Sentenza n. 42/99

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SENTENZA N. 42

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), promosso con ordinanza emessa il 28 maggio 1997 dal Pretore di Parma sul ricorso proposto da Mezzi Gaia contro l’INPS iscritta al n. 531 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 1999 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;

udito l’avvocato Carlo De Angelis per l’INPS.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di una controversia in materia previdenziale promossa per il riconoscimento del diritto alla quota di pensione di riversibilità per una figlia convivente, studentessa universitaria, il Pretore di Parma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), in riferimento agli artt. 3, 4, 34, 35, 36 e 38 della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che la figlia della ricorrente, durante il periodo quadriennale nel quale era regolarmente iscritta al corso di laurea in lettere e filosofia, aveva svolto per un giorno alla settimana un’attività lavorativa, percependo un reddito netto di circa duecentocinquantamila lire mensili. In conseguenza della titolarità di tale reddito l’INPS non aveva erogato la quota del 20 per cento della pensione di riversibilità spettante alla giovane in conseguenza della morte del padre, poichè la norma impugnata pone come condizioni per il godimento di tale prestazione previdenziale l’essere a carico del genitore al momento del decesso e la mancata prestazione di un lavoro retribuito.

Ad avviso del rimettente la norma impugnata non consente alcuna interpretazione diversa da quella che porterebbe, nel caso specifico, al rigetto del ricorso; tale interpretazione, però, confligge con gli evocati parametri costituzionali. La rigidità della previsione, infatti, non consentendo alcun margine di prova in ordine all’effettiva consistenza del reddito di cui si dispone, viola il principio di eguaglianza, perchè discrimina i possessori di reddito da lavoro rispetto ai titolari di redditi diversi (per esempio, da patrimonio), ostacola il diritto agli studi, lede gli artt. 4 e 35 Cost., perchè finisce col negare agli studenti il diritto al lavoro, e viola anche l’art. 38 Cost., perchè non tutela adeguatamente i superstiti che non sono in grado di procurarsi i mezzi necessari per mantenersi.

Il Pretore, quindi, ha chiesto che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma in esame, quanto meno nella parte in cui non consente di dimostrare che la percezione del reddito non ostacola, in realtà, l’effettivo adempimento degli obblighi di studio.

2.— Nel giudizio davanti a questa Corte si é costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale, chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.

L’ente previdenziale ha osservato, a sostegno delle proprie conclusioni, che una questione identica a quella odierna é già stata dichiarata inammissibile con la sentenza n. 926 del 1988; in quell’occasione si disse che la determinazione dei limiti di reddito idonei a far venire meno lo stato di bisogno deve essere stabilita dal legislatore, e una simile motivazione può adattarsi perfettamente anche nella sede attuale.

In prossimità dell’udienza l’INPS ha depositato una memoria modificando, almeno in parte, le conclusioni in precedenza rassegnate.

Osserva l’ente previdenziale che la norma impugnata richiede, per il riconoscimento del diritto alla quota di pensione di riversibilità, la sussistenza di due requisiti, ossia quello della vivenza a carico e quello della mancanza di un lavoro retribuito. Nel caso specifico é necessario interpretare il senso dell’espressione "lavoro retribuito" utilizzata dal legislatore, e ciò anche alla luce della sentenza n. 406 del 1994 di questa Corte, secondo la quale il diritto alla pensione si collega all’impossibilità per l’orfano di procurarsi un reddito in conseguenza della propria dedizione agli studi. E’ evidente, quindi, che il riferimento al lavoro retribuito non può che rivolgersi ad una normale prestazione stabile e duratura, dovendosi invece ritenere esclusa un’attività lavorativa saltuaria e precaria, che non pregiudica il compimento degli studi.

Ne consegue che la norma impugnata, ove interpretata in tal modo, si sottrae alle lamentate censure di illegittimità costituzionale.

Considerato in diritto

1.— Il Pretore di Parma dubita che l’art. 22, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903 (che ha modificato l’art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, in precedenza già modificato dall’art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218), nel prevedere per i figli infraventiseienni iscritti all’università il diritto alla quota di pensione di riversibilità del genitore defunto subordinatamente alla mancanza di una lavoro retribuito (oltre al requisito della vivenza a carico), sia in contrasto con gli artt. 3, 4, 34, 35, 36 e 38 della Costituzione, e ciò in quanto sarebbero violati:

1) i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, perchè si discriminano i possessori di reddito da lavoro rispetto ai titolari di redditi diversi (art. 3 Cost.);

2) il diritto agli studi (art. 34 Cost.);

3) il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.);

4) gli artt. 36 e 38 Cost., perchè non vengono tutelati adeguatamente i superstiti che non sono in grado di procurarsi i mezzi necessari per vivere, ed ai genitori non viene consentito di provvedere al mantenimento dei propri figli anche dopo la morte.

2.— La questione non é fondata, seguendo l’interpretazione che verrà ora precisata.

La norma sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale, nel fissare i requisiti per il godimento della quota di pensione di riversibilità (che spetta ai figli inabili di qualunque età) per gli altri orfani dediti agli studi, stabilisce che il relativo diritto, normalmente destinato a venir meno con il raggiungimento della maggiore età, si può prolungare fino al ventunesimo o ventiseiesimo anno del figlio in caso di frequenza, rispettivamente, di una scuola media professionale o dell’università. Ma tale prolungamento é soggetto a due condizioni: l’essere a carico del genitore al momento del decesso di questi e la mancata prestazione di un "lavoro retribuito". La doglianza del giudice rimettente si appunta su quest’ultimo requisito, prospettandosi l’illegittimità costituzionale dell’automatica esclusione del diritto anche in presenza di un reddito di lavoro in ipotesi assai modesto.

3.— Questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni su questioni che, pur non del tutto coincidenti, riguardavano i rapporti tra diritto alla quota di pensione di riversibilità e titolarità di redditi da parte degli orfani.

Già con la sentenza n. 145 del 1987, relativa ai figli maggiorenni inabili al lavoro ed al particolare regime dei dipendenti ENASARCO, si osservava l’intrinseca irrazionalità derivante dalla "inesorabile" esclusione della pensione di riversibilità per la mera titolarità, da parte dell’orfano, di un reddito anche "nummo uno", poichè la generalizzazione di tale inevitabile collegamento finiva col rendere inoperante la funzione stessa della pensione di riversibilità, che é quella di dare garanzia di continuità nel sostentamento dei figli dopo la morte del genitore che era onerato del loro mantenimento. "Una volta esclusa (soggiungeva quella pronuncia di illegittimità costituzionale) l’operatività di una condizione negativa così in antitesi con i più elementari canoni dell’equità e della logica, l’eventuale indicazione di un particolare limite reddituale non rientra nei poteri di questa Corte", ma spetta agli interpreti o al legislatore.

Riallacciandosi a quest’ultimo rilievo, la successiva sentenza n. 926 del 1988 – nella quale era in esame la stessa norma oggi impugnata – pur di fronte all’esigenza di doverosa tutela della situazione degli orfani studenti, perveniva ad una declaratoria di inammissibilità, osservando che "la determinazione, in via generale, dei limiti di reddito derivanti dal lavoro che possono essere ritenuti tali da far venire meno lo stato di bisogno spetta al legislatore, così come l’effettuazione delle possibili scelte"; e lo stesso dicasi per "la determinazione dei limiti di cumulabilità del trattamento pensionistico, specie di riversibilità, con i redditi di lavoro o assimilati".

Chiamata a decidere, dopo cinque anni, un’analoga questione sul regime pensionistico dell’ENASARCO, la Corte, riportandosi alle citate pronunce e rimeditando sugli effetti della rigidità della norma e dell’inerzia del legislatore, con la successiva sentenza n. 274 del 1993, ha evidenziato il parallelismo esistente tra i figli maggiorenni inabili ed i figli maggiorenni che, a causa della propria dedizione agli studi universitari, sono impossibilitati a procurarsi un reddito proprio. Per questa considerazione e per la riconosciuta necessità di un’adeguata tutela degli orfani nel loro diritto allo studio, la Corte é pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell’art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12 "nella parte in cui prevede la perdita del diritto alla pensione di riversibilità per i figli maggiorenni infraventiseienni che frequentino scuole o università, quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio, anzichè prevedere che dalla pensione di riversibilità sia decurtata la misura di tale reddito proprio".

4.— Rispetto alle predette sentenze, la questione oggi in esame si pone in linea di continuità, poichè denuncia – per il regime generale dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti – un problema simile a quello a suo tempo affrontato.

Ritiene tuttavia questa Corte che i precedenti sopra richiamati non siano in grado di offrire, pur nella loro fondamentale importanza (per la ratio da cui sono animati e per le prospettate soluzioni), una risposta del tutto appagante in ordine ai principi costituzionali invocati dall’ordinanza di rimessione.

Nella stessa ottica, la difesa dell’Istituto costituito, traendo spunto dai rilievi contenuti nella sentenza n. 406 del 1994 di questa Corte, premesso che il diritto dei predetti studenti ad una quota di pensione si collega essenzialmente all’impossibilità per gli orfani a carico di procurarsi un reddito in conseguenza della propria dedizione agli studi, osserva che il riferimento alla prestazione di un indistinto "lavoro retribuito" – come motivo di esclusione della quota di pensione – non può riguardare attività lavorative precarie, saltuarie e con minimo reddito, ma solo le normali prestazioni durature e con adeguata retribuzione.

Anche sulla base di tali deduzioni, si ritiene di dover fare propria una interpretazione della norma in grado di dare una soluzione maggiormente equilibrata rispetto agli interessi in gioco.

5.— In realtà la questione sollevata dal giudice a quo muove dal presupposto erroneo che l’espressione "lavoro retribuito" si riferisca ad ogni prestazione di lavoro ed a retribuzioni di qualsiasi misura. Nella società odierna, com’é noto, nella quale i giovani studenti sono spinti dalle più diverse motivazioni a cercare di accostarsi al mondo del lavoro fin dagli anni dell’università, non mancano situazioni, come quella prospettata dal giudice rimettente, nelle quali viene svolta un’attività di modesto rilievo e di esigua remunerazione.

Pertanto, qualora si versi in una situazione del genere (che dovrà essere di volta in volta valutata in concreto), la percezione di un piccolo reddito per attività lavorative, pur venendo a migliorare la situazione economica dell’orfano, non gli fa perdere la sua prevalente qualifica di studente; sicchè la totale eliminazione o anche la semplice decurtazione della quota di pensione di riversibilità si risolverebbe in una sostanziale lesione del diritto allo studio con deteriore trattamento dello studente, in contrasto coi principi di cui agli artt. 3, 4, 34 e 35 della Costituzione.

Così interpretata, la norma é immune dalle lamentate censure.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 34, 35, 36 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Parma con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1999.

Presidente Renato GRANATA

Redattore Fernando SANTOSUOSSO

Depositata in cancelleria il 25 febbraio 1999.