Sentenza n. 272/98

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SENTENZA N.272

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 3, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, promossi, con ordinanza emessa il 5 luglio 1996, dal Giudice designato della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, nel giudizio di responsabilità instaurato dal Procuratore regionale, nei confronti di Lupo Michele, iscritta al n. 1113 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1996 e con ordinanza emessa, il 20 giugno 1996, dal Giudice designato della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, nel giudizio di responsabilità instaurato dal Procuratore regionale, nei confronti di De Feo Alberto ed altri, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1997.

  Udito, nella camera di consiglio del 25 febbraio 1998, il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

 

  1.- Con ordinanza emessa in data 5 luglio 1996 (R.O. n. 1113 del 1996) il giudice designato per la conferma, modifica o revoca, del decreto di sequestro conservativo, adottato il 3 giugno 1996, dal Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana, nei confronti di un presunto responsabile di danno erariale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, denunciandone il contrasto con gli artt. 3, 97 e 108 della Costituzione, nella parte in cui prescrive che il presidente della sezione giurisdizionale, anzichè limitarsi a designare il giudice al quale é affidata la trattazione del procedimento, provvede egli stesso ad autorizzare il sequestro con proprio decreto.

  1.2.- Il rimettente ritiene la disposizione denunciata in contrasto con i principi "di logicità, buon andamento e indipendenza del giudice" (artt. 3, 97 e 108 della Costituzione), in quanto la devoluzione dell’ulteriore fase del procedimento ad un giudice diverso da quello che ha emesso il decreto di sequestro comporterebbe una "irrazionale frantumazione del procedimento stesso" e l’attribuzione del provvedimento conclusivo ad un organo che, "pur se libero da formali rapporti di subordinazione gerarchica con il presidente, viene a trovarsi in una situazione della quale non può sfuggire la delicatezza, dovendo riesaminarne ed eventualmente censurarne l’operato".

  In definitiva, il sistema previsto dal codice di procedura civile, che attribuisce al presidente la sola designazione del giudice competente a pronunciarsi sull'istanza di sequestro, sarebbe l’unico idoneo a garantire il principio di unicità e continuità del giudizio, oltre che il rispetto delle competenze funzionali e dell’ordinaria composizione del collegio giudicante.

  2.- Anche la seconda delle ordinanze in epigrafe - emessa in data 20 giugno 1996 (R.O. n. 181 del 1997) dal giudice designato per gli ulteriori provvedimenti relativi al decreto di sequestro conservativo adottato il 10 maggio 1996, nei confronti di alcuni presunti responsabili di danno erariale, dal Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia - dubita della legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 3, lettera a), del già menzionato decreto- legge, che viene denunciato per contrasto con l’art. 25, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la designazione del giudice venga effettuata sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.

  2.1.- Ad avviso del rimettente, la collocazione del principio del giudice naturale nella parte della Costituzione concernente "i diritti ed i doveri dei cittadini" ne avvalorerebbe l’interpretazione come strumento di garanzia a favore del cittadino, in stretto rapporto con il riconoscimento del diritto di difesa (art. 24 della Costituzione), venendo, perciò, a riguardare "la designazione del giudice in relazione a ciascuna regiudicanda", mentre, diversamente, l’art. 102, primo comma, della Costituzione, nel vietare l’istituzione di giudici speciali e straordinari, salvaguarderebbe "l’apparato giudiziario astrattamente considerato".

  Nel rammentare che la Corte costituzionale, fin dal 1962, con la sentenza n. 88, ha ritenuto che "precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione sono criteri fra i quali non si ravvisa una possibile conciliazione", l’ordinanza osserva che la considerazione del fine perseguito dall’art. 25 suffragherebbe la tesi che il principio del giudice naturale vada riferito anche al "magistrato-persona fisica".

  Infatti, se il principio del giudice naturale, oggetto di riserva assoluta di legge, é uno strumento di garanzia dell’indipendenza e della imparzialità del giudice, come la Corte ha affermato in numerose decisioni, la finalità perseguita dal Costituente sarebbe vanificata se ci si limitasse ad assicurare il formale rispetto della competenza dell’ufficio giudiziario precostituito per legge, ma si ammettesse, poi, che la ripartizione interna degli affari fra i magistrati, la composizione dei collegi ed altri aspetti analoghi del profilo organizzativo dell’attività giurisdizionale continuassero ad essere affidati "a provvedimenti discrezionali, presi dai capi degli uffici ed ex post rispetto alla fattispecie concretamente verificatasi".

  L'interpretazione del termine giudice come riferito alla persona fisica si giustificherebbe, inoltre, con due ordini di considerazioni: da un lato, la strumentalità della precostituzione del giudice rispetto all’imparzialità della funzione giudiziaria, sicchè la garanzia avrebbe un senso solo se riferita, per l'appunto, al "giudice-persona fisica", poichè é soltanto in relazione agli atteggiamenti psicologici di questi che può valutarsi se sussista o meno l’imparzialità; dall’altro, il carattere creativo dell’attività interpretativa del giudice, che recherebbe insita la possibilità di dare soluzioni diverse a casi analoghi, pur in applicazione della stessa legge.

  Rilevato, quindi, che il principio dell'art. 25, primo comma, della Costituzione tende a realizzare ed a garantire la permanenza di un effettivo pluralismo all'interno della magistratura, escludendo che l'assegnazione di un processo venga fatta post factum, e che lo stesso principio non avrebbe alcuna ragion d’essere in una situazione di assoluta fungibilità dei giudici, l’ordinanza assume che, nel caso in esame, le esigenze di obiettiva precostituzione risultano vanificate dalla disposizione denunciata, che attribuisce al presidente della sezione giurisdizionale il potere di designare, in modo assolutamente discrezionale ed insindacabile, il magistrato per l’ulteriore fase del giudizio cautelare.

  Secondo l’ordinanza, l’esigenza che, nel giudizio cautelare, il giudice sia designato in base a criteri obiettivi e predeterminati, pur essendo comune anche agli analoghi giudizi che si svolgono innanzi ai giudici ordinari nella fase anteriore alla causa (v. art. 669-ter, terzo comma, cod. proc. civ.), assume maggiore spessore presso la giurisdizione contabile, posto che, presso di essa, non vige il sistema delle c.d. "tabelle degli affari giudiziari", previsto, invece, per l’ordinamento giudiziario e strutturato in modo da offrire un quadro analitico delle diverse ripartizioni in cui l’ufficio é articolato, del ruolo assegnato a ciascun magistrato e della composizione di ogni singolo collegio che opererà secondo un calendario programmato. Nel ricordare che il procedimento di formazione delle tabelle é circondato da speciali garanzie, giacchè detta formazione deve essere deliberata dal Consiglio superiore della magistratura, all’esito di un procedimento aperto alla partecipazione ed alle osservazioni o reclami dei magistrati interessati, l’ordinanza rileva come al sistema tabellare abbiano fatto richiamo, nel tempo, varie leggi, a partire dalla legge n. 532 del 1982, istitutiva del Tribunale della libertà. Nel ripercorrere le varie tappe della evoluzione della disciplina legislativa in materia, l’ordinanza rileva che, fin dal 1984, il Consiglio superiore della magistratura, con ripetute circolari, ha costantemente richiesto che i capi degli uffici formulino anche "criteri obiettivi e predeterminati" per la distribuzione degli affari tra le sezioni e per "l’assegnazione di essi ai singoli magistrati"; criteri, che, allegati alle tabelle, vanno assoggettati allo stesso procedimento di approvazione delle stesse.

  La regola così elaborata dal Consiglio superiore ha, poi, trovato codificazione in vari interventi legislativi e, con specifico riguardo agli affari penali, nell’art. 7-ter della legge sull’ordinamento giudiziario (aggiunto dall’art. 4 del d.P.R. n. 449 del 1988), nonchè, in materia di applicazione dei magistrati, nella legge 16 ottobre 1991, n. 321: leggi che hanno affidato al Consiglio superiore il compito di indicare in via generale i criteri obiettivi e predeterminati di assegnazione degli affari, nel primo caso, e, per la scelta dei magistrati da applicare, nel secondo caso.

  Rilevato che le dette regole sono state ritenute applicabili dal Consiglio superiore anche alla materia civile e a quella cautelare, il giudice a quo ritiene che l'excursus in ordine al "sistema tabellare" valga a dimostrare come l’assenza, nel giudizio innanzi alla Corte dei conti, di criteri obiettivi e predeterminati, che vincolino il potere del presidente della sezione giurisdizionale regionale, nella designazione del giudice di cui all'art. 5, comma 3, lettera a) del decreto- legge n. 453 del 1993, comporti il rischio di scelte atte a concretare proprio la situazione che il Costituente ha inteso impedire.

Considerato in diritto

 

  1.- Entrambe le ordinanze in epigrafe dubitano, sotto diversi profili e con riferimento a differenti parametri, della legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 3, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19. Tale disposizione affida al presidente della sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti la competenza a disporre, con proprio decreto motivato, sulla domanda di sequestro conservativo proposta dal procuratore regionale ed a fissare contestualmente (secondo quanto stabilisce la lettera a della medesima norma) l'udienza di comparizione innanzi al giudice designato, al quale spetta, con propria ordinanza, la conferma, la modifica o la revoca dei provvedimenti cautelari adottati.

  2.- I giudizi, avendo ad oggetto questioni tra loro connesse, vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

  3.- La prima delle ordinanze denuncia la disposizione stessa nella parte in cui stabilisce che il presidente della sezione, anzichè limitarsi a designare il giudice al quale é affidata la trattazione del procedimento, disponga egli stesso il sequestro.

La devoluzione dell’ulteriore fase della trattazione del giudizio cautelare ad un giudice diverso ne comporterebbe - secondo il giudice a quo - "una irrazionale frantumazione", in ragione dell’attribuzione del provvedimento conclusivo ad un organo che, se pur libero da formali rapporti di subordinazione gerarchica con il presidente, si trova a doverne riesaminare ed eventualmente censurare l'operato.

Di qui il denunciato contrasto della norma "con i principi di logicità, buon andamento e indipendenza del giudice", sanciti negli artt. 3, 97 e 108 della Costituzione.

  3.1.- La questione é manifestamente infondata.

Del tutto impropriamente appare, anzitutto, richiamato il parametro dell’art. 97 della Costituzione, relativamente ad una questione concernente l’esercizio della funzione giurisdizionale, avuto riguardo ai provvedimenti che, nel contesto di tale esercizio, possono e devono essere adottati.

Alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, il canone del buon andamento investe, infatti, l’amministrazione della giustizia unicamente per ciò che attiene all’ordinamento degli uffici giudiziari ed al loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, ma non si estende all’esercizio della funzione giurisdizionale (cfr., da ultimo, ordinanza n. 103 del 1997).

Quanto agli altri due parametri invocati, e cioé gli artt. 3 e 108 della Costituzione, l'ordinanza prospetta, in sostanza, un rischio di condizionamento psicologico, e quindi di compromissione dell’imparzialità, che il giudice designato per la conferma, modifica o revoca del provvedimento potrebbe subire per il fatto di essere chiamato a pronunciarsi su un decreto assunto dal presidente della sezione presso la quale egli é incardinato.

Osserva, in proposito, la Corte che, in realtà, la soggezione agli accennati poteri presidenziali di organizzazione e distribuzione degli affari giurisdizionali non rappresenta altro che la normale condizione di ogni apparato giurisdizionale, tale da non poter apportare di per sè turbamento al libero esercizio della funzione, in presenza dei mezzi di tutela previsti dalla legge a garanzia dell'indipendenza del giudice, in attuazione proprio dell'art. 108, secondo comma, della Costituzione, invocato come parametro di giudizio dall'ordinanza di rimessione.

  Ad escludere il supposto condizionamento psicologico sta, in primo luogo, la circostanza che, tra il presidente ed i magistrati assegnati alla sezione, non intercorre alcun rapporto di dipendenza gerarchica, nell’ambito di un ordinamento caratterizzato da diversità di funzioni e tale da riservare al primo soltanto compiti di organizzazione e direzione, strumentali all'esercizio della funzione giudicante, la quale é affidata paritariamente ai componenti del collegio (o, nella specie, al giudice singolo).

  Inoltre, nè la nomina, nè le promozioni, nè la stessa assegnazione delle funzioni dipendono da provvedimenti di competenza del presidente, spettando essi ad organi diversi ed essendo regolati da meccanismi volti a garantire obiettività di determinazioni.

  Deve, infine, considerarsi che il presidente della sezione giurisdizionale, il quale emette il decreto motivato di sequestro, ed il giudice da lui designato per gli ulteriori adempimenti intervengono in due diversi momenti del procedimento e sulla base di diverse valutazioni, in quanto, in effetti, il giudice designato, a differenza del presidente, provvede dopo aver sentito le parti.

4.- I dubbi di legittimità costituzionale prospettati con la seconda ordinanza investono la medesima disposizione, con particolare riguardo alla sua lettera a), nella parte in cui non prevede che la designazione del giudice, al quale é demandato il riesame del decreto presidenziale di sequestro conservativo, venga effettuata dal presidente della sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.

Secondo il rimettente il carattere assolutamente discrezionale ed insindacabile del potere presidenziale non sarebbe compatibile con l'esigenza di obiettiva precostituzione del giudice, disattendendo, così, il principio di cui all'art. 25, primo comma, della Costituzione.

4.1.- La questione non é fondata, nei sensi di cui si dirà.

Questa Corte, già da tempo, ha avuto occasione di affermare che la finalità perseguita dall’art. 25, primo comma, della Costituzione, nell’enunciare il principio del giudice naturale precostituito per legge, é quella di assicurare l’assoluta imparzialità degli organi giudiziari, sottraendo la loro competenza ad ogni possibilità di arbitrio (sentenza n. 127 del 1979 e da ultimo sentenza n. 460 del 1994).

Il dettato costituzionale, significativamente collocato, come ricorda anche il giudice a quo, nella parte della Costituzione concernente "i diritti e i doveri dei cittadini", é volto a garantire "la certezza del cittadino di veder tutelati i propri diritti e interessi da un organo già preventivamente stabilito dall'ordinamento e indipendente da ogni influenza esterna" (sentenza n. 156 del 1985), proprio perchè istituito sulla base di criteri generali fissati in anticipo dalla legge, e non già in vista di singole controversie.

4.2.- Il rimettente, muovendo dall'assunto che il rispetto del principio costituzionale postuli un rapporto giudice- causa, del quale sarebbe vano prefissare uno solo dei termini ove l'altro, il giudice, possa poi essere soggetto, di volta in volta, a modifiche, pone una questione che attiene ai criteri di individuazione della persona chiamata a svolgere la funzione dopo l'insorgenza della regiudicanda, in tal guisa evocando una delle due prospettive (giudice come ufficio e giudice come persona) che la giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di considerare, con riferimento - occorre precisare - alle diverse fattispecie su cui di volta in volta é stata chiamata a pronunciarsi, e non in ragione di incertezze interpretative sulla portata del principio, o di letture limitative dello stesso come sembra, invece, assumere l'ordinanza.

In relazione al secondo dei menzionati profili la Corte, dopo aver rilevato l'inconciliabilità, in linea generale, fra precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione (sentenza n. 88 del 1962), ha avuto in prosieguo occasione di soffermarsi specificamente sul tema della discrezionalità spettante ai capi degli uffici per l'assegnazione degli affari, precisando che il relativo potere deve essere rivolto unicamente al soddisfacimento di obiettive ed imprescindibili esigenze di servizio, allo scopo di rendere possibile il funzionamento dell’ufficio e di agevolarne l’efficienza, restando, invece, esclusa qualsiasi diversa finalità (sentenze nn. 143 e 144 del 1973; ordinanza n. 93 del 1988).

4.3.- Quanto agli assetti che, sul piano ordinamentale, possono essere apprestati al fine di dare concretezza ed effettività ai richiamati principi, la Corte é dell'avviso che, una volta escluso che la nozione di giudice naturale si cristallizzi nella determinazione legislativa di una competenza generale (v. sentenza n. 42 del 1996), il problema sia pur sempre quello di contemperare obiettività ed imparzialità con continuità e prontezza delle funzioni. Fra le possibili soluzioni di un siffatto problema, il rimettente richiama la disciplina vigente per i giudici ordinari, che prevede l'applicazione del c.d. sistema delle tabelle e, più recentemente, a seguito di specifica disposizione legislativa, l'indicazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, in via generale, dei criteri obiettivi sia per l'assegnazione degli affari penali (art. 7-ter della legge sull’ordinamento giudiziario aggiunto dall’art. 4 del d.P.R. n. 449 del 1988), sia per l'applicazione dei magistrati (art. 1 della legge 16 ottobre 1991, n. 321 di modifica dell’art. 11° della medesima legge sull’ordinamento giudiziario).

Ma la sopra ricordata regolamentazione, paradigmaticamente evocata dal giudice a quo, non vale, tuttavia, a dar fondamento alla richiesta di declaratoria di incostituzionalità, nei termini in cui la stessa risulta qui sollecitata.

Nessun dubbio sussiste, invero, sull'importanza delle garanzie dell'indipendenza e terzietà della funzione anche per la magistratura della Corte dei conti, alla stregua della previsione dell'art. 108 della Costituzione, tant'é che per essa risulta istituito (art. 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117) un Consiglio di Presidenza al quale sono affidate le deliberazioni sulle assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti e promozioni e su ogni altro provvedimento riguardante lo stato giuridico dei magistrati. Ciò non significa, tuttavia, che le esigenze rappresentate dall'ordinanza portino ad una dichiarazione di incostituzionalità della disposizione censurata, potendosi, infatti, la soluzione della prospettata questione, far discendere, senza eccessive difficoltà e in maniera piana, dalla stessa ratio del principio dell'art. 25, primo comma, della Costituzione e dai valori che esso tende a tutelare. Invero la connessione fra imparzialità e precostituzione che si ricava da detto principio, nell'escludere, come già detto, che i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario, consente di ritenere che l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari, in quanto espressivi di un'esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità nè di una specifica previsione legislativa nè, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte. In tal senso, come la stessa ordinanza ricorda, depone anche la prassi del Consiglio superiore della magistratura che, per gli affari civili, in assenza di norme analoghe a quelle della materia penale, richiede comunque che i capi degli uffici diano, in sede di proposte tabellari, indicazioni "sui criteri obiettivi e predeterminati" seguiti per le assegnazioni. Ferma dunque la facoltà del legislatore, ove lo ritenga, di intervenire per disciplinare la materia, la questione é da ritenere, perciò, non fondata, potendo pervenirsi già ora, nell'ordinamento vigente per la Corte dei conti, alla formulazione di criteri per l’assegnazione degli affari attraverso l'esercizio dei poteri spettanti ai capi degli uffici, secondo modalità che non spetta a questa Corte indicare, se non nel senso che esse siano tali da garantire, comunque, la verifica ex post della loro osservanza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara:

- la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 108 della Costituzione, con la prima delle ordinanze in epigrafe, dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana;

- non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 5, comma 3, lettera a), sollevata, in riferimento all’art. 25, primo comma, della Costituzione, con la seconda delle ordinanze in epigrafe, dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Massimo VARI

Depositata in cancelleria il 17 luglio 1998.