dei ministri, prevista, tra l'altro, dall'art. 9, comma 6, della legge n. 86 del 1989 (partic. Regioni Toscana e Lombardia);

— all'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, alla luce, principalmente, delle previsioni dell'art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59 e dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143 (partic. Regione Lombardia).

2.5.— Sulla scorta degli accennati motivi le ricorrenti Regioni chiedono, pertanto, che questa Corte dichiari non spettare allo Stato l'emanazione dell'impugnato decreto presidenziale, sollecitandone l'annullamento in toto e, secondo le conclusive richieste di taluno dei ricorsi (Emilia- Romagna), anche con specifico riguardo agli artt. 2, 3 e 4.

In subordine la Regione Lombardia chiede, altresì, che si dichiari spettare ad essa il potere di individuare le modalità concrete di attuazione delle deroghe.

2.6.— Quanto, poi, alle due determinazioni (n. 3242 e n. 3243 del 10 ottobre 1997) con cui la Commissione di controllo ha annullato le delibere della Giunta regionale del Veneto (n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997), concernenti le deroghe ai divieti di caccia per il periodo 11 ottobre - 31 dicembre 1997, la Regione ricorrente, oltre a lamentare la lesione delle proprie attribuzioni nei termini in precedenza ricordati, deduce specificamente che le concrete ipotesi di deroga possono essere definite attraverso provvedimenti amministrativi, con la conseguenza che la competenza, alla stregua del disposto degli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616 del 1977, non potrebbe non essere regionale.

3.— In via pregiudiziale va disposta la riunione dei giudizi, che, avendo, infatti, ad oggetto questioni in parte identiche e in parte connesse, possono essere decisi con un'unica sentenza.

4.— Sempre in via pregiudiziale, quanto al ricorso proposto dalla Regione Umbria (Reg. confl. n. 3 del 1998), va dichiarata inammissibile la costituzione del Presidente del Consiglio, avvenuta oltre il termine prescritto (artt. 25 e 41 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nonchè art. 27 delle norme integrative 16 marzo 1956).

5.— Nel merito i ricorsi proposti dalle Regioni avverso il decreto presidenziale in epigrafe indicato sono fondati.

6. — I problemi posti dai ricorsi stessi esigono, in vista della delimitazione della sfera di attribuzione propria di ciascuna delle parti in causa, una breve ricognizione del contesto normativo di riferimento, quale si desume, in particolare, dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157, il cui art. 18, comma 3, risulta posto a fondamento dell’impugnato decreto. Tale legge, nel dettare nuove norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio, ha espressamente disposto (art. 1, comma 4) l’integrale recepimento ed attuazione, "nei modi e nei termini previsti" dalla medesima, delle direttive comunitarie concernenti la conservazione degli uccelli selvatici (79/409/CEE del 2 aprile 1979, 85/411/CEE del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE del 6 marzo 1991), con i relativi allegati.

Appare da ciò chiaro l’intento del legislatore nazionale di adeguare all’ordinamento comunitario un quadro di disciplina che, come risulta già dalla sentenza di questa Corte n. 1002 del 1988, si é venuto componendo nel tempo sulla base di principi, riconfermati dalla più recente normativa, che sono quelli dell’appartenenza della fauna selvatica al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 1, comma 1, della citata legge); dell'affievolimento del tradizionale "diritto di caccia", che viene subordinato all'istanza prevalente della conservazione del patrimonio faunistico e della salvaguardia della produzione agricola (art. 1, comma 2); della previsione, infine, di un regime di caccia programmata per tutto il territorio nazionale (art. 14), cui fa riscontro, come si desume anche dal menzionato art. 18, comma 3, la puntuale indicazione delle specie cacciabili in un apposito elenco; elenco suscettibile, peraltro, di modifica, attraverso decreti emanati dal Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di realizzare la costante consonanza tra ordinamento nazionale e disciplina comunitaria e internazionale (v. sentenza n. 277 del 1998).

7.- Nell’ambito del descritto sistema, ispirato alla preminente finalità della tutela della fauna, i ricorsi sollevano il problema della spettanza del potere di apportare le deroghe previste dall'art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 79/409/CEE, al generale regime protettivo degli uccelli selvatici ivi stabilito.

8.— Questa Corte, con la sentenza n. 272 del 1996, esaminando il problema dei limiti in cui la disposizione comunitaria concernente le deroghe possa reputarsi immediatamente efficace nell’ordinamento interno, ha ritenuto che essa sia da considerare operativa solo nel senso di legittimare le autorità nazionali ad adottare, ove lo ritengano, provvedimenti che consentano di superare i divieti della direttiva, verificando che ricorrano le situazioni ipotizzate e apprestando specifiche misure comportanti, in armonia con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, un circostanziato riferimento agli elementi di cui ai paragrafi 1 e 2 della disposizione stessa. Inoltre, quanto al potere di variazione dell'elenco delle specie cacciabili, affidato al Presidente del Consiglio dei ministri dall'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992, la sentenza medesima ha ribadito il principio, accolto in precedenza dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, in considerazione del carattere di norme di riforma economico- sociale proprio delle disposizioni protettive della fauna selvatica, nonchè del carattere unitario degli interessi ad esse sottostanti, é data, attualmente, alle Regioni la facoltà di modificare detto elenco soltanto in senso ulteriormente limitativo, e non estensivo, delle eccezioni al divieto generale di caccia (sentenze n. 577 del 1990 e n. 1002 del 1988).

9.— Ciò premesso, può osservarsi, venendo così al merito delle censure, che le attribuzioni che incontestabilmente spettano alle Regioni, in tema di caccia, non consentono, anche a tener conto dell’ulteriore trasferimento di competenze operato in loro favore dal decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, il disconoscimento delle competenze che, in materia di tutela della fauna selvatica, restano, comunque, affidate allo Stato e che sono tali da riverberarsi, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, anche sulla disciplina delle modalità della caccia stessa, nei limiti in cui prevede misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie selvatiche (sentenza n. 323 del 1998). Ciò non significa, però, che lo Stato sia legittimato ad intervenire sulla base di presupposti e secondo modalità che non siano quelli richiesti dall'ordinamento. Ed é proprio alla luce dei principi che lo Stato é tenuto ad osservare che il decreto presidenziale impugnato va reputato illegittimo, vuoi a considerarlo un atto di natura regolamentare vuoi a reputarlo un atto di indirizzo e coordinamento.

10.— Sotto il primo profilo occorre rammentare, anzitutto, l'orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale i regolamenti, governativi o ministeriali, non sono in via di principio legittimati a disciplinare, in ragione della distribuzione delle competenze normative fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 della Costituzione, le materie di spettanza regionale.

Tuttavia questa Corte non ignora (v. anche sentenza n. 278 del 1993) come, negli anni più recenti, il legislatore abbia provveduto ad ampliare la possibilità di ricorso a discipline dettate da fonti normative di rango non legislativo, alla stregua di orientamenti di carattere generale che hanno trovato specifico accoglimento anche in materia di recepimento e di attuazione dell’ordinamento comunitario, con riguardo segnatamente all'espressa e condizionante disciplina della legge 9 marzo 1989, n. 86, circa casi e modalità per l'esercizio del potere regolamentare (art. 4).

Senza che occorra qui affrontare la problematica posta dalle regole che, come sopra accennato, riguardano il rapporto fra fonti statali e fonti regionali, é sufficiente considerare che tale disciplina avrebbe, in ogni caso, richiesto un procedimento diverso da quello seguito, secondo quanto specificato nei commi 4 e 5 dell’art. 4 della menzionata legge (e cioé, in particolare, deliberazione collegiale del Governo, parere delle competenti Commissioni parlamentari, ove richiesto dalla legge comunitaria, e parere del Consiglio di Stato); ciò a tacere della più recente previsione dell’art. 2, comma 3, del decreto legislativo n. 281 del 1997, il quale esige che la Conferenza Stato- Regioni sia obbligatoriamente sentita "sugli schemi di regolamento nelle materie di competenza regionale".

Decisivo é, poi, il rilievo inerente all’avvenuto esercizio della potestà regolamentare in assenza del necessario supporto legislativo, considerato che l'opzione a favore della soluzione regolamentare deve essere, in base al predetto art. 4 della legge n. 86 del 1989, espressamente indicata nella legge comunitaria. Il che non si riscontra nel caso del provvedimento in esame, che, tra l’altro, non può rinvenire la sua base legale nemmeno nell'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992, pur richiamato nelle premesse, dovendosi tener distinto, così come esattamente avvertono le ricorrenti, il potere di modifica degli elenchi, da tale disposizione disciplinato, dal potere di deroga di cui all'art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva comunitaria; potere che, in effetti, la legge n. 157 del 1992, nonostante l’avvenuto recepimento della direttiva comunitaria (art. 1, comma 4), non ha in alcun modo disciplinato.

A tale esigenza di distinzione non contraddice la sentenza di questa Corte n. 272 del 1996, che, benchè invocata in senso antitetico da quasi tutte le parti in causa a sostegno delle proprie ragioni, si é soffermata sul potere di variazione, riservato allo Stato dal predetto art. 18, quale strumento per recepire, come risulta dalla disposizione stessa, i nuovi elenchi delle specie cacciabili, a seguito dell'avvenuta approvazione comunitaria o dell'entrata in vigore delle convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia, ma in nessun modo ha asserito che detto potere possa reputarsi espressivo anche di quello attinente alla disciplina delle deroghe, sì da legittimare il provvedimento oggetto della presente impugnativa.

11.— Non diverse appaiono le conclusioni, ove si riconduca l'atto contestato alla funzione di indirizzo e coordinamento, nel cui esercizio il Governo é tenuto, del pari, a soddisfare precisi requisiti di forma e di sostanza: di forma, dovendo la stessa funzione essere svolta per mezzo di una delibera del Consiglio dei ministri, adottata previa intesa con la Conferenza Stato- Regioni, secondo le regole oggi desumibili dall'art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (nel testo risultante dalla sentenza di questa Corte n. 408 del 1998); di sostanza, attesa la necessità di un idoneo fondamento legislativo, consistente nella previa determinazione con legge dei principi ai quali il Governo deve attenersi.

12.— Peraltro, le esposte considerazioni, dalle quali discende l'illegittimità del censurato decreto presidenziale, non conducono a ritenere fondata la pretesa della Regione Veneto, nella parte in cui, impugnando le determinazioni negative dell’organo statale di controllo sulle delibere adottate dalla Giunta, rivendica sostanzialmente per la facoltà di applicare la deroga, per di più attraverso provvedimenti di carattere amministrativo.

Poichè, come appare del resto condiviso dalle Regioni ricorrenti, la legge 11 febbraio 1992, n. 157, pur avendo recepito espressamente (art. 1, comma 4) la direttiva comunitaria, non ha in alcun modo disciplinato la facoltà di deroga prevista dall’art. 9, paragrafo 1, lettera c), ne discende necessariamente la conclusione che l'assetto attualmente dato alla materia dalla legislazione nazionale é, per questo aspetto, da reputare — anche in considerazione del carattere meramente facoltativo dell'attivazione delle deroghe — di per compiuto, con la sola previsione del potere di variazione degli elenchi attraverso i quali si provvede all’individuazione delle specie cacciabili. Non é, d’altro canto, da ritenere che, in tale situazione, le Regioni possano provvedere ad attivare autonomamente le deroghe, in quanto l'esercizio di un siffatto potere si rifletterebbe sulla tutela minima delle specie protette, il cui nucleo viene identificato dallo Stato sia con la legge sia con i successivi atti, adottati nell’esercizio del potere di variazione previsto dall’art. 18, comma 3; potere espressamente annoverato, di recente, dal legislatore (art. 69, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112), fra i "compiti di rilievo nazionale per la tutela dell’ambiente" (in tal senso v. anche sentenza n. 168 del 1999). Tale nucleo, nell’impedire alle Regioni di estendere la portata delle eccezioni al divieto generale di caccia, non può venire, infatti, ricostruito - come questa Corte ha avuto cura di precisare e come é il caso qui di ribadire - sulla sola base di una generica compatibilità tra la regola del divieto di caccia e un determinato numero di eccezioni (sentenza n. 577 del 1990).

Esso va, in realtà, visto come la risultante di una serie di opzioni qualitative concernenti le singole specie animali cacciabili e non cacciabili, che non può essere incisa e alterata da contrastanti scelte degli enti territoriali, anche ad autonomia speciale, se non a condizione di creare situazioni di incertezza sull’estensione della stessa sfera protetta come interesse unitario (sentenza n. 577 del 1990 già citata). E questo senza che venga a configurarsi un inadempimento degli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario, riscontrandosi, nella specie, non esigenze di adeguamento ai vincoli da esso positivamente stabiliti, bensì soltanto il mancato esercizio di una facoltà che consentirebbe, attivando la deroga, il parziale esonero dall’osservanza degli stessi vincoli.

13.- Al di là della specifica prospettiva, dalla quale muovono le ricorrenti, e cioé quella delle loro competenze in materia di caccia, si deve inoltre considerare che, a tener presenti le varie situazioni che, secondo la direttiva comunitaria, autorizzano il ricorso allo strumento della deroga, si evince una varietà di interessi che appaiono, per lo più, di pertinenza dello Stato. In questa prospettiva anche la stessa locuzione della lettera c), là dove richiama l'esigenza di "consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità", parrebbe, invero, far riferimento a ipotesi che non appaiono compiutamente identificabili con l'attività venatoria.

La molteplicità di interessi ed esigenze che vengono in rilievo dimostra, dunque, che si tratta di regole che spetta in primis allo Stato di dettare, sia perchè titolare degli interessi preminenti nella stessa gerarchia desumibile dall'art. 9 della direttiva sia per evidenti esigenze di uniformità di assetto e di organicità del sistema, che non tollererebbero, come é evidente, la parcellizzazione di interventi affidati totalmente alle Regioni.

14.- In conclusione, posto che la disposizione dell'art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva comunitaria richiede, per la sua concreta attuazione nell'ordinamento interno, una legge nazionale che valuti e ponderi i vari interessi che vengono in rilievo e che non sono certamente soltanto quelli connessi all'esercizio venatorio, la Regione Veneto non ha motivo di dolersi, quanto alla pretesa lesione della propria sfera di attribuzioni, dell'avvenuto annullamento, da parte della Commissione di controllo sugli atti della Regione, dei provvedimenti con i quali la Giunta aveva provveduto a disciplinare in via amministrativa le deroghe in tema di specie cacciabili per il periodo 11 ottobre - 31 dicembre 1997.

15.- L'istanza cautelare avanzata dalla Regione Lombardia rimane assorbita dalla presente decisione di merito.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara che:

- non spetta allo Stato disciplinare con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997 le modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva comunitaria 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, e di conseguenza annulla detto decreto;

- spetta allo Stato, e per esso alla Commissione di controllo sugli atti della Regione Veneto, annullare le delibere della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997, aventi ad oggetto l’applicazione delle deroghe al regime della specie cacciabili per il periodo 11 ottobre - 31 dicembre 1997.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 14 maggio 1999.