Sentenza n. 363/98

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SENTENZA N. 363

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI  

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO  

- Dott. Riccardo CHIEPPA  

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA  

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI  

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, del codice di procedura civile e degli artt. 25, numero 1, 23 e 26 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 27 febbraio 1997 dal Tribunale di Reggio Emilia sul reclamo proposto da S.A.I.PA. - Società Agricola Industriale Padana s.r.l. iscritta al n. 458 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1997.

  Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 1° luglio 1998 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

 

  1. - Nel corso di un giudizio di reclamo ex art. 26 della legge fallimentare, proposto avverso un provvedimento con cui il giudice delegato aveva dichiarato l'inefficacia di un'offerta in aumento di sesto in un procedimento d'incanto, il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza emessa il 27 febbraio 1997, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 51, numero 4, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede l'obbligo di astensione del giudice che abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, "in quanto non applicabile al giudice delegato al fallimento chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso provvedimenti decisori da lui stesso emessi"; b) dell'art. 25, numero 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui stabilisce che il giudice delegato riferisce al tribunale, allorchè sia richiesto un provvedimento collegiale, anche nel caso in cui sia proposto reclamo avverso provvedimenti da lui emessi; c) degli artt. 23 e 26 della stessa legge fallimentare, nella parte in cui non escludono che del collegio, che decide in sede di reclamo avverso provvedimenti decisori su diritti soggettivi, possa far parte il giudice delegato che tali provvedimenti ha emesso.

  Premette il rimettente di ritenere come "unica ammissibile" l'interpretazione della Corte di cassazione, secondo cui la partecipazione del giudice delegato al collegio decidente sul reclamo avverso i provvedimenti da lui emessi, trova la sua ragione nel principio di concentrazione processuale di ogni controversia negli organi della procedura, nonchè nella posizione del giudice delegato che garantisce la rapidità delle fasi processuali, la continuità e conoscenza delle situazioni coinvolte, così escludendo la violazione dell'art. 51, numero 4, del codice di procedura civile. E tale norma, peraltro - secondo una giurisprudenza ormai consolidata -, non impedirebbe comunque la partecipazione del giudice delegato al collegio decidente sul reclamo endofallimentare, dovendosi restrittivamente intendere il concetto di "grado".

  Ma, secondo il giudice a quo, le recenti affermazioni rese da questa Corte in materia di processo penale, con riferimento all'art. 34 cod. proc. pen. - in particolare nella sentenza n. 131 del 1996 - rendono evidente il contrasto del suddetto art. 51 con gli evocati parametri costituzionali.

  Osserva, infatti, il rimettente come il reclamo previsto dall'art. 26 della legge fallimentare abbia certamente natura impugnatoria di un provvedimento incidente su diritti soggettivi, là dove non rappresenta uno sviluppo o completamento di questo, bensì una reazione vòlta ad annullarlo o sostituirlo. Da ciò, la lesione dell'art. 24 Cost., per la violazione del principio della prevenzione - così come lumeggiato dalla richiamata decisione di questa Corte - e dell'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento rispetto al regime che vale per i creditori al di fuori delle procedure fallimentari.

  2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità ovvero per l'infondatezza della questione, ricordando anzitutto come, per quanto riguarda l'art. 51 cod. proc. civ., il grado del processo indica il momento processuale al termine del quale il giudice si spoglia della controversia, di talchè, come nel sistema del processo esecutivo, la partecipazione del giudice che abbia emesso il provvedimento impugnato ad una fase decisoria successiva risulta conforme al senso della norma, in particolare garantendo, nel caso del fallimento, la rapidità delle varie fasi processuali.

  Osserva altresì l'Avvocatura che in subiecta materia vanno conciliate la tutela d'interessi non strettamente privati e l'esigenza di un giudice imparziale, con sostanziali differenze di funzioni e caratteristiche rispetto al procedimento cautelare uniforme ma, soprattutto, con una "inestensibilità al caso de quo della giurisprudenza della Corte in materia di incompatibilità".

Considerato in diritto

 

  1. - Il Tribunale di Reggio Emilia dubita della legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., in quanto non prevede l'obbligo d'astensione del giudice delegato al fallimento, chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso i provvedimenti decisori da lui stesso emessi ed incidenti su diritti soggettivi. La censura - sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in ragione del differente trattamento riservato ai creditori al di fuori delle procedure concorsuali, nonchè della compressione del diritto di difesa, cagionata dalla "forza della prevenzione" - é dal giudice a quo estesa agli artt. 23, 25, numero 1, e 26 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), rispettivamente, nella parte in cui prevedono che il giudice delegato riferisca al tribunale in caso di richiesta di provvedimento collegiale anche quando si tratti di reclamo avverso provvedimenti da lui emessi e nella parte in cui non escludono, nella stessa ipotesi, la partecipazione al collegio di detto giudice.

  2. Le questioni non sono fondate.

  2.1. - L'istituto del reclamo al tribunale fallimentare avverso i provvedimenti adottati dal giudice delegato nell'esercizio dei suoi molteplici poteri decisori é stato oggetto di una serie d'interventi di questa Corte, vòlti ad assicurare le garanzie fondamentali del diritto di difesa.

  Le decisioni rese con riferimento al reclamo avverso i provvedimenti incidenti su diritti soggettivi (ed in particolare avverso i decreti di ripartizione dell'attivo: cfr. sentenze n. 118 del 1963 e n. 42 del 1981) - attraverso le quali venivano censurate la brevità dei termini, la decorrenza degli stessi a prescindere dalla conoscenza dell'interessato, la mancanza dell'obbligo di motivazione nonchè la facoltatività della motivazione - non trovavano una risposta nell'attività del legislatore. Tali sentenze, tuttavia, inducevano le sezioni unite della Corte di cassazione ad una ricostruzione del sistema, intesa a colmare le descritte lacune procedimentali rendendo applicabile al reclamo fallimentare la normativa dettata dagli artt. da 737 a 742-bis cod. proc. civ. per i procedimenti camerali. E di siffatta "costituzionalizzazione" dell'istituto prendeva sostanzialmente atto questa Corte nelle successive decisioni concernenti ulteriori aspetti del reclamo (v. sentenze n. 303 del 1965, n. 55 e, in particolare, n. 156 del 1986).

  La qualificazione del reclamo - risultante dall'art. 739 cod. proc. civ.- come grado ulteriore del giudizio, non é però estensibile al reclamo fallimentare, il quale rimane infatti nell'àmbito della stessa fase processuale, essendo da considerarsi come un momento dell'iter della procedura concorsuale, le cui peculiarità impongono speciali esigenze di continuità. Di queste esigenze - come meglio si dirà - il giudice delegato é sostanzialmente il garante; e in funzione di tale ruolo viene previsto dal denunciato art. 25, numero 1, il permanente raccordo che lo lega al collegio attraverso l'obbligo di riferire ad esso su ogni affare per il quale sia richiesto un provvedimento del collegio medesimo.

  E' proprio codesta configurazione del reclamo fallimentare, a comportare nella specie la non operatività dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ., e quindi la mancanza di un obbligo di astensione; della quale appunto si duole il giudice a quo, che perciò richiede a questa Corte una pronuncia additiva, argomentando anche ex art. 669-terdecies, comma 2, dello stesso codice.

  2.2. - Orbene, a proposito di quest'ultima disposizione, va osservato che con essa é stato introdotto un diverso e più articolato modello di reclamo nell'àmbito del procedimento cautelare uniforme. Ma la scelta legislativa - intesa a realizzare una maggior garanzia in sede di controllo - nel senso di precludere al giudice che ha emesso il provvedimento di partecipare al collegio che deve decidere il reclamo, non rappresenta un archetipo assoluto cui debba uniformarsi necessariamente tutto il sistema processuale. Il legislatore é libero di assicurare in forme diverse, a seconda dei vari modelli di processo, le garanzie inerenti all'esercizio della giurisdizione, purchè rispetti i limiti segnati dai precetti costituzionali. E, d'altronde, appaiono evidenti i profili distintivi, destinati a riflettersi nella diversità delle fasi di controllo, tra il procedimento cautelare uniforme e il processo fallimentare (anche con riguardo a momenti cautelari).

  2.3. - In tale processo, anche per la spiccata rilevanza pubblicistica dell'istituto del fallimento, trova un'accentuazione del tutto particolare il principio di concentrazione di ogni controversia presso gli organi del fallimento medesimo: il che - come si é già sottolineato nella sentenza n. 158 del 1970 - "determina collegamenti ed interferenze processuali inevitabili, perciò non rilevabili agli effetti della legittimazione del giudice, per la prevalente apprezzabile esigenza di portare allo stesso organo giurisdizionale tutto il procedimento e di ridurlo ad unità".

  Il giudice delegato, attraverso la molteplicità dei suoi poteri (amministrativi, decisori, cautelari), assicura la rapidità e continuità delle fasi processuali - valori anch'essi specifici e prevalenti nelle procedure concorsuali - grazie alla presumibile compiutezza della sua conoscenza di fatti, rapporti e situazioni soggettive ed oggettive della procedura (cfr. sentenze n. 351 del 1997 e n.148 del 1996). Conoscenza, che non può andare dispersa, e che deve rapportarsi in modo costante e diretto (non bastando ad assicurare il valore della celerità - allo stato attuale della disciplina complessiva della procedura de qua - una relazione in forma diversa, meno immediata) con il tribunale fallimentare, alla cui collegialità non a caso la recente novella ha riservato anche i giudizi contemplati dal denunciato art. 23, ed i cui decreti sono certamente ricorribili ex art. 111 Cost. ogni volta che questi siano connotati dalla decisorietà propria della sentenza e vengano così ad incidere definitivamente su diritti soggettivi.

  2.4. - Valutando la posizione del giudice delegato in una tale prospettiva, tutta endofallimentare (e coerente con l'impostazione dell'intero regio decreto n. 267 del 1942), appare evidente come dall'unità funzionale della sua complessa figura non sia dato scorporare singoli profili, onde costruire riguardo ad essi l'invocato obbligo di astensione.

  Un'operazione siffatta, che verrebbe ad incidere profondamente nella struttura del processo fallimentare, non può non essere riservata al legislatore. E dunque, in questa sede, rimane solo da ribadire l'auspicio che sia provveduto senza ulteriore ritardo alla tanto attesa riforma legislativa dell'istituto fallimentare nel suo insieme, secondo forme meglio rispondenti ad un equilibrato bilanciamento tra i diversi valori costituzionali che vengono in considerazione con riguardo all'istituto stesso.

  2.5. - Quanto sopra osservato, in coerenza con tutto l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte in tema di processo fallimentare, non risulta certo smentito dall'enunciazione di princìpi contenuta nelle pronunce relative all'art. 34 cod. proc. pen., e in particolare nella sentenza n. 131 del 1996, richiamata dal rimettente per dare consistenza al suo dubbio di illegittimità costituzionale in riferimento all'art. 24 Cost.

  Nella sentenza n. 326 del 1997 - non ancora pubblicata al momento della pronuncia dell'ordinanza di rimessione - si é già precisato che le caratteristiche del processo penale, finalizzato all'accertamento del fatto ascritto all'imputato, a sua volta costantemente assistito dal favor rei, non consentono di trasporre sic et simpliciter nel processo civile le considerazioni svolte relativamente a quello. Qui basta aggiungere che ciò non può non valere a maggior ragione con riguardo alla peculiare disciplina fallimentare.

  2.6. - Proprio codesta peculiarità, che si manifesta anche e segnatamente sul piano degli effetti sostanziali del fallimento, rende parimenti impossibile comparare la posizione dei creditori che agiscono esecutivamente al di fuori delle procedure concorsuali - richiamata quale tertium comparationis dal rimettente nel prospettare, peraltro in via del tutto marginale, la violazione dell'art. 3 Cost. - con la posizione dei creditori fallimentari.

  Come questa Corte ha di recente affermato, la declaratoria di fallimento, cui consegue la necessitata concorsualità delle azioni esecutive dei creditori, "vale a legittimare la diversità di disciplina che il legislatore detta in relazione alle situazioni poste [come sopra] a raffronto" (sentenza n. 234 del 1998).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 51, numero 4, del codice di procedura civile e degli artt. 23, 25, numero 1, e 26 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Emilia, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 ottobre 1998.

Presidente: Giuliano VASSALLI

Redattore: Cesare RUPERTO

Depositata in cancelleria il 6 novembre 1998.