Sentenza n. 111/99

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SENTENZA N.111

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 85, 2, comma 154, 3, commi 158 e 216, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante "Misure di razionalizzazione della finanza pubblica", promosso con ricorso della Regione Siciliana, notificato il 27 gennaio 1997, depositato in Cancelleria il 30 successivo ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 1997.

  Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell’udienza pubblica del 26 gennaio 1999 il Giudice relatore Valerio Onida;

  uditi gli avvocati Francesco Castaldi e Giovanni Lo Bue per la Regione Siciliana e l’avvocato dello Stato Francesco Guicciardi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso notificato il 27 gennaio e depositato il 30 gennaio 1997 (Reg. ric. n. 18 del 1997), la Regione Siciliana ha impugnato, in riferimento agli articoli 14, lettera r, 17, lettera d, 20, 21, terzo comma, e 36 dello statuto speciale e alle relative norme di attuazione in materia di pubblica istruzione e in materia finanziaria, gli articoli 1, comma 85, 2, comma 154 e 3, commi 158 e 216, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

Nel primo motivo del ricorso la Regione sostiene che le disposizioni impugnate sono viziate per violazione dell’art. 21, terzo comma, dello statuto speciale, ai cui sensi il Presidente della Regione partecipa col rango di Ministro e con voto deliberativo al Consiglio dei ministri nelle materie che interessano la Regione. Infatti il procedimento legislativo che ha portato alla formazione delle disposizioni impugnate sarebbe stato iniziato e completato senza che il Presidente della Regione abbia potuto prendere parte alla fase dell’iniziativa legislativa del Governo.

Premesso che tale partecipazione rientra nella sfera delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, la ricorrente sostiene che l’interesse regionale che giustifica tale partecipazione sussiste nei confronti delle norme impugnate in quanto esse producono i loro effetti in materie nelle quali alla Regione sono attribuiti poteri che caratterizzano la sua speciale autonomia, e che solo da una partecipazione del Presidente regionale alla seduta del Consiglio dei ministri avrebbe potuto scaturire il "leale coordinamento" degli interessi della Regione con quelli dello Stato, coordinamento cui mira l’art. 21 dello statuto. Ricorda inoltre di avere proposto ricorso per conflitto di attribuzioni in relazione alle limitazioni poste alla partecipazione del Presidente regionale al Consiglio dei ministri nella seduta del 27 settembre 1996, convocata per l’esame del disegno di legge finanziaria per il 1997, chiedendo l’annullamento della deliberazione con cui il disegno di legge fu approvato.

2.- Col secondo motivo del ricorso si censura l’art. 1, comma 85, della legge – che dichiara non applicabili le disposizioni dei commi da 70 ad 80 dello stesso articolo alla Regione Valle d’Aosta e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, le quali disciplinano la materia nell’ambito dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione – nella parte in cui non prevede di escludere dall’applicazione delle predette disposizioni anche la Regione Siciliana. In tal modo infatti, secondo la ricorrente, si violerebbero i principi discendenti dall’art. 14, lettera r, e dall’art. 17, lettera d, dello statuto, che attribuiscono alla Regione, rispettivamente, competenza legislativa esclusiva in materia di istruzione elementare e competenza legislativa concorrente in materia di istruzione media e universitaria; si violerebbe l’art. 20 dello statuto, che attribuisce al Presidente e agli assessori regionali le funzioni esecutive ed amministrative anche nelle materie di cui agli articoli 14, 15 e 17; si violerebbero le norme di attuazione dello statuto in materia di pubblica istruzione (d.P.R. 14 maggio 1985, n. 246, art. 1), che devolvono espressamente alla Regione tutte le attribuzioni statali in materia di pubblica istruzione, salvo quelle enumerate, che restano di competenza statale.

La ricorrente osserva che il comma 70 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 prevede che i provveditori agli studi adottino con propri decreti i piani organici di aggregazione, fusione, soppressione di scuole e istituti di istruzione, con ciò modificando l’ordine delle competenze per la definizione del piano di razionalizzazione della rete scolastica così come disciplinato dall’art. 51 del d.lgs. n. 297 del 1994, secondo cui il piano é adottato con provvedimento del Ministro e, nel territorio della Regione Siciliana, con provvedimento dell’Assessore regionale previa intesa col Ministero. Sarebbe dunque illegittimo non avere escluso dall’applicazione delle nuove norme la Regione Siciliana, tanto più che essa é titolare di competenza addirittura esclusiva in materia di istruzione elementare, mentre la Valle d’Aosta, che da tale applicabilità viene invece esclusa, ha solo una potestà concorrente.

3.- Col terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione dell’art. 36 dello statuto e delle norme di attuazione in materia finanziaria, nonchè dei principi di certezza del diritto e di leale cooperazione, da parte dell’art. 2, comma 154, e dell’art. 3, comma 216, della legge n. 662 del 1996. Si tratta di due disposizioni di tenore simile, che riservano all’erario, rispettivamente, le entrate derivanti dai commi da 133 a 165 dell’art. 2, e le entrate derivanti dalla legge n. 662 nella sua totalità, destinandole a concorrere "alla copertura degli oneri per il servizio del debito pubblico, nonchè alla realizzazione delle linee di politica economica e finanziaria in funzione degli impegni di riequilibrio del bilancio assunti in sede comunitaria", e dispongono che con decreto del Ministro delle finanze "sono definite, ove necessarie, le modalità" di attuazione di quanto previsto dagli stessi commi in questione.

La ricorrente osserva che la legge n. 662 contiene, oltre a diverse disposizioni che istituiscono nuovi tributi, sostituiscono imposte esistenti con altro tipo di imposizioni, ed elevano aliquote di tributi, interventi molteplici e di varia natura caratterizzati dall’apparente intento di ridisegnare fattispecie tributarie, cause di detrazione o di deduzione, o di allargare la base imponibile (ad esempio attraverso l’aumento delle rendite catastali), ma sostanzialmente rivolti a procurare, in "forme trasversali", delle maggiori entrate.

Tali interventi sulla base imponibile di tributi esistenti, che consentono l’acquisizione di maggiori entrate, non darebbero luogo però a "nuove entrate tributarie" ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, che, nell’attribuire alla Regione la spettanza di tutte le entrate tributarie erariali (salvo alcune espressamente nominate) riscosse nel suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate, eccettua soltanto le "nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime".

Nuove entrate tributarie, a questi fini, sarebbero solo quelle derivanti dalla istituzione di nuove imposte o dall’incremento delle aliquote di imposte preesistenti: nella specie, non ricorrendo tali ipotesi, la devoluzione allo Stato dei maggiori proventi sarebbe illegittima.

Nelle norme impugnate non vi sarebbe, secondo la ricorrente, alcuna indicazione dei criteri per distinguere i proventi nuovi da quelli che non lo sono, limitandosi esse a rinviare ad un decreto ministeriale la indicazione dei criteri selettivi: si impedirebbe così il controllo sul corretto esercizio della deroga, e verrebbe meno la prevedibilità delle relative decisioni, con violazione della certezza del diritto.

Il vulnus al principio di leale cooperazione sarebbe ancor più grave per non essersi prevista alcuna forma di partecipazione e consultazione della Regione nella determinazione dei maggiori proventi derivanti dagli interventi in parola. La Regione sarebbe stata totalmente ignorata, in quanto il Presidente della Regione non é stato invitato al Consiglio dei ministri in cui si é discussa e approvata la normativa in questione, e il Ministro determinerà discrezionalmente, senza alcuna partecipazione della Regione, il quantum dei maggiori proventi riservati allo Stato.

4.- Il quarto motivo del ricorso concerne il comma 158 dell’art. 3, secondo il quale la Regione Siciliana "provvede con propria legge alla attuazione dei decreti di cui ai commi da 143 a 149" – cioé dei decreti legislativi delegati in tema di istituzione e disciplina della nuova imposta regionale sulle attività produttive – "con le limitazioni richieste dalla speciale autonomia finanziaria preordinata dall’articolo 36 dello Statuto regionale e dalle relative norme di attuazione".

Tale disposizione contrasterebbe con la speciale autonomia finanziaria garantita alla Regione Siciliana dallo Statuto (art. 36) e dalle norme di attuazione (d.P.R. n. 1074 del 1965), che attribuiscono ad essa il potere di istituire tributi propri nei limiti dei principi del sistema tributario dello Stato.

5.- Si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo la reiezione del ricorso.

Quanto al primo motivo, nell’atto di costituzione l’Avvocatura erariale osserva che il Presidente della Regione era stato invitato a partecipare alla seduta del Consiglio dei ministri con telegramma urgentissimo del 26 settembre 1996: a nulla rileverebbe che l’invito fosse limitato all’esame di una sola parte del disegno di legge, poichè il Presidente della Regione, se avesse scelto di intervenire, lo avrebbe fatto quale "ministro fra i ministri" e in quella sede, senza alcuna limitazione, avrebbe potuto sollevare il problema di altre questioni di interesse regionale; ove fosse stato escluso indebitamente dalla discussione di parti del testo sulle quali aveva diritto di pronunciarsi, avrebbe potuto sollevare conflitto di attribuzioni. Decidendo di non partecipare alla riunione egli si sarebbe invece precluso la possibilità di intervenire e votare sulle questioni di sua competenza.

Il telegramma di convocazione, che faceva esplicito riferimento all’art. 16 del disegno di legge, sulla partecipazione della Regione Siciliana alla spesa sanitaria, avrebbe avuto unicamente la funzione di richiamare l’attenzione della Regione su di esso come argomento che interessava direttamente la Regione stessa, ma non avrebbe impedito al Presidente di porre l’accento in sede di Consiglio su altre parti del disegno di legge: l’atto di convocazione non potrebbe avere alcun valore precettivo o vincolante.

Peraltro la normativa finanziaria censurata dalla Regione ricorrente non presenterebbe, ad avviso dell’Avvocatura, alcuna peculiare attinenza diversificata alla Regione Siciliana, valendo uniformemente per tutto il territorio nazionale.

Nella successiva memoria presentata in vista dell’udienza, la difesa del Presidente del Consiglio precisa che il telegramma di convocazione, che viene prodotto, non recava alcuna limitazione ed era diretto a tutti i Presidenti delle Regioni a statuto speciale: l’art. 16 allegato al telegramma avrebbe avuto unicamente la funzione di richiamare l’attenzione della Regione su un argomento che interessava la Regione stessa.

Quanto alle modalità di convocazione, afferma l’Avvocatura nella memoria che il disegno di legge finanziaria, per prassi costante, viene completato solo nel giorno antecedente la discussione in Consiglio dei ministri ed é distribuito ai ministri nella stessa mattina del giorno della seduta. La convocazione del Presidente della Regione sarebbe stata effettuata con tempi e modi identici a quelli praticati per i ministri e gli altri Presidenti regionali, nelle forme compatibili con i caratteri della delibera di approvazione della legge finanziaria e con l’urgenza ad essa collegata.

6.- In relazione al secondo motivo del ricorso, l’Avvocatura erariale osserva che le norme di legge ordinaria devono essere interpretate in modo conforme alle norme dello statuto, che sono di rango costituzionale: il fatto che non sia espressamente sancita l’esclusione della Regione Siciliana dall’applicazione di alcune norme non comporterebbe affatto che tale esclusione non sia implicita.

Nella successiva memoria si precisa che l’espressa menzione delle Province autonome di Trento e di Bolzano e della Regione Valle d’Aosta é giustificata dalla particolarità della disciplina colà in vigore, in quanto la gestione del personale scolastico é trasferita o delegata a detti enti.

Secondo l’Avvocatura, il comma 70 dell’art. 1 della legge, concernente la riorganizzazione della rete scolastica, é norma di carattere generale che trova applicazione su tutto il territorio nazionale, ma in Sicilia tale applicazione avviene in conformità allo statuto e alle norme di attuazione, come é esplicitamente previsto nell’art. 12 dello schema di decreto interministeriale predisposto dal Ministero della pubblica istruzione. Nella memoria successiva si aggiunge che in effetti la Regione ha prospettato al Ministero il piano di riorganizzazione della rete scolastica, sul quale il Ministero, con nota in data 2 luglio 1997, ha espresso l’intesa.

7.- Sul terzo motivo del ricorso la difesa del Presidente del Consiglio osserva che questa Corte, nella sentenza n. 429 del 1996, ha giudicato infondato il dubbio di legittimità costituzionale che investiva una clausola legislativa (art. 3, comma 241, della legge n. 549 del 1995) testualmente identica a quella contenuta nell’art. 3, comma 216, della legge impugnata, e ha precisato che il requisito della novità dell’entrata può ritenersi soddisfatto anche con riferimento a entrate derivanti dall’aumento delle aliquote di imposte preesistenti.

Le norme qui censurate, inoltre, solo in parte determinerebbero entrate aggiuntive relative a tributi preesistenti, mediante la rimodulazione di una serie di imposte erariali attraverso l’accorpamento delle aliquote; per il resto prevederebbero anche nuovi tributi strutturalmente destinati alle Regioni, come l’IRAP e l’addizionale regionale all’IRPEF, ovvero nuovi tributi erariali specificamente destinati al perseguimento delle linee di politica economica e finanziaria in vista della partecipazione dell’Italia all’unione monetaria europea (c.d. contributo per l’Europa).

8.- In relazione al quarto motivo del ricorso, l’Avvocatura erariale osserva che il comma 158 dell’art. 3 della legge impugnata fa espresso riferimento alle "limitazioni richieste dalla speciale autonomia finanziaria preordinata dall’art. 36 dello Statuto regionale e dalle relative norme di attuazione". Dall’art. 2, primo comma, del d.P.R. n. 1074 del 1965 si ricaverebbe che le norme tributarie dello Stato dispongono in modo unitario per tutto il territorio nazionale e sono applicabili anche nella Regione Siciliana, la quale potrà e dovrà legiferare in via attuativa facendo uso dei suoi ordinari poteri legislativi.

Le disposizioni richiamate in tema di imposta regionale sulle attività produttive – conclude l’Avvocatura – non invadono il campo dell’autonomo potere regionale di istituzione di nuovi tributi.

Considerato in diritto

1.- Le questioni di legittimità costituzionale proposte col ricorso della Regione Siciliana concernono quattro diverse disposizioni contenute nella legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

Si tratta del comma 85 dell’art. 1, impugnato nella parte in cui non esclude la Regione Siciliana dall’applicazione delle disposizioni dei commi da 70 a 80 dello stesso articolo; del comma 154 dell’art. 2, che riserva all’erario le entrate derivanti dai commi da 133 a 165 dello stesso articolo; del comma 158 dell’articolo 3, che prevede l’attuazione da parte della Regione Siciliana, con propria legge, dei decreti legislativi delegati emanati in base ai commi da 143 a 149 dello stesso articolo; infine del comma 216 del medesimo art. 3, che riserva all’erario le entrate derivanti dall’insieme della legge n. 662 del 1996.

Con ordinanza in data 11-22 febbraio 1999 questa Corte, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale proposte nei confronti dell’art. 2, comma 154, e dell’art. 3, comma 216, ha disposto in via istruttoria l’acquisizione di informazioni e documenti, riservata ogni altra decisione sul ricorso.

In questa sede, stralciate tali questioni, la Corte é dunque chiamata a decidere sulle rimanenti due, concernenti rispettivamente il comma 85 dell’art. 1 e il comma 158 dell’art. 3, oltre che sul profilo comune di illegittimità sollevato nei confronti di tutte le disposizioni impugnate, per violazione dell’art. 21, terzo comma, dello statuto speciale, profilo a sua volta estraneo all’oggetto della disposta istruttoria.

2.- Col primo motivo del ricorso la Regione Siciliana censura le quattro disposizioni impugnate in quanto il procedimento legislativo che ha portato alla formazione delle stesse sarebbe stato iniziato e completato senza che il Presidente della Regione abbia potuto prendere parte alla fase della iniziativa legislativa del Governo, intervenendo al Consiglio dei ministri secondo quanto prevede l’art. 21, terzo comma, dello statuto, ai cui sensi il Presidente regionale "col rango di Ministro partecipa al Consiglio dei ministri con voto deliberativo nelle materie che interessano la Regione". L’interesse regionale sarebbe da ritenere sussistente nei confronti delle norme impugnate, in quanto esse producono i loro effetti in materie nelle quali alla Regione sono attribuiti poteri che caratterizzano la sua speciale autonomia.

3.- La censura é inammissibile.

La sua proposizione nel presente ricorso, come ricorda la stessa Regione ricorrente, fa seguito al ricorso per conflitto di attribuzioni, proposto ritualmente dalla stessa Regione in riferimento alla delibera del Consiglio dei ministri, in data 27 settembre 1996, di approvazione del disegno di legge poi divenuto la legge n. 662 del 1996 (erroneamente indicato come disegno di legge finanziaria per il 1997), ricorso nel quale si lamentava che la partecipazione del Presidente regionale – necessaria, ad avviso della ricorrente, sull’intero disegno di legge, per l’interesse regionale che avrebbe caratterizzato la materia in esso trattata – fosse stata invece limitata alla sola disposizione dell’art. 16, in tema di partecipazione della Regione al finanziamento della spesa sanitaria.

Questa Corte, con sentenza n. 92 del 1999, ha respinto nel merito detto ricorso, ribadendo che la partecipazione, garantita dallo statuto, del Presidente della Regione al Consiglio dei ministri é limitata agli oggetti riguardo ai quali sussista un interesse differenziato della singola Regione; chiarendo che il disegno di legge in questione non presentava nel suo complesso tale carattere, avendo contenuti assai vari, unificati solo dall’essere finalizzati alla manovra di bilancio; e osservando che la Regione ricorrente non aveva indicato altre specifiche disposizioni del disegno di legge che presentassero il requisito richiesto per giustificare la partecipazione del Presidente della Regione.

Non é necessario, in questa sede, affrontare il problema se la mancata partecipazione del Presidente regionale al Consiglio dei ministri che ha deliberato di adottare l’iniziativa legislativa possa essere fatta valere come vizio di legittimità costituzionale della legge, una volta che questa sia stata approvata dal Parlamento, o se essa possa invece essere denunciata solo in sede di conflitto di attribuzioni nei riguardi della deliberazione governativa, al cui esito di accoglimento dovrebbero valutarsi gli eventuali effetti sul procedimento parlamentare. Nella specie sussistono infatti due decisive ragioni che impediscono comunque l’esame nel merito della censura.

Da un lato, sta di fatto che tre delle quattro disposizioni denunciate, e cioé il comma 85 dell’art. 1, il comma 154 dell’art. 2 e il comma 158 dell’art. 3, non erano incluse, nè nella forma attuale, nè in altra forma, nel disegno di legge approvato dal Governo il 27 settembre 1996: esse traggono infatti origine da emendamenti aggiuntivi proposti nella sede parlamentare. Precisamente, il comma 85 dell’art. 1 deriva da un emendamento Zeller e altri approvato dalla V Commissione della Camera dei deputati (Atti Camera, Commissione V, seduta del 27 ottobre 1996, pagg. 8 e 29); il comma 154 dell’art. 2 deriva dal comma 22 di un articolo aggiuntivo (42-bis) presentato alla Camera come emendamento del Governo (cfr. Atti Camera, seduta del 14 novembre 1996, pagg. 2705 e 2710); il comma 158 dell’art. 3 deriva da un articolo aggiuntivo (64-bis) proposto come emendamento D’Alì e accolto in Commissione al Senato (cfr. Atti Senato, Commissioni V e VI riunite, seduta antimeridiana del 6 dicembre 1996, pagg. 31 e 110).

E’ evidente che in relazione a queste disposizioni non é in alcun caso proponibile una censura riferita alla mancata partecipazione del Presidente regionale al Consiglio dei ministri in sede di deliberazione dell’iniziativa legislativa.

Dall’altro lato, per quanto riguarda la quarta disposizione impugnata, cioé il comma 216 dell’art. 3, si tratta bensì di una disposizione già presente nel disegno di legge deliberato dal Governo (all’art. 82). Ma la censura in esame non può comunque avere ingresso in questa sede, dopo che il ricorso per conflitto di attribuzioni, proposto dalla Regione Siciliana avverso la delibera governativa, per rivendicare la partecipazione necessaria del Presidente regionale in relazione all’intero disegno di legge – senza peraltro, nemmeno in via subordinata, indicare l’art. 82 del disegno di legge (cui corrisponde l’art. 3, comma 216, della legge) come oggetto di uno specifico interesse regionale suscettibile di giustificare detta partecipazione – é stato respinto nel merito da questa Corte, con la citata sentenza n. 92 del 1999. Una ulteriore decisione di merito si configurerebbe infatti come un inammissibile bis in idem.

4.- Con il secondo motivo del ricorso si censura il comma 85 dell’art. 1 della legge impugnata, nella parte in cui non prevede di escludere anche la Regione Siciliana – come esclude la Regione Valle d’Aosta e le Province autonome di Trento e di Bolzano, che disciplinano la materia nell’ambito delle competenze derivanti dalle rispettive norme statutarie e di attuazione – dall’applicazione delle disposizioni dei commi da 70 a 80 dello stesso articolo. Si tratta delle disposizioni che hanno ad oggetto la definizione di criteri e parametri per la riorganizzazione della rete scolastica; la rideterminazione degli organici del personale della scuola e delle dotazioni organiche delle singole scuole, nonchè dell’organico funzionale di ciascun circolo didattico; le assunzioni di personale docente, i termini per la presentazione e la revoca delle dimissioni, la riconversione del personale in esubero, l’insegnamento dell’educazione fisica, le supplenze, le spese per gli accertamenti ai fini del riconoscimento legale o del pareggiamento di scuole, la spesa per i compensi relativi agli esami di maturità.

Secondo la ricorrente la mancata esclusione della Regione Siciliana dall’applicazione di tali disposizioni lederebbe le norme statutarie e di attuazione che attribuiscono ad essa competenza legislativa e amministrativa in materia di istruzione, contrastando con la disciplina dell’art. 51 del d.lgs. n. 297 del 1994, che comporterebbe l’adozione del piano di razionalizzazione della rete scolastica, per il territorio siciliano, con provvedimenti dell’Assessore regionale previa intesa con il Ministero della pubblica istruzione.

5.- La questione é infondata.

Essa investe il comma 85 dell’art. 1, lamentando che esso non estenda alla Regione Siciliana la norma che esclude l’applicabilità delle disposizioni precedenti ad altri enti ad autonomia speciale. Ma, nella sostanza, la pretesa violazione dell’autonomia discenderebbe non tanto dalla asserita "lacuna" nel comma 85, quanto dalle disposizioni dei commi da 70 ad 80, la cui efficacia si estende anche al territorio della Regione ricorrente: onde é a queste che occorre riferirsi per individuare la portata della questione.

Così precisato l’oggetto della censura, la Corte osserva che la disciplina contenuta nei commi da 70 a 80 dell’art. 1 concerne l’adozione di misure pianificatorie di riorganizzazione della rete scolastica e di revisione degli organici del personale scolastico, volte "al fine di garantire maggiore efficacia alla spesa complessiva per l’istruzione pubblica" (comma 70, primo periodo).

La ricorrente, pur lamentando la violazione delle norme statutarie che attribuiscono alla Regione competenza legislativa, in parte primaria, in parte concorrente, in materia di pubblica istruzione, motiva poi le proprie censure in relazione non tanto all’esercizio da parte dello Stato della potestà normativa nella materia, quanto all’attribuzione ad uffici statali (i provveditorati agli studi) della competenza ad adottare i piani di aggregazione, fusione, soppressione di scuole e istituti di istruzione (comma 70, quinto periodo), competenza che invece, ad avviso della medesima ricorrente, nel territorio siciliano dovrebbe essere esercitata, in forza dello statuto e delle norme di attuazione in applicazione dell’art. 51 del d.lgs. n. 297 del 1994, dall’Assessore regionale, previa intesa col Ministero.

L’efficacia delle norme statali anche nel territorio regionale, nella specie, si giustifica da un lato in forza dell’assenza di una legislazione regionale che disciplini la specifica materia (fermo restando il potere della Regione di intervenire con la propria legislazione, nei limiti volta a volta stabiliti dallo statuto, alla lettera r dell’art. 14 e alla lettera d dell’art. 17), dall’altro lato in base alla circostanza che l’amministrazione scolastica in Sicilia é tuttora, dal punto di vista strutturale, amministrazione statale: infatti, ai sensi dell’art. 9, primo comma, del d.P.R. n. 246 del 1985, per l’esercizio delle funzioni in materia di istruzione, trasferite alla Regione o ad essa devolute ai sensi dell’art. 20, primo comma, seconda parte, dello statuto (funzioni cioé, queste ultime, che l’amministrazione regionale svolge "secondo le direttive del Governo dello Stato": art. 5, primo comma, del decreto), questa si avvale degli organi e degli uffici periferici del Ministero della pubblica istruzione e del personale ivi in servizio; e, ai sensi dell’art. 4, primo comma, lettera f, del medesimo decreto, restano in capo allo Stato le attribuzioni (e i relativi oneri) concernenti lo stato giuridico ed il trattamento economico del personale in servizio presso gli uffici statali esistenti in Sicilia, nonchè del personale delle scuole della Regione. A sua volta, l’art. 6 delle citate norme di attuazione di cui al d.P.R. n. 246 del 1985 prevede che le variazioni degli organici del personale statale vengano effettuate dai competenti organi statali, anche se rese necessarie a seguito della istituzione di nuove scuole deliberata "in base ai piani predisposti dalla Regione d’intesa con l’amministrazione statale".

Ben si comprende dunque come la disciplina statale dei piani di riorganizzazione delle reti scolastiche, che vanno in definitiva ad incidere sugli organici del personale scolastico, si applichi anche in Sicilia: mentre la diversa situazione esistente nella Regione Valle d’Aosta (ove l’amministrazione scolastica é regionalizzata, e il personale della scuola é inserito in appositi ruoli amministrati dalla Regione, con oneri finanziari a carico di questa: artt. 1 e 2 del d.P.R. n. 861 del 1975), e nelle Province autonome di Trento e di Bolzano (ove pure vi é stata una larga devoluzione alle Province stesse di funzioni e di relativi oneri in materia di personale della scuola, e spetta alle Province la formazione dei piani per la istituzione di scuole nel rispettivo territorio: cfr. artt. 2 e 5 del d.P.R. 15 luglio 1988, n. 405, come sostituiti dagli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 433 del 1996; artt. 1 e 4 del d.P.R. 10 febbraio 1983, n. 89, come modificati dagli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 434 del 1996; e art. 15 del medesimo d.lgs. n. 434 del 1996) spiega la esclusione espressa delle medesime dalla applicazione delle nuove norme considerate, essendo colà rimessa agli enti autonomi la disciplina della materia nell’ambito delle competenze derivanti dalle rispettive norme statutarie e di attuazione.

6.- Ciò non significa che non trovino comunque applicazione in Sicilia le norme che disciplinano il riparto di funzioni amministrative fra Stato e Regione: nella specie, l’adozione dei piani di aggregazione, fusione, soppressione di scuole e istituti di istruzione, pur nel silenzio dell’art. 1, comma 70, della legge n. 662 del 1996, seguirà le regole derivanti da tale riparto, che prevedono, come si é visto, "piani predisposti dalla Regione d’intesa con l’amministrazione statale" (art. 6 del d.P.R. n. 246 del 1985). Così del resto, a quanto ha documentato la difesa del Presidente del Consiglio, senza contestazione da parte della Regione ricorrente, é già di fatto avvenuto.

Questa essendo la portata delle norme oggetto dell’impugnazione, le censure della ricorrente risultano prive di fondamento.

7.- Con il quarto motivo del ricorso la Regione censura il comma 158 dell’art. 3 della legge impugnata, ai cui sensi la Regione stessa "provvede con propria legge all’attuazione" dei decreti legislativi emanati sulla base delle deleghe contenute nei commi da 143 a 149 dello stesso articolo, in tema di istituzione della nuova imposta regionale sulle attività produttive e dell’addizionale regionale sull’IRPEF, di contestuale abolizione di tributi erariali e locali, di revisione della disciplina dell’IRPEF e di alcuni tributi locali, "con le limitazioni richieste dalla speciale autonomia finanziaria preordinata dall’articolo 36 dello Statuto regionale e dalle relative norme di attuazione".

Ad avviso della ricorrente, tale norma contrasterebbe con la speciale autonomia della Regione Siciliana, in quanto riconosce solo il potere di "attuare" le nuove disposizioni, mentre lo statuto e le norme di attuazione attribuirebbero ad essa il potere di istituire tributi propri nei limiti dei principi del sistema tributario dello Stato.

8.- La questione é infondata.

Il testo dell’art. 36 dello statuto della Regione Siciliana lascia trasparire una originaria concezione dell’ordinamento finanziario ispirata ad una netta separazione fra finanza statale e finanza regionale. Esso infatti stabilisce che "al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima", e che "sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del lotto", come pure, ai sensi del successivo art. 39, i tributi doganali. Queste disposizioni sembrerebbero alludere ad un sistema in cui il potere di disporre il prelievo tributario si esercita, quanto allo Stato, in un’"area" di materia imponibile ad esso riservata, e quanto alla Regione in tutta la restante area o per tutte le restanti possibili materie imponibili, in base a scelte autonome della Regione stessa: la quale, peraltro, dovrebbe provvedere con i propri mezzi al fabbisogno finanziario connesso alle sue funzioni, salvo il trasferimento da parte dello Stato del fondo di "solidarietà nazionale", previsto dall’art. 38 dello stesso statuto, tendente a "bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto alla media nazionale".

In realtà, come é ben noto, questo disegno abbozzato o prospettato nello statuto – mai coordinato in seguito con la Costituzione – non si é sviluppato nell’ordinamento. Le norme di attuazione hanno delineato un assetto ben diverso.

Il d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, ha tradotto la previsione statutaria in un sistema di finanziamento sostanzialmente basato sulla devoluzione alla Regione del gettito di tributi erariali riscosso nel suo territorio. Infatti l’art. 1 del decreto stabilisce che la Regione provvede al suo fabbisogno finanziario, oltre che mediante le entrate derivanti dai suoi beni demaniali e patrimoniali o connesse all’attività amministrativa di sua competenza, "mediante le entrate tributarie ad essa spettanti". Ma queste sono, secondo l’art. 2, che pure si rifà all’art. 36, primo comma, dello statuto, "oltre le entrate tributarie da essa direttamente deliberate, tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate, ad eccezione delle nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime": mentre "competono allo Stato" le entrate derivanti da determinate categorie di tributi nominativamente indicati. A sua volta l'art. 6 del decreto stabilisce che "salvo quanto la Regione disponga nell'esercizio e nei limiti della competenza legislativa ad essa spettante, le disposizioni delle leggi tributarie dello Stato hanno vigore e si applicano anche nel territorio della Regione", e che "nei limiti dei principi del sistema tributario dello Stato la Regione può istituire nuovi tributi in corrispondenza alle particolari esigenze della comunità regionale".

E’ evidente come ad una ipotetica potestà tributaria liberamente esercitabile in ogni area, ad eccezione di quelle riservate allo Stato, e costituente una fonte di alimentazione della finanza regionale del tutto separata da quella statale, si sia sostituita una potestà residuale, esercitabile al margine, per così dire, della potestà tributaria dello Stato (nella realtà economica, infatti, resta ben poco spazio per l’esercizio di una potestà impositiva autonoma aggiuntiva rispetto a quella esercitata dallo Stato, e per di più ristretta nei limiti dei principi del sistema tributario dello Stato): mentre la fonte principale di finanziamento della Regione é divenuto il gettito, regionalmente riscosso, dei tributi istituiti e regolati dalle leggi dello Stato, pienamente applicabili anche nel territorio della Regione Siciliana.

Resta alla Regione la possibilità (espressamente riconosciuta dal primo inciso dell’art. 6 del d.P.R. n. 1074 del 1965) di intervenire legislativamente anche sulla disciplina dei tributi erariali, ma nei limiti segnati dai principi del sistema tributario statale e dai principi della legislazione statale per ogni singolo tributo, limiti che la giurisprudenza di questa Corte ha ricondotto anche all’"esigenza fondamentale" di unitarietà del sistema tributario e a quella del coordinamento con la finanza dello Stato e degli enti locali, "affinchè non derivi turbamento ai rapporti tributari nel resto del territorio nazionale" (sentenza n. 9 del 1957).

Per converso, l’ordinamento finanziario instaurato nei riguardi della Regione Siciliana, fondato sulla devoluzione del gettito della maggior parte dei tributi erariali, mentre ha condotto ad una sostanziale assenza di esercizio di potestà impositiva autonoma, ha visto lo Stato, da un lato, mantenere a carico del proprio bilancio oneri connessi, oltre che ad interventi straordinari di sviluppo, a settori dell’amministrazione pur riconducibili a competenze statutariamente attribuite alla Regione (come nel caso, sopra esaminato al n. 5, dell’istruzione); dall’altro, far partecipare la Regione al riparto di fondi nazionali istituiti per diverse finalità (dal fondo per i programmi regionali di sviluppo, al fondo sanitario nazionale, al fondo per il ripiano dei disavanzi di esercizio delle aziende di trasporto); di recente, infine, tendere a contenere l’espansione della finanza regionale, collegata all’aumento del prelievo tributario su base nazionale, sia attraverso la riduzione o la esclusione della partecipazione regionale al riparto dei fondi nazionali (cfr., in proposito, sentenza n. 381 del 1990, in relazione agli artt. 18, 19 e 20 del d.l. 28 dicembre 1989, n. 415), sia attraverso il ricorso a clausole di riserva all’erario di nuove entrate tributarie altrimenti destinate alla Regione (cfr. in proposito, ad esempio, sentenze n. 362 del 1993, n. 253 del 1996).

In questo quadro, non può ritenersi lesivo dell’autonomia regionale che la legge statale – nel contesto di una disciplina volta a sostituire con nuovi tributi alcuni tributi erariali e locali esistenti, e a rivedere alcuni aspetti del regime di altri tributi erariali e locali – preveda una legislazione regionale volta ad "attuare" tale disciplina, nell’ambito e nei limiti, espressamente richiamati, della "speciale autonomia finanziaria" della Regione Siciliana, come delineata nello statuto e nelle norme di attuazione, e quindi anche con i margini di autonomia legislativa che alla Regione si riconoscono. Anzi tale previsione si configura come una clausola di salvaguardia della specialità dell’autonomia siciliana in questa materia, introdotta nel momento in cui il legislatore statale apprestava una serie di misure nel campo tributario volte fra l’altro proprio ad avviare, in tutto il territorio nazionale, un sistema di finanziamento delle Regioni e degli enti locali fondato in maggior misura sull’utilizzo della "capacità fiscale" delle rispettive comunità, sia pure poi adottando misure di riequilibrio, e in minor misura sulla tradizionale finanza di trasferimento.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 85, 2, comma 154, 3, commi 158 e 216, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevate, in riferimento all’art. 21, terzo comma, dello statuto speciale, dalla Regione Siciliana con il ricorso in epigrafe;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 85, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevata, in riferimento agli articoli 14, lettera r, 17, lettera d, e 20 dello statuto speciale e alle norme di attuazione di cui al d.P.R. 14 maggio 1985, n. 246, dalla Regione Siciliana con il ricorso in epigrafe;

c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 158, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevata, in riferimento all’art. 36 dello statuto speciale e alle norme di attuazione di cui al d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, dalla Regione Siciliana con il ricorso in epigrafe;

d) si riserva, all’esito dell’istruttoria disposta con l’ordinanza 11 – 22 febbraio 1999, ogni decisione sulle questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 154, e 3, comma 216, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevate, in riferimento all’art. 36 dello statuto speciale, all’art. 2 delle norme di attuazione di cui al d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, nonchè ai principi di certezza del diritto e di leale cooperazione, dalla Regione Siciliana con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 2 aprile 1999.