Sentenza n. 101/99

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SENTENZA N. 101

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale, in relazione all’art. 378 dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 1998 dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento penale a carico di Rita Vergnano, iscritta al n. 436 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1998.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 25 novembre 1998 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

  1. — La Corte d’appello di Torino solleva, con ordinanza del 6 febbraio 1998, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, cod. pen. (Ritrattazione), nella parte in cui non stabilisce che la speciale causa di non punibilità ivi prevista valga anche in relazione al reato di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.) che sia integrato da false o reticenti dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, allorchè questa proceda al compimento dell’atto su delega del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 370, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen..

   Ad avviso del giudice a quo, l’impossibilità di applicare la norma sulla ritrattazione al reato di favoreggiamento personale, commesso mediante false informazioni alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero, determina una irragionevole disparità di trattamento di casi analoghi e assimilabili.

  Il rimettente muove dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, che da un lato individua appunto nella fattispecie del favoreggiamento personale quella cui riferire la condotta del falso dichiarativo alla polizia giudiziaria, e che dall’altro esclude, per il principio di stretta legalità, che la stessa condotta possa essere inquadrata nel titolo di reato di cui all’art. 371-bis cod. pen. (False informazioni al pubblico ministero), anche quando la polizia giudiziaria operi su specifica delega del pubblico ministero.

  Poste tali premesse, ed essendo consentita in un caso (art. 371-bis) e nell’altro invece esclusa (art. 378) la possibilità per il falso dichiarante di giovarsi degli effetti sostanziali della ritrattazione, la differenziazione di disciplina che ne risulta appare al rimettente irrazionale, alla luce sia dell’identità dei beni giuridici coinvolti nei due casi, sia della stessa collocazione "cronologica" delle dichiarazioni poi ritrattate, in entrambi i casi inserite nella fase, procedimentale e non processuale, delle indagini preliminari.

  La Corte d’appello ricorda che nel passaggio dal testo del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, alla legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356, il legislatore ha eliminato, dalla fattispecie dell’art. 371-bis cod. pen. quale introdotta appunto dal decreto-legge, il riferimento alle false dichiarazioni alla "polizia giudiziaria". Ma, se ciò é indice della volontà legislativa di estromettere dall’area di applicazione della nuova fattispecie penale le informazioni false o reticenti rese alla polizia giudiziaria, allorchè questa agisca di propria iniziativa, non altrettanto sicura - secondo il rimettente - é la finalità di distinguere, rispetto alla nuova fattispecie, il caso in cui la polizia giudiziaria agisca su delega del pubblico ministero, giacchè in tale ipotesi essa esercita un potere-dovere derivato dall’organo di accusa, contrassegnato dai caratteri della subordinazione e dell’esecutività, e dunque suscettibile logicamente della medesima tutela che sul piano sostanziale é apprestata relativamente alla falsa dichiarazione resa direttamente dinanzi al pubblico ministero.

  A rafforzare questa prospettiva - prosegue la Corte d’appello rimettente - vale il rilievo della complessiva equiparazione processuale, quanto a regole di svolgimento dell’atto, quanto a prescrizioni di contenuto, e quanto a utilizzazione nel processo, tra le informazioni rese al pubblico ministero e le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria dal primo delegata.

  Benchè "livellate" sul piano del processo, dunque, in particolare sotto il profilo della sostanziale identità di valenza probatoria qualora "recuperate" al dibattimento, le due categorie di dichiarazioni in argomento sono diversificate solo sotto il profilo denunciato di incostituzionalità: con il paradosso, rileva il giudice a quo, di annettere efficacia a una ritrattazione di dichiarazioni rese al magistrato, e di negarla per quelle rese alla polizia giudiziaria delegata dal magistrato.

  Il dubbio di costituzionalità é altresì prospettato alla luce della sentenza n. 416 del 1996 della Corte costituzionale: in questa decisione, riguardante altra speciale causa di non punibilità (art. 384, secondo comma, cod. pen.), la Corte costituzionale, nell’estendere detta causa anche alle false o reticenti informazioni rese alla polizia giudiziaria e costituenti favoreggiamento personale, ha posto in risalto la medesima rilevanza, nel processo, delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero, e ha anche sottolineato la "paritaria gravità dei fatti", desumibile dalle determinazioni del legislatore circa la misura della pena, essendo oggi identica la reclusione comminata rispettivamente nell’art. 371-bis e nell’art. 378 cod. pen..

  Appare conclusivamente al giudice a quo irragionevole la lacuna normativa denunciata, poichè non applicare la ritrattazione alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero frustra l’interesse a incentivare le condotte idonee a neutralizzare, fin dove é possibile, la negativa incidenza delle originarie false dichiarazioni sul corretto svolgimento del processo.

  2. — E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che - richiamando e allegando altro atto di intervento, depositato in precedente giudizio di costituzionalità - ha concluso per l’infondatezza della questione.

  Secondo l’Avvocatura, la nuova fattispecie incriminatrice dell’art. 371-bis cod. pen. - originariamente comprensiva anche delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, previsione questa poi soppressa in sede di conversione del decreto-legge n. 306 del 1992 - é rivolta a garantire l’osservanza dell’obbligo di dichiarare quanto sia personalmente conosciuto, obbligo stabilito a carico delle persone esaminate dal pubblico ministero a norma dell’art. 362 cod. proc. pen.; tali persone, pur non rivestendo la qualità di testimoni, tuttavia ne ripetono i doveri e le facoltà, stabiliti negli artt. 197-203 dello stesso codice.

  Si tratta dunque di una tutela penale apprestata in relazione a dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria, rappresentata dal magistrato del pubblico ministero, che possono avere rilievo investigativo e che possono, nel prosieguo del giudizio, anche assumere il valore di prova.

  Inoltre l’Avvocatura dello Stato ricorda che, anche alla luce della sopra ricordata modifica del testo del decreto in sede di conversione, é dato acquisito, in giurisprudenza, che il reato previsto dall’art. 371-bis cod. pen. non sia configurabile allorchè le dichiarazioni false o reticenti vengano rese non al pubblico ministero ma alla polizia giudiziaria, sia che questa assuma le informazioni di propria iniziativa sia che ciò faccia su delega del pubblico ministero.

  Il legislatore, in tal modo, ha ritenuto di diversificare le false dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da soggetti diversi dall’indagato, a seconda dell’autorità che ne é destinataria, assimilando solo l’ipotesi delle dichiarazioni rese al pubblico ministero allo schema del reato di falsa testimonianza, con una scelta incensurabile sul piano della ragionevolezza. Ed é conforme a tale scelta - aggiunge l’Avvocatura - che solo per il nuovo reato di cui all’art. 371-bis sia stata prevista la possibilità di ritrattazione, appunto secondo il modello della testimonianza falsa o reticente, di cui la fattispecie più recente riprende l’obiettività giuridica. Per le dichiarazioni false o reticenti rese alla polizia giudiziaria continua invece ad applicarsi, sussistendone i presupposti, l’art. 378 cod. pen., che ha diversa obiettività.

  In tale quadro complessivo, l’inclusione nell’art. 376 del richiamo all’art. 371-bis e la mancata inclusione dell’art. 378 risultano, ad avviso dell’interveniente, ragionevoli e coerenti con le scelte anzidette; ne deriva la conclusione per l’infondatezza della questione di costituzionalità.

Considerato in diritto

  1. — La Corte d’appello di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non stabilisce che la ritrattazione, quale speciale causa di non punibilità dei reati di cui agli artt. 371-bis (False informazioni al pubblico ministero), 372 (Falsa testimonianza) e 373 (Falsa perizia o interpretazione) dello stesso codice, valga anche in riferimento al reato di favoreggiamento personale (art. 378) realizzato attraverso false o reticenti dichiarazioni rese in sede di informazioni assunte dalla polizia giudiziaria allorchè questa operi su delega del pubblico ministero (art. 370 cod. proc. pen.). Ad avviso del giudice rimettente, la mancata previsione della ritrattazione quale causa di non punibilità anche del caso testè indicato violerebbe l’art. 3, primo comma, della Costituzione, per la diversa rilevanza che assume la ritrattazione medesima, a seconda ch’essa concerna false dichiarazioni rese al pubblico ministero ovvero alla polizia giudiziaria che agisce su delega del pubblico ministero stesso, operando come causa di non punibilità nel primo caso ma non nel secondo, senza che sia data la possibilità di individuare, in relazione alla struttura delle condotte, alla loro valenza nel processo e ai beni giuridici tutelati, elementi distintivi idonei a giustificare la diversità di disciplina.

  2. — La questione é fondata.

  2.1. — All’esame della censura di incostituzionalità mossa all’art. 376, primo comma, cod. pen., deve premettersi che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, le false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria che opera su delega del pubblico ministero, ancorchè penalmente illecite, cadono, in ragione del principio di stretta legalità, fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 371-bis cod. pen.. Da questa interpretazione sorge la questione di costituzionalità che questa Corte é chiamata a decidere, questione che viceversa non avrebbe ragione di porsi ove la fattispecie in argomento fosse riconducibile a quella in astratto prevista dall’art. 371-bis, espressamente richiamato dall’impugnata disposizione in tema di non punibilità per ritrattazione.

  Ritiene invece la giurisprudenza comune che il silenzio, la reticenza e le dichiarazioni false alla polizia giudiziaria possano integrare - quando ne ricorrano gli elementi della fattispecie - il reato di favoreggiamento personale previsto dall’art. 378 cod. pen. e punito ora, dopo la modifica apportata dall’art. 20, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332, all’art. 371-bis cod. pen., con la medesima pena edittale comminata da quest’ultimo. E, una volta esclusa la riconducibilità all’art. 371-bis delle false dichiarazioni alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero, anche queste ultime possono assumere rilievo ai fini dell’integrazione del medesimo reato di favoreggiamento.

  Tuttavia, ai fini della risoluzione della presente questione di legittimità costituzionale, non é necessario procedere a un raffronto tra i reati previsti negli articoli anzidetti, per trovarvi elementi comuni o elementi differenziali che inducano a prendere posizione circa la razionalità della disposizione impugnata che prevede la ritrattazione come causa di non punibilità solo in un caso e non nell’altro.

  In breve: il rapporto tra le false dichiarazioni al pubblico ministero e il favoreggiamento personale resta sullo sfondo e l’applicabilità dell’art. 378 cod. pen. alle false dichiarazioni alla polizia giudiziaria vale come semplice premessa giurisprudenziale della questione posta all’attenzione della Corte. Tale questione consiste nella domanda se sia conforme al principio di uguaglianza, come espressione dell’esigenza di razionalità delle scelte legislative, l’esclusione della causa di non punibilità della ritrattazione nel caso delle false dichiarazioni alla polizia giudiziaria specificamente delegata dal pubblico ministero (integranti la fattispecie dell’art. 378 cod. pen.), mentre tale causa di non punibilità vale nel caso delle false dichiarazioni rese al pubblico ministero stesso.

  2.2. — Per cogliere l’irrazionalità insita nella disciplina denunciata, é sufficiente osservare che l’assunzione diretta e personale da parte del pubblico ministero (art. 370, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen.) di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 362 cod. proc. pen.) e l’assunzione delle medesime informazioni avvalendosi della polizia giudiziaria a ciò delegata (art. 370, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen.) costituiscono esclusivamente forme diverse della medesima attività, facente sostanzialmente capo comunque al pubblico ministero nell’esercizio dei poteri che a esso spettano quale organo che dirige le indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale (artt. 326 e 327 cod. proc. pen.). E’ così che da un lato, in generale, si giustifica l’art. 370, comma 2, cod. proc. pen., il quale, per lo svolgimento dell’attività e il compimento degli atti delegati alla polizia giudiziaria, rinvia alle forme di garanzia procedurale e alle regole di documentazione previste per le indagini svolte direttamente dal pubblico ministero; e, dall’altro, si spiega la necessaria equivalenza, quanto a utilizzabilità nel seguito del processo, degli atti diretti e di quelli delegati (oltre all’art. 503, comma 5, cod. proc. pen., in tema di acquisizione di atti al fascicolo per il dibattimento, v. sentenza n. 60 del 1995, nonchè sentenza n. 381 del 1995).

  Di fronte a tale convergenza di disciplina, corrispondente a un’unitarietà di ratio che sorregge le norme relative alle attività d’indagine e alla loro valenza processuale, quale che sia l’autorità che procede ad assumere le informazioni - il pubblico ministero o la polizia giudiziaria su delega di questo -, la diversità di trattamento che la norma impugnata introduce, circa gli effetti della ritrattazione nell’un caso e nell’altro, appare priva di ogni ragionevole giustificazione e quindi sicuramente arbitraria.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, del codice penale nella parte in cui non prevede la ritrattazione come causa di non punibilità per chi, richiesto dalla polizia giudiziaria, delegata dal pubblico ministero a norma dell’art. 370 del codice di procedura penale, di fornire informazioni ai fini delle indagini, abbia reso dichiarazioni false ovvero in tutto o in parte reticenti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 30 marzo 1999.